Carbonia. Un tempo
speranza per moltitudini indefinite di persone, giunte da tutte le Regioni
d’Italia per trovare un lavoro, forse lusingate dalla propaganda totalizzante
del regime, celebrante ossessivamente la propria potenza sociale ed
edificatrice. In tanti furono collocati nelle innumerevoli miniere disseminate
nel territorio, in cui trovarono sostentamento per le proprie famiglie ma
talvolta anche la malattia, che giungeva definitiva su deboli corpi snervati
dalla fatica. Numerosi libri, disparate ricerche, centinaia di pagine hanno
parlato e ci parlano delle vicissitudini, del dolore, della storia e del
coraggio di questi indomiti operai, uomini sacrificati sull’altare pagano del
salario in una Repubblica fondata sinistramente sul lavoro. Eccoli, pertanto, lavoratori
ammazzati dalle frane, lavoratori lacerati da esplosioni sotterranee,
lavoratori morti per silicosi, lavoratori intrappolati, schiacciati, strozzati
da micidiali esalazioni nocive…
Già, Carbonia,
emblematica città del carbone. Città sorta improvvisamente dalla polvere, un
po’ come la mitica Las Vegas, realizzata tuttavia nel deserto americano e non
nelle solitarie campagne del Sulcis. Carbonia, città simbolo della potenza mistificatrice
del regime fascista, città metafora dell’utopia stessa della dittatura
imperialista, che ambiva a plasmare un insieme eterogeneo di persone per
tramutarle in Nazione compatta, concentrata e solida… Con le dovute proporzioni
il nucleo sulcitano rispecchia ciò che il fascismo fece, o tentò di fare,
sull’estesa penisola fusa dalle armi dei Savoia. Una Nazione inesistente, una Nazione
composta da popoli, etnie e culture diametralmente opposte e variegate.
Repubblica di Venezia, Stato Pontificio, Granducato di Toscana, Regno Sardo
Piemontese e quello Delle Due Sicilie, microcosmi in cui si strutturarono
consuetudini sociali ed intellettuali che prendevano vita da esperienze
profondamente diverse. Il fascismo provò ad accordare queste discordanze, cercò
di farlo con l’immagine, con la propaganda, forse tentò con l’ordinamento
giuridico, di certo provò col manganello e con la spada. A Carbonia tentò di
farlo promettendo lavoro e prosperità ma queste masse, più che dalle pianificazioni,
dagli slogan istituzionali e dalle prestigiose rappresentazioni, furono
compattate dal cemento del dolore e delle difficoltà quotidiane, dall’antica
battaglia dei popoli per la sopravvivenza e l’onore.
Attraversando le strade
di Carbonia si possono incontrare individui che nulla hanno in comune se non le
linee verticali del loro destino. I tratti somatici sono sostanzialmente
diversi: ecco un viso nordico ed uno meridionale, un ragazzo dai tratti
africani ed uno dai lineamenti anglosassoni, ed ancora singolari incroci di
cromosomi, quasi stessimo visitando un laboratorio genetico a cielo aperto. Chissà…
Sarebbe stato interessante vivere in quei tempi, per verificare in prima
persona gli albori di questo nostrano melting pot, come gli yankee
chiamano il coabitare di differenti etnie su un medesimo territorio. Questa
cittadina è infatti un infinitesimale melting pot, un miscuglio, un
promiscuo impasto in cui furono forgiate le differenti culture della nostra
Nazione. Napoletani, veneti, siciliani, laziali, abruzzesi, qualsivoglia genere
di meridionali e naturalmente sardi. Tutti insieme catapultati in un giovane ed
asciutto contesto ambientale, ammassati in abitazioni identiche le une alle altre,
a schiera, lineari, a croce, secondo uno stile architettonico rispecchiante
l’ordine generale ambito dal romano regime. Oggi come allora l’intreccio è
certificato dai cognomi ancora presenti, come tracce lasciate sulla sabbia da
uno stanco venditore di tappeti orientali. Cognomi non di certo sardi, talvolta
lombardi o calabresi, cognomi grotteschi, cognomi che talvolta si trasformano
in aggettivi, sostantivi o verbi. Cognomi appartenenti a famiglie un tempo
dominatrici, cognomi che potrebbero evidenziare un vizio oppure una colpa della
casata originaria, cognomi che documentano lo stato d’abbandono al momento
della nascita, cognomi che talvolta storpiano, etichettando un individuo già nel
vitale istante in cui, nascituro, emigrò piangente dall’utero materno.
I ricordi della
cittadina si manifestano non appena chiudo gli occhi. Soltanto allora posso
ancora vederli, mentre ancheggiano nelle strade abbondanti soltanto di pietrame
e polvere. Anziani dimenticati su panchine isolate, anziani barcollanti nei
larghi marciapiedi, anziani morenti, solitari, sgretolati, mentre si dirigono
fiaccamente verso l’appagante ingresso in una Chiesa dalle linee moderne.
Ricchi di patos e rassegnazione, incedono stoicamente coi loro consueti bastoni,
meditando sulle frasi del prossimo dialogo con l’Altissimo. Si, l’Altissimo, il
Direttore generale, il Capo Squadra, quale forme assumerà l’idea
dell’Onnipotente nella loro fantasia onirica, con quale voce Questo risponderà
alle loro affermazioni? Con quella dell’amico d’infanzia, del padre, della
madre, della prostituta a cui rivelarono tutti gli intimi segreti, oppure della
moglie persa in una corsia d’ospedale, proprio quando sembrava che potesse
farcela… Ebbene si, parleranno coi morti, chiederanno giustizia oppure perdono per
delle mancanze, per delle parole, per degli atti scolpiti nell’immacolato marmo
dell’eternità. Cosa mai domanderanno, inginocchiati sui banchi di legno
massiccio, cosa reclameranno, durante lo scandire delle preghiere ritmate? Una
morte indolore, la telefonata di un figlio irriconoscente, la parola gentile di
un’infermiera diventata troppo esigente? Oppure chiederanno un briciolo di gioventù,
magari col pugno agitato verso il Crocefisso così, per mostrare ancora di cosa
sono capaci, di quali gesta gagliarde e temerarie sono ancora custodi. Una
rivincita, un duello, un faccia a faccia nel regno dei morti, una richiesta da
niente, un piccolo tributo sull’altare della loro coerenza, nient’altro…
Eccoli allora
atomizzati, in braccio a quelle strade ciottolose che conoscono alla
perfezione. Quando un conoscente li saluta accennano un sorriso, nello sguardo
la lontana gioventù scivolata troppo rapidamente, come quella nave che
attraversò il Tirreno per catapultarli là, nel Sulcis, il granaio dei romani,
lontani dalle loro madri, dalle loro amicizie e dai primi malinconici amori…
Non so. Si riconosceranno nei giovani che osservano vagabondare sulle stesse
strade impolverate? Magari intuiscono quegli sguardi, comprendono la loro pelle
e qualche accento non del tutto dissolto, tracce affievolite d’appartenenza a
famiglie che non hanno perso del tutto le proprie peculiarità. Si, quei giovani
apatici e disperati, quei giovani certamente più istruiti ma del tutto
ignoranti dell’essenziale. Quei giovani dal futuro tecnologico su cui s’erano
riposte aspettative straordinarie, quei giovani divenuti già uomini ed
immortalati nelle immagini sbiadite, qualcuna persino in bianco e nero,
qualcuna già sulle marmoree lastre dei cimiteri, vittime del lavoro,
dell’ebbrezza o di droghe, ma in primo luogo di se stessi. Giovani emigrati
verso legittimi sogni, come tanti anni prima tentarono loro, attratti
fatalmente dalle ridondanti sirene del regime.
Dinanzi a noi si
presenta pertanto il ponte immaginario tra queste generazioni
disarticolate, tra questi anziani, eternamente seduti sulle panche solitarie, e
quei giovani occultati negli angoli delle strade. Il legame ideale, ovvero una
meta fatalmente inseguita per generazioni, un’ambizione cresciuta con lo
scorrere del tempo, un’attesa identificabile in un concetto fragile ed
inconsistente. Come in altre province dell’isola, anche qui il lavoro si
trasforma nella ragione del profetico esodo verso altre regioni, come se
Carbonia si trovasse in una fase d’implosione, e le famiglie giunte dai
territori d’oltremare stessero rimpatriando nei rispettivi contesti, come se
nulla fosse mai accaduto, come se nessuna città fosse mai stata realizzata. Inseguendo
il lavoro s’insegue parallelamente la speranza, e tu l’intuisci nei giovani
disoccupati, riconosci quelle espressioni quando parlano della crisi di Porto
Scuso, della Cassa Integrazione o dello smembramento delle loro aziende.
Identifichi facilmente quelle voci e quegli sguardi, sai distinguere con certezza
le identiche conclusioni rassegnate. Le stesse parole e le stesse frasi
soffocate, nel Sulcis come in Ogliastra, nel Marghine come nel Sassarese. Questi
giovanti disorientati accomunati da una prospettiva: partire, abbandonare
queste città per condurre un’esistenza dove non si debba chiedere nulla, dove
non si debba contestare nulla, dove non si debba salire sulle ciminiere delle
fabbriche per urlare le proprie rivendicazioni. Ognuno con una chiara vocazione,
tutti con l’identica speranza: poter ritornare in questa terra e tra queste persone,
per ricavarsi uno spazio nella città in cui sono nati e cresciuti. Ritornare… Perché
la propria casa non può essere sostituita da un’altra casa, e nessuno intende ribellarsi
alla nostalgia travolgente che inonda questo cuore di esuli. Sardegna mia, per
quanto tu sia bella, illimitatamente splendida e fiera, ti trasformi in un
abbaglio che non si può abbracciare.
Di Vincenzo Maria D’Ascanio
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