Viviamo tempi
di profondi cambiamenti. La guerra a scacchi sul nucleare tra le due Coree, il
Giappone e gli Stati Uniti; il Medio Oriente sempre più instabile; l'avanzata
di Russia e Cina, da integrare necessariamente in un nuovo sistema multipolare;
movimenti e sommovimenti volti a ridefinire i confini nazionali, persino nel
cuore dell'Europa, che mettono in discussione le nostre certezze. Federalismo,
identità nazionali, Stati, confini, sovranità: le grandi questioni del
Novecento e del nuovo secolo, da rispolverare e riattrezzare.
E dentro quest'Europa, le elezioni politiche di in Germania, una vera e propria cartina
di tornasole della fase che stiamo attraversando. Offro tre riflessioni
schematiche, a mio avviso essenziali.
La prima è una constatazione. La Spd crolla. Perde
due milioni di voti, il 17% del proprio elettorato, raggiungendo il minimo
storico. Una prima analisi dei flussi dice che il primo partito a trarre vantaggio
dal suo crollo è il partito di estrema destra Afd (500mila elettori Spd che
passano ad Afd), il secondo è il partito di destra liberale Fdp (430mila voti).
Verrebbe da dire: chi semina vento raccoglie tempesta. La grande coalizione
all'opera, le sue politiche d'austerità, determinano la fine della grande
coalizione (arretra anche il partito di Angela Merkel) e una svolta a destra
del quadro politico complessivo. La pure interessante e coraggiosa campagna
elettorale di Schulz non è bastata a cancellare anni di corresponsabilità e
subalternità.
Questa, appunto, è la seconda
riflessione che emerge dai numeri: la Germania va a destra. I liberali
guadagnano in quattro anni tre milioni di voti, facendo il pieno di vecchi voti
della Cdu e della Spd. E l'estrema destra dell'Afd accresce del 185% il proprio
elettorato: quattro milioni di voti in quattro anni entrando nel Bundestag con
94 deputati e conquistando persino la maggioranza in Sassonia. Come non
correlare questo exploit al malcontento diffuso a livello popolare e alle paure
indotte dalla gestione dell'immigrazione e della sicurezza interna, così come a
una politica economica e sociale che ha diffuso incertezze e precarietà? Si
ripropone, in maniera inquietante, il monito a non sottovalutare le crisi di
stabilità del sistema, che spesso anticipano e favoriscono torsioni autoritarie
e reazionarie.
La terza e ultima riflessione
riguarda la sinistra. Il risultato di Die Linke è l'unico spiraglio di luce. Guadagna
mezzo milione di voti, più dell'11% del proprio elettorato nel 2013, cresce
soprattutto all'Est – dove evidentemente è ancora percepibile un'antica e
recente capacità di governo democratico nell'interesse dei ceti popolari – e
compensa, seppure in minima parte, la crisi della socialdemocrazia. In quella
"minima parte" c'è però il problema più grande con il quale Die Linke
si deve confrontare, così come dobbiamo fare nel resto d'Europa.
La sinistra europea a
sinistra della famiglia socialista non è in grado (oggi e, sola, neppure in
prospettiva) di colmare il vuoto di voti, credibilità, spazio politico,
capacità di governo, che il socialismo europeo in crisi approfondisce anno dopo
anno. Qui si colloca il terreno della nostra ricerca, che da anni proviamo a
proporre, invero con una dose di tenacia inversamente proporzionale al credito
che questa analisi riceve all'interno dei gruppi dirigenti della sinistra
italiana.
Se il
socialismo europeo è tragicamente in crisi, è pure vero che al suo interno si
sono mosse in questi anni energie ed esperienze vitali, semplicemente decisive
e imprescindibili per la costruzione di una nuova soggettività europea della
sinistra, che le contenga così come contenga le forze e le famiglie
dell'ecologismo anti-liberista e della sinistra di governo e radicale esterne
al Pse (di cui le forze comuniste o post-comuniste sono inevitabilmente il
perno).
Il tema di fronte al quale siamo posti è precisamente questo: cambiare
tutto, rifiutare ogni approdo sicuro, ogni ritorno alla foresta verso schemi
che non dicono più nulla. Né quelli, gloriosi, a partire dall'Italia, che in
passato hanno significato partiti di massa, consenso, conflittualità e forza
egemonica culturale. Né quelli che negli ultimi anni hanno firmato
corresponsabilmente le grandi coalizioni e il ripiegamento dei diritti del
mondo del lavoro in tutta Europa, non capendo la globalizzazione e non
cogliendo le tendenze di fondo della fase che si apriva.
Lavorare per una nuova
soggettività europea della sinistra, radicale e di governo, non significa
assecondare tensioni settarie e men che meno è la riproposizione di famiglie,
tradizioni, identità, simbologie marginali o minoritarie. È la proposta di una
ricerca in campo aperto, veramente libera, veramente eretica, senza la quale
saremo purtroppo destinati a essere travolti dalle nostre stesse macerie.
Simone Oggionni.
http://www.reblab.it/
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