Carl Schmitt era convinto (a ragione!)
che non fosse possibile dir nulla di significativo su cultura e storia senza
essere consapevoli della propria situazione culturale e storica. Ecco, ti
guardi intorno, ascolti, osservi, sia pure svogliatamente, come capita a me, la
campagna referendaria e ti rendi conto del Nulla assoluto che ti circonda; e
non è una questione che si possa ridurre ad un Si o un NO da barrare, per chi
ne avrà voglia e stomaco, il prossimo 4 dicembre sulla scheda referendaria.
Posto che lo Stato, inteso come unità
politica, ha rinunciato da tempo alla pretesa del “comando” nella lotta
economica (e le lotte sono, almeno a partire dalle fine del secolo XIX, lotte
economiche), ridurre la questione “democratica” a quella costituzionale
significa, di fatto, considerarla poco più un postulato ideologico e ridurla a
poco meno di una sorta di “giustificazione” della politica e/o, per meglio
dire, del ceto politico.
Ha forse conservato la Costituzione
politica la sua originaria capacità ordinante, la sua “pretesa” di contenere,
da sola, le regole fondamentali della convivenza economica, sociale e politica
di una intera Nazione? Dacché la politica, o per meglio dire il “politico”, ha
smesso di confrontarsi con le profonde trasformazioni, che hanno finito per
svuotarne dall’interno concetti e categorie, si è ridotta a vuote liturgie, al
piatto conformismo e alle comodità del discorso spettacolare.
La contesa referendaria, con la sua
smania “riformatrice” da un lato, e la conservazione di una ordine
costituzionale che ha perso ogni concreta capacità di “ordinare” (e men che
meno in senso “progressivo”) dall’altro, si svolge esattamente su questo piano,
in cui ai più appare difficile cogliere la relazione tra mezzi e fini. Tra una
riforma mal concepita e peggio scritta, foriera di probabili disfunzioni
sistemiche, e la difesa di una Costituzione “senza vita”, quasi fosse destinata
all’eternità, ci sarebbero, in mezzo, le vere leggi costituzionali: la legge di
bilancio e quella elettorale.
La prima è già stata messa in
“cassaforte” dalla riforma dell’art. 81, mentre la seconda sarà,
presumibilmente, l’altro frutto avvelenato di questa sbagliata riforma
costituzionale. Comunque vada, che vinca il SI oppure il NO (soluzione che
personalmente trovo meno dannosa), la fuori uscita dal delirante neoliberalismo
globalizzato si annuncia in ogni caso sempre all’insegna del delirio, magari in
rinnovata veste sovranista e identitaria. E se qualcuno pensa che la vittoria
del NO (come io spero) possa rappresentare, come mi capita di leggere e
sentire, la condizione per una ricomposizione del campo della cosiddetta “sinistra”,
io credo si sbagli di grosso: troppe aspettative frustrate, troppi tradimenti
consumati.
Luca Pusceddu
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