Unione Sarda
Lo stupore dei
big sardi: «Spaccatura assurda» «Ma è colpa di Matteo»
Tre minuti dopo le otto di sera. L'assemblea
nazionale del Pd si è chiusa da meno di tre ore. E ne sarà passata a malapena
una dalla dichiarazione di Emiliano, Speranza e Rossi, che di fatto annuncia la scissione. «Non riesco a capire», confessa al
telefono il deputato Francesco Sanna: «Siamo andati via dall'assemblea pensando
che ci fosse una schiarita. Dopo il discorso di Emiliano,
tutti avevamo capito che lui stesse abbandonando l'idea di andarsene».
STUPORE E invece no, anche se fino a tarda sera
nessuno ha ancora ben chiaro che cosa stia accadendo. «Se ci fosse davvero la
scissione sarebbe gravissimo», prosegue Sanna. «Sembrava
solo un problema di tempi del dibattito congressuale». Lo stupore e
l'avvilimento del deputato sulcitano, candidato alla segreteria regionale del
Pd, è lo stesso di uno dei suoi due concorrenti, il senatore Giuseppe Luigi Cucca,
anche lui reduce dall'assemblea: «È stata una giornata di grande sofferenza,
speravo in una ricomposizione. Non capisco i motivi dello strappo: solo per i
tempi del congresso? Sabato alla riunione della minoranza è stato detto che
Renzi se ne deve andare, ma questa è una pretesa assurda». Per altro, secondo
Cucca, «lo stesso segretario ha ammesso di aver fatto errori, ma poi ha
praticamente accolto tutte le richieste della minoranza».
Non la pensa così invece il terzo candidato alla
guida del Pd regionale, Yuri Marcialis, che ha seguito l'assemblea da casa:
«Renzi sta seguendo la strada che aveva già deciso»,
commenta, «prima le dimissioni, poi subito la direzione nazionale per dettare i
tempi del congresso. La sua relazione di apertura sembrava già l'inizio della campagna
elettorale per le primarie. Se poi non fa nemmeno la replica finale, significa
che tutto il dibattito non serve a nulla».
CRITICHE AL LEADER Marcialis si è proposto alla
guida del partito per conto di un'area che va dagli ex civatiani ad ampi
pezzi della sinistra interna: legittimo chiedersi se anche lui intenda
lasciare. «Non sto uscendo dal Pd - risponde - e la mia candidatura resta in campo.
Anzi, se chi dice di tenere all'unità del partito volessero lanciare un segnale
a Renzi, potrebbe sostenere me». In Sardegna i renziani occupano tutti gli
incarichi istituzionali, «ma il vero problema - conclude - è che la scissione
la stanno facendo soprattutto i tanti militanti che non hanno rinnovato la
tessera».
Riflessione simile a quella, molto dura verso
Renzi, del deputato Marco Meloni: «Sento tanti cittadini che non vogliono più
votare questo Pd. Certo, Matteo ha ancora consenso, ma è assurdo che voglia fare
un congresso subito perché sa di perdere le prossime amministrative e vuole
rafforzare la sua posizione. Se hai quel timore, cerca di vincere nei Comuni,
non di vincere un congresso».
Meloni, da sempre molto vicino all'ex premier
Enrico Letta, non sa ancora che cosa deciderà personalmente: «Ma anche se
restassi nel partito, questo non è più il Pd per cui la mia generazione
politica ha lavorato tanto. Quel partito sintetizzava l'idea della fatica di ascoltare
anche voci lontane, metterle insieme per il bene del Paese. Nasceva dal presupposto
di un rispetto reciproco che ora non vedo, fin dai primi atti del segretario,
come far fuori un presidente del Consiglio del nostro partito». Secondo il
deputato quartese, «Renzi ha condotto questa vicenda in modo del tutto
irresponsabile. In assemblea non ha neppure risposto alle richieste della
minoranza. Spero solo che ci sia ancora lo spazio per evitare la scissione, che
per il Pd sarebbe un esito luttuoso». G. M.
Inutili
i molti appelli all'unità. Renzi lascia per aprire il congresso
Pd,
assemblea choc Niente intesa, è scissione
ROMA «Sono contento di parlare dopo
il sosia di Emiliano».
All'assemblea del Pd il
sottosegretario Antonello Giacomelli -
giornalista, toscanaccio di Prato -
fa lo spiritoso: quanto si
assomigliano il presidente della
Puglia, che sabato infiammava la
riunione antirenziana, e il signore
corpulento ed emozionato che ora
ha «fiducia nel segretario», giura
che «nessuno potrebbe pensare» che
Renzi non deve ricandidarsi e la
scissione siamo «a un passo
dall'evitarla».
È chiaro a tutti, insomma, a
Giacomelli e ai big e ai quasi big che
fino ad allora dalla tribunetta di
Parco dei Principi predicavano
unità, che se non tutta, almeno metà
scissione è svanita.
Ma sono ancora le 16,32.
COMUNICATO Alle 18,59 un comunicato
cambia il verso della giornata e
la storia del più importante partito
progressista europeo. Emiliano
non si è ammansito, anzi con Roberto
Speranza ed Enrico Rossi, che
come lui volevano candidarsi alla
segreteria, annuncia: «È ormai
chiaro che è Renzi ad aver scelto la
strada della scissione
assumendosi così una responsabilità
gravissima».
Quanto alle aperture del pomeriggio,
non erano una fuga all'indietro
del governatore pugliese ma
un'iniziativa concordata con gli altri
concorrenti: «Anche oggi nei nostri
interventi in assemblea c'è stato
un ennesimo generoso tentativo
unitario. È purtroppo caduto nel nulla.
Abbiamo atteso invano un'assunzione
delle questioni politiche che
erano state poste, non solo da noi,
ma anche in altri interventi di
esponenti della maggioranza del
partito. La replica finale non è
neanche stata fatta».
È vero, Renzi non ha concluso
l'assemblea con un suo intervento. L'ha
solo aperta, in mattinata,
alternando l'elogio del rispetto reciproco
e gli inviti all'unità a
sottolineature brusche sulla differenza fra
la scissione - sopportabile - e i
ricatti (insopportabili). E se
qualcuno vorrebbe un suo passo
indietro, sappia che «avete il diritto
di sconfiggerci, non quello di
eliminarci».
PADRI NOBILI Dopo il segretario non
più in carica - nella relazione di
apertura Renzi ha dato le annunciate
dimissioni, aprendo la stagione
congressuale per i prossimi quattro
mesi - hanno parlato suoi
predecessori come Veltroni e
Franceschini, padri nobili come Franco
Marini e Piero Fassino, critici di
Renzi come il ministro Andrea
Orlando e soprattutto Gianni
Cuperlo: per tutti la parola d'ordine è
il no alla scissione, l'appello ai
sentimenti unitari alternato a
considerazioni tattiche
sull'inopportunità di andare alle politiche
dopo mesi spesi a parlare solo e
soltanto di scissione.
IL PASSETTINO Ma gli appelli non
possono bastare. L'apertura vera, il
passettino al quale accennava
l'Emiliano prima maniera avrebbe dovuto
farlo Renzi.
Ad esempio accettando l'idea della
conferenza programmatica che
Orlando e il suo collega
all'Agricoltura Martina (dato dalle
complicate geografie interne come
leader dell'ala sinistra dei Giovani
Turchi) chiedevano in assemblea.
Oppure «chiudendosi in una stanza con
Emiliano, Rossi e Speranza», come
chiedevano altri. O ancora
accettando di riflettere su un iter
congressuale più lungo, che
potesse dare ai candidati
alternativi fiato pe qualche chance non
simbolica di vincere il congresso.
Oppure, semplicemente, dicendo
qualcosa.
IL MURO Invece Renzi non ha
replicato. Ha «alzato un muro», borbotta
sconfortato Pierluigi Bersani in tv.
«Ha alzato un muro», farà eco
poco dopo Rossi. Ha alzato un muro e
si è assunto una responsabilità
gravissima, diranno
Rossi-Speranza-Emiliano poco dopo, lasciando al
vicesegretario Lorenzo Guerini il
compito di dirsi «esterrefatto ed
amareggiato» per una «decisione già
presa». Lo era di sicuro, ma forse
non solo da loro.
Domani si riunisce la direzione:
l'ha convocata a fine assemblea
Orfini, presidente del Pd, perché
avvii il congresso. Quando lo ha
fatto pareva ci fossero quattro
candidati e un partito solo. Due ore
dopo i candidati sono diminuiti -
forse c'è solo Renzi, forse si farà
comunque avanti Orlando, forse
chissà - e al partito manca un pezzo.
La Nuova
Fondi
ai gruppi, oggi la sentenza - Mario Floris, Oscar Cherchi e
Alberto
Randazzo a rischio decadenza
Quattordici consiglieri regionali
accusati di peculato, la vicenda della Piredda
CAGLIARI A otto mesi e mezzo dalla
requisitoria in cui il pm Marco
Cocco ha chiesto quattordici
condanne tra due e sette anni, oggi il
tribunale presieduto da Mauro
Grandesso si ritira alle 10.30 in camera
di consiglio per chiudere con la
sentenza il processo principale per i
fondi ai gruppi. L’appuntamento è
per le 10.30, impossibile fare
previsioni sull’ora in cui il
collegio tornerà in aula per leggere il
dispositivo. Per tre imputati -
Mario Floris, Oscar Cherchi e Alberto
Randazzo - la condanna farebbe
scattare l’uscita dal consiglio
regionale in base alla legge
Severino. Chi è convinto che quello di
oggi sia il punto di svolta del
procedimento più clamoroso del
decennio è del tutto fuori strada:
con cinque condanne - di cui una
confermata in appello - e due
patteggiamenti già chiusi, il tribunale
di Cagliari ha già espresso con
chiarezza il proprio orientamento
sull’equazione fondi ai
gruppi-peculato.
La differenza tra questo e
gli altri procedimenti legati
all’uso dei fondi pubblici del consiglio
regionale è che il verdetto di oggi
riguarda anche la vicenda della
teste-chiave Ornella Piredda, che
coi suoi esposti ha dato l’avvio
all’indagine: lo scorso 31 maggio il
pm Cocco ha chiesto sette anni di
carcere per Giuseppe Atzeri, l’ex
leader sardista che risponde anche
di un secondo peculato, falso e
maltrattamenti per aver «cercato di
neutralizzare la funzionaria».
Dal tribunale si attende una
decisione
sul risarcimento di quello che la
Procura ha letto come mobbing nei
confronti della Piredda, uscita
dalla vicenda menomata nella salute:
«E’ stata lei a bussare alle porte
della Procura - ha detto il
magistrato - e malgrado la difesa
abbia cercato di denigrarla, i fatti
dicono che ha preso l’iniziativa di
denunciare e di fermare quel
sistema degenerato senza alcun
interesse personale». Messa all’indice,
emarginata, allontanata:
«Nell’attimo in cui la Piredda ha chiesto
spiegazioni sulle spese al
presidente del gruppo misto Atzeri e ha
rivendicato i propri diritti per lei
è cominciata una stagione da
incubo della quale ancor’oggi porta
i segni e le conseguenze anche nel
proprio fisico, come i periti hanno
testimoniato».
Con Atzeri
attendono la sentenza Maria Grazia
Caligaris, Mario Floris, Oscar
Cherchi, Raffaele Farigu, Carmelo
Cachia, Sergio Marracini, Salvatore
Serra, Salvatore Amadu, Alberto e
Vittorio Randazzo, Pierangelo Masia,
Giommaria Uggias e Raimondo Ibba.
(m.l)
Assemblea
Pd, il segretario si dimette. Domani la direzione per il congresso
Nessuna
apertura alla minoranza: «Non avete il copyright della sinistra»
Renzi: «No ai ricatti» Ma per ora è
scissione
di Maria Berlinguer wROMA Il dado è
tratto. Il Pd, salvo colpi di
scena sempre possibili ma assai
improbabili, ha consumato la sua
scissione alla fine di una giornata
drammatica. O forse no, se è vero
che in tarda serata gli uomini più
vicini a Michele Emiliano avvertono
che c’è tempo fino a martedì. Ma per
i renziani l’epilogo della
giornata più lunga del Pd era già
scritto. «Avevano già deciso di
uscire», dicono attribuendo a
Massimo D’Alema la regia della rottura.
In serata, dopo l’Assemblea Pd, una
nota firmata da Michele Emiliano,
Enrico Rossi e Roberto Speranza, i
tre leader della minoranza,
denuncia: «Abbiamo atteso invano
delle risposte è ormai chiaro che è
Renzi ad aver scelto la scissione».
E in effetti Matteo Renzi non ha
concesso nulla alle richieste della
sinistra del partito per restare
uniti. Non un congresso in tempi
ragionevoli, non l’avvio di una
assemblea programmatica per avviare
il confronto interno sui tempi che
hanno diviso vertice e militanti
come il jobs act e la scuola. «Fuori
ci prendono per matti, discutiamo ma
poi rimettiamoci in cammino»,
dice Renzi. «Scissione è una delle
parole del vocabolario politico,
peggio c’è solo la parola ricatto,
un grande partito non può essere
fermato dal ricatto di una
minoranza», aggiunge. Pochi minuti prima
Matteo Orfini, presidente del Pd,
annuncia ai 637 delegati su 1.000
arrivati all’Hotel parco dei
Principi di aver ricevuto le dimissioni
formali di Matteo Renzi da
segretario, passo formale e decisivo per
indire i congresso del partito che
nelle intenzioni dell’ex premier
deve chiudersi con le primarie il 9
aprile, in tempo per la campagna
elettorale delle amministrative.
Primarie nelle quali Renzi spera di
avere un nuovo plebiscito popolare
per la segreteria e per tornare a
palazzo Chigi. Sabato al teatro
Vittoria sono risuonate la parole di
Bandiera Rossa. Qualcuno ha
ipotizzato un passo indietro di Renzi per
evitare la scissione. «C’ho pensato»,
assicura l’ex premier mentre
dalla sala i fan rumoreggiano
sgomenti. «Un momento, l’ho solo
pensato. Non si può chiedere a una
persona di non candidarsi perché
solo questo evita la scissione,
avete il diritto di sconfiggerci non
di eliminarci». Quanto alla
minoranza che rivendica le sue radici a
sinistra anche su questo Renzi è
netto: «Non avere il copyright della
sinistra, non è come chi dice
“capotavola è dove siedo io», dice con
evidente frecciata a D’Alema. «La
parola che propongo oggi è
rispetto», azzarda.
La strategia renziana, studiata nei
dettagli,
prevede che prendano la parola in
assemblea i dirigenti di provenienza
Ds. Dopo Guglielmo Epifani che
prende la parola a nome di tutte le
minoranze ed è durissimo, sfilano
sul palco Teresa Bellanova, ex
sindacalista Cgil, Piero Fassino e
Claudio De Vincenti. È Walter
Veltroni però a scaldare la platea.
E il suo è un appello da padre
nobile del Pd. «Ai compagni dico che
il Pd ha bisogno di voi» dice
Veltroni ricordano i danni che le
scissioni a sinistra hanno provocato
non solo alla sinistra ma al Paese.
Un ritorno ai Ds e alla
Margherita, sarebbe un ritorno al
passato non al futuro, avverte
Veltroni. Per l’ex segretario c’è
una standing ovation, ma le parole
di unità che pronuncia cadono nel
vuoto e il copione degli interventi
segue il filo prestabilito.
Tocca a un altro segretario, Dario
Franceschini, insistere per una
pausa di riflessione. «Non decidete
ora, c’è ancora tempo» chiede alla
minoranza Franceschini, alleato di
Renzi, ma impegnato con Delrio a
cercare di evitare strappi dolorosi.
A lui, alle sue capacità di
mediazione guarda ancora una parte di
minoranza convinta che ancora non
sia detta la parole fine. E una
mediazione prova ancora Andrea
Orlando. Il ministro della Giustizia
chiede la convocazione di una
conferenza programmatica. E comunque
avverte: l’uscita della minoranza
non sarà indolore, il Pd non sarà
più quello di prima. Per ora però
Matteo Renzi tira dritto. Il leader
dem non replica all’apertura di
Emiliano che spiazza la sinistra che
teme si sfili, ma irrita i renziani.
La tabella di marcia è già
segnata. Martedì la direzione per le
date del congresso. La cavalcata
di Renzi per riprendersi il partito
comincerà dove il Pd è nato, al
Lingotto, il 10 e l’11 marzo. Poi la
campagna si sposterà in giro per
l’Italia con l’obiettivo di
dimostrare che la scissione (ammesso che
ci sia) non coinvolgerà più di tanto
la base del partito. I
fedelissimi di Renzi del resto
mettono le mani avanti: «In vista delle
amministrative siano noi gli unici a
poter dare il simbolo del Pd a
chi si vuole candidare». Chi esce
dovrà correre con altre insegne.
LA COSTELLAZIONE DI FORZE CHE FA
BRINDARE I NEMICI
Il Pd si spacca, con Matteo Renzi e
i suoi alleati di qua, la sinistra
interna di là. Manca solo
l’ufficializzazione della scissione. A nulla
è servito discutere soprattutto di
princìpi, con l’accento sulla
seconda “i”, nell’assemblea del PD
all’Hotel Parco dei Principi, dove
le sale si chiamano Ruspoli,
Torlonia, Colonna e via romanamente
nobilando. Non hanno sortito effetti
gli appelli all’unità che gli
esponenti della maggioranza del
partito hanno ripetuto usando ogni
strumento retorico. Non è bastata la
mediazione tentata dal ministro
Andrea Orlando che ha proposto un
dibattito ampio e condiviso
attraverso la versione light della
“conferenza programmatica” che la
sinistra voleva a tutti i costi
prima del congresso. L’idea è sembrata
acquietare Michele Emiliano, che
sabato aveva infiammato il Teatro
Vittoria appropriandosi della
leadership degli scissionisti scippata a
Enrico Rossi e Roberto Speranza.
Con evidente sforzo, il sanguigno
governatore pugliese ha moderato i
toni e s’è detto disponibile a
fermare la corsa verso il baratro
delle due componenti del Pd, che
Gianni Cuperlo aveva precedentemente
paragonato alla scena più nota di
“Gioventù bruciata”. La frenata
sarebbe arrivata - ha chiarito
Emiliano - soltanto nel caso si
fosse palesato un segno da parte di
Renzi. Un segno non meglio
specificato che comunque l’ex sindaco di
Firenze ha giudicato un
inaccettabile ricatto. Il comunicato di
Emiliano, Rossi e Speranza che in
serata ha di fatto annunciato la
rottura, attribuendola a Renzi,
stride con i princìpi e le emozioni
che hanno affollato una giornata
lunghissima. In un saggio di
democrazia partecipata e senza
infingimenti, la gran parte dei
contributi è stata informata a un
tono elevato, irrintracciabile nella
narrazione della politica dei talk
show sbrigativi e isterici.
Nell’intervento introduttivo il
segretario dimissionario ha lanciato
«rispetto» come parola-chiave, per
significare che all’interno del
partito si può discutere e litigare
con asprezza, ma si deve sempre
trovare una sintesi tra pari.
L’ex segretario Guglielmo Epifani -
critico con la gestione renziana del
governo e del partito - ha
aggiunto la parola «orgoglio» perché
la consapevolezza della propria
storia consente di affrontare il
presente e i suoi problemi fino al
punto, per rivendicarlo, di andar
via sbattendo la porta. Il fondatore
del Pd, Walter Veltroni, ha puntato
su «sofferenza» come unico
sostantivo che sa descrivere quanto
sta accadendo in un partito che
viene da quattro anni di enormi
successi e di cocenti sconfitte e da
tre mesi di profonde divisioni
post-referendarie. Applausi e occhi
lucidi. Dietro le citazioni dotte e
le folate passionali, i
ragionamenti hanno ruotato intorno a
quattro interrogativi che per
chiarezza bisogna sintetizzare
brutalmente: sono perdenti le ragioni
che tengono insieme le diverse anime
del Partito Democratico rispetto
a quelle che portano alla sua
frantumazione, chiudendo così quasi un
quarto di secolo di speranze? Esiste
una motivazione politicamente
comprensibile dell’eventuale
scissione? La maggioranza può andare al
congresso a ritmi forzati?
La minoranza può imporre un percorso
rallentato per cuocere a fuoco lento
il segretario dimissionario?
Dall’assemblea, all’unisono, quattro
no. Ma la sensazione è che,
nonostante l’intervento apparentemente
conciliante di Emiliano, il
dado fosse già stato tratto. Domani
la direzione definirà il percorso
verso il congresso, da chiudere
prima delle amministrative di giugno.
Se Emiliano e compagni confermeranno
l’addio, Renzi potrebbe non avere
avversari per la segreteria.
L’epilogo di ieri è tuttavia una
sconfitta anche per lui. Perché
fallisce il tentativo, durato quasi
dieci anni, di creare di una solida
forza di centrosinistra dove far
convivere diverse voci e posizioni.
Perché a sinistra si riforma una
costellazione di forze che
difficilmente, a breve, potranno dialogare
con il Pd. Perché ieri sera hanno
brindato Grillo, Di Maio, Salvini,
perfino Brunetta. @claudiogiua
Rossi
e Bersani: «La verità è che hanno alzato un muro»
Senza
ricucitura inizierà l’uscita dai gruppi parlamentari
Riflessione
di 48 ore per scongiurare “l’addio” al partito
di
Gabriele Rizzardi
ROMA All’assemblea nazionale del Pd
Matteo Renzi non cambia linea e la
minoranza dem annuncia la scissione,
precisando che la
«responsabilità» è del segretario.
Il congresso si farà ma i tre ormai
ex sfidanti di Renzi, Roberto
Speranza, Michele Emiliano e Enrico
Rossi non dovrebbero essere della
partita. Il condizionale è d’obbligo
perché c’è ancora qualche ora per
tentare una ricucitura. Emiliano,
Rossi e Speranza danno 48 ore a
Renzi per appurare se è disposto a
fare una «mossa politica vera» per
scongiurare la scissione. Se così
non sarà, si tireranno fuori dal
percorso congressuale.
E quello sarà
il segnale: via all’uscita dai
gruppi parlamentari e alla costituente
di un nuovo partito della sinistra.
Martedì in direzione si darà il
via alla commissione congresso.
Entreranno esponenti della minoranza?
Al momento è escluso. Quel che è
certo è che quella di ieri è stata
una giornata lunghissima, vissuta
sull’orlo della spaccatura, che però
a metà pomeriggio si chiude con la
minoranza scissionista divisa per
l'inattesa apertura di Michele
Emiliano che per qualche ora diventa
mediatore e che a Renzi dice: «Mi
fido di lui». Il presidente della
Regione Puglia propone una linea
meno dura rispetto a quella di Rossi
e Speranza. «L’unità è a portata di
mano», ha detto Emiliano facendo
un passo indietro e auspicando una
«strada condivisibile per tutti». E
ancora: «Rimanere insieme è a portata
di mano. È una questione legata
a piccoli meccanismi, mi pare. Io
sto provando nei limiti delle mie
possibilità, a fare un passo
indietro che consenta di uscire tutti di
qui con l’orgoglio di appartenere a
questo partito».
Il governatore,
insomma, si appella a Renzi i.
Emiliano parla a titolo personale? «Ha
parlato per tutti» taglia corto il
bersaniano Davide Zoggia. Ma anche
l’ultimo tentativo cade nel vuoto e
poco dopo la conclusione
dell’assemblea Emiliano, Rossi e
Speranza firmano una nota congiunta
che di fatto annuncia la rottura:
«Anche oggi nei nostri interventi in
assemblea c’è stato un ennesimo
generoso tentativo unitario. È
purtroppo caduto nel nulla. Abbiamo
atteso invano un’assunzione delle
questioni politiche che erano state
poste, non solo da noi, ma anche
in altri interventi di esponenti
della maggioranza del partito. La
replica finale non è neanche stata
fatta. È ormai chiaro che è Renzi
ad aver scelto la strada della
scissione assumendosi così una
responsabilità gravissima». Ma
l’attacco più duro arriva da Pier Luigi
Bersani. «Siamo a un punto delicato.
Una parte di noi pensa che se va
avanti così il Pd va a sbattere.
Non vogliamo mandare a casa Renzi
per
forza. Stiamo dicendo che vogliamo
discutere di una correzione di
rotta. Renzi ha alzato un muro. Ma
se si va avanti così, non sarà
possibile aprire una discussione»
dice l’ex segretario, ospite di “In
mezz’ora”, che aggiunge : «Sono di
sinistra e non sopporto di vedere
un livello di disuguaglianza così
aberrante». Al coro si aggiunge il
governatore della Toscana Enrico
Rossi: «Ci hanno bastonato e dicono
di soffrire loro... La verità è che
hanno alzato un muro. Tutti, anche
Veltroni e Fassino. Sia nel metodo
che nella forma. Tutti interessati
a difendere Renzi. Per noi la
strada, invece, è diversa, è un’altra.
Sono maturi i tempi per formare una
nuova area». A quando un nuovo
partito? «I tempi sono quelli per la
costruzione di una nuova forza
con quei cittadini che non
considerano più a sinistra il Pd» affonda
Rossi. A Renzi non devono esser
piaciute le parole di Guglielmo
Epifani, che ha condannato l’idea di
tirare dritto: «Mi sembra un
errore, un segretario deve avere la
capacità di guardarsi dentro con
la comunità che rappresenta e
cercare di superare le difficoltà. Se
questo viene meno, è chiaro che per
molti si aprirà una riflessione
che poi porterà a una scelta».
Oggi
De Vincenti a Cagliari per il Patto Sardegna, venerdì a Roma il
“tavolo
dei tavoli” Giunta, cinque giorni decisivi
Due
rilevanti vertici col governo: e in mezzo forse il rimpasto
La poesia delle cose trovate per
caso: fino a venerdì nessuno in
Regione si aspettava un incontro con
il presidente del Consiglio, e
poi così a breve, senza preavviso.
Ci si preparava semmai a ricevere
il ministro De Vincenti, che oggi a
Villa Devoto discuterà
dell'attuazione del Patto per la
Sardegna.
Invece alla fine l'inatteso blitz di
Paolo Gentiloni a Cagliari,
sabato mattina, ha prodotto qualcosa
di buono. Nato per celebrare col
Comune di Cagliari la firma
dell'intesa per le periferie, ha permesso
al governatore Francesco Pigliaru di
sottolineare alcuni nodi della
vertenza con lo Stato. Gentiloni non
aveva soluzioni in tasca e
neppure sogni da spacciare come
risultati tangibili. Però ha capito la
necessità, per l'Isola, di
stringere: dai tavoli di trattativa ai
fatti. La prima conseguenza
materiale, a dire il vero, sarà un
ulteriore tavolo. Ma riassuntivo,
per così dire. Venerdì a Palazzo
Chigi si terrà una riunione tecnica
dedicata a tutte le questioni in
campo.
IL METODO Il premier ha accolto la
richiesta di Pigliaru di mettere
insieme un referente del governo per
ciascun tema, ed esaminare i nodi
da sciogliere. Sarà il tavolo dei
tavoli, in pratica. La Regione
parteciperà con il capo di gabinetto
della presidenza, Filippo Spanu,
e i dirigenti delle aree
interessate. Ci si aspetta che questa mossa
acceleri alcune delle pratiche: il
governatore ha insistito molto, tra
l'altro, sul ridimensionamento delle
servitù militari, dopo che già la
scorsa estate aveva avuto uno
scontro col ministero della Difesa
perché la lunga trattativa non
produce niente di concreto, al netto di
tutte le dichiarazioni di
disponibilità.
Lo sblocco dei cantieri alla
Maddalena e il rilancio del progetto
Eni-Matrica per la chimica verde
sono invece i temi su cui Gentiloni
ha dato più speranze. Quanto alla
vertenza entrate-accantonamenti, più
delicata perché va superata la
probabile ostilità del ministero
dell'Economia, il premier ha
comunque garantito una sorta di sostegno
politico alla trattativa tra il
sottosegretario Bressa e il
vicepresidente della Regione
Raffaele Paci: di più, per ora, non si
poteva chiedere.
DOPPIO VERTICE Il tavolo dei tavoli
di venerdì chiuderà una settimana
politica decisiva, che si apre oggi,
alle 10, con la riunione a Villa
Devoto con Claudio De Vincenti. Il
ministro della Coesione
territoriale arriva nella veste di
referente del governo per
l'attuazione del Patto per la
Sardegna, firmato il 29 luglio scorso a
Sassari da Pigliaru con l'allora
premier Matteo Renzi.
De Vincenti guiderà la visita del
Comitato di indirizzo e di controllo
per la gestione del Patto, organismo
creato - in Sardegna come in
tutte le altre regioni del Sud
firmatarie di analoghe intese - per
seguire passo la realizzazione degli
interventi programmati. Del
Comitato fanno parte rappresentanti
della Agenzia per la coesione
territoriale, del Dipartimento per
le politiche di coesione e del
Dipartimento per la programmazione
ed il coordinamento della politica
economica. La Regione sarda sarà
rappresentata dal direttore generale
della presidenza, Alessandro De
Martini.
IL RIMPASTO E può essere la
settimana decisiva anche per la Giunta:
alcuni segnali dicono che il
rimpasto è davvero imminente, sempre che
il caos nel Pd nazionale non fermi
tutto di nuovo. Non sarebbe un
rimescolamento totale degli
assessorati, ma neppure la semplice
sostituzione dei due dimissionari
(Gianmario Demuro ed Elisabetta
Falchi, già titolari degli Affari
generali e dell'Agricoltura). Di
certo ci sono altri assessori
destinati a lasciare il posto.
Tra i nodi ancora da risolvere, il
rapporto col gruppo ex Sel (con
l'area Uras-Agus che difende
l'assessora alla Cultura Claudia Firino
mentre gli altri tre consiglieri
regionali ne chiedono le dimissioni),
e i posti da assegnare alle forze
minori della coalizione, attualmente
rappresentate in Giunta da Maria
Grazia Piras (Industria) e Francesco
Morandi (Turismo). Giuseppe Meloni
-----------------
Federico Marini
skype: federico1970ca
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