Il numero
uno del Carroccio lascia il Parlamento europeo e chiude ad accordi coi Dem. Salvini
all'Ue: «Se necessario sforeremo il tetto del 3%»
STRASBURGO Al mattino le dimissioni
da parlamentare europeo e una conferenza stampa a Bruxelles, la sera a Roma un
vertice con gli alleati di FI e FdI per stabilire la linea da seguire nel post
voto. Giornata intensa quella di Matteo Salvini nel corso della quale litiga con
i giornalisti perché si porta la claque che applaude a ogni sua parola, non
esclude un governo con l'M5S ma chiude al Pd. E sull'Europa dice: «Se serve
ignoreremo il tetto del 3%. Fa parte di quelle regole scritte a tavolino che se
fanno star bene i cittadini noi siamo contenti di rispettare, ma se in nome di
quei vincoli dobbiamo licenziare, chiudere e precarizzare, no. Se saremo in
grado di rispettarlo, benissimo».
«PRIMA GLI ITALIANI» Ma, avverte:
«Se devo trovare nell'arco dei prossimi due anni 31 miliardi di euro per
evitare l'aumento dell'Iva, delle tasse e delle accise, perché qualcuno così ha
deciso, l'ultima cosa che farò al governo è aumentare l'Iva, le tasse e le
accise. Contratteremo con Bruxelles un modo sereno e reciprocamente utile dell'Italia
di stare nell'Unione e dell'Unione di rispettare le esigenze degli italiani».
Forse, però, Salvini scommette sulle elezioni europee del 2019, che saranno,
dice, «uno snodo fondamentale, perché finalmente potrà finire l'eterno inciucio
tra Popolari e Socialisti, che mal governa questa Unione da troppi anni».
«NON TEMIAMO IL VOTO» Il leader
della Lega parla anche di politica interna, evitando di chiudere al Pd in
quanto tale, ma solo a coloro che hanno «perso le elezioni», come «Boschi, Renzi
e Gentiloni». Anche qui bastone (l'unica cosa che non temiamo è il voto, ha
sottolineato) e carota (ha detto di aver fiducia non nei leader di partito, ma
nei parlamentari che hanno preso i voti).
NO A RENZI E AL PD Il leader
leghista ha nominato il Pd solo per escludere che possa ambire alla presidenza
della Camera o del Senato: «Io ascolto tutti e partiamo dalla coalizione di
centrodestra: sicuramente chi ha perso le elezioni è l'ultimo che può rivendicare
qualcosa, penso a Renzi e al Pd», ha scandito.
BASTA DIKTAT DELLE ÉLITE Solo gli
sviluppi a Roma nei prossimi giorni e nelle prossime settimane diranno se
l'Italia avrà «un governo che non accetti più i diktat delle élite globaliste,
che ridia l'Italia agli italiani e che sia il governo di Matteo Salvini», come
ha auspicato il copresidente del gruppo Enf, l'olandese del Partito per la
Libertà Marcel de Graaf e che aprirebbe una stagione complicata nei rapporti tra Roma e Bruxelles. Per
arrivarci, però serve una maggioranza in Parlamento, quindi un accordo politico
con qualcuno. Salvini è parso fiducioso: «Eh, lasciamo che i frutti maturino»,
si è limitato a dire.
Unione
Sarda
«Da Renzi
solo mance e bugie Il Pd riparta dai più deboli»
L'ex
deputato Marco Meloni: nell'Isola il partito è una federazione di correnti
Facile mollare Renzi adesso. Marco
Meloni invece lo attaccava già
quando era premier: e non solo per
fedeltà a Enrico Letta, a cui il
quasi ex deputato quartese è
vicinissimo da sempre. «Renzi ha tradito
ogni impegno e sbagliato linea»,
dice Meloni: «Abbiamo finito per
parlare a pochi garantiti».
E si è visto il 4 marzo.
«Il 4 marzo è solo la prevedibile
conseguenza di anni di errori. La
peggiore sconfitta di sempre delle
forze riformiste e progressiste».
Tutta colpa di Renzi?
«Le scelte sono state condivise da
tanti: ma a un leader forte come
lui si riconoscono grandi meriti se
ha successo, e ora grandi
demeriti».
Il più grave?
«Ha perso ogni credibilità. Ha
iniziato la sua segreteria con le
menzogne e così ha continuato».
Quali menzogne?
«La promessa di arrivare a Palazzo
Chigi solo con le elezioni, quella
di lasciare la politica per la
sconfitta referendaria. La stessa
rottamazione è un impegno tradito».
Beh, il gruppo dirigente del Pd è
cambiato molto.
«Guardi, lunedì nella direzione
nazionale il super-renziano Vincenzo
De Luca ci ha spiegato come
rinnovare, dopo aver sistemato tutta la
famiglia nelle istituzioni. Ci sono
stati troppi passaggi al Pd dalla
destra. Renzi critica i caminetti,
quelli degli altri. Ma i candidati
alle Politiche li ha scelti nel suo
caminetto».
Come si spiega la mutazione della
rottamazione?
«A Renzi interessa il potere per il
potere. Ha usato la rottamazione
per conquistarlo, poi ha fatto
accordi con chiunque. E così da anni
perdiamo ogni elezione».
Sulla linea politica quali sono
stati gli errori?
«Se ti vota solo il 10% dei
disoccupati, degli operai, dei giovani; se
vinci solo nel centro di Roma,
Milano, Torino e Bologna, vuol dire che
non hai capito le esigenze vere
delle persone. Ormai ci votano i
pensionati e i benestanti».
È la rivolta delle periferie di cui
parla Arturo Parisi?
«È evidente che non abbiamo capito
il malessere delle periferie e di
vasti strati sociali. Abbiamo
esaltato la ripresa, ma l'Italia cresce
meno del resto d'Europa».
Lei è vicino a Letta, ma quando
Renzi lo sostituì al governo, molti
nel Pd chiedevano un cambio di passo.
«Al governo Letta aveva già tolto la
benzina la segreteria di Renzi.
Il cambio di passo furono gli 80
euro: la logica sbagliata dei bonus,
come quello per i giovani, uguale
per tutti, ricchi e no. Si dovevano
semmai aumentare la produttività e
riattivare gli investimenti
pubblici per la crescita».
Però quegli 80 euro hanno dato una
mano a tanti.
«Ma non si governa distribuendo
mance. E in campagna elettorale ne
abbiamo promesso altre, ma c'era chi
prometteva di più. C'è chi ha
parafrasato “Per un pugno di
dollari”: quando l'uomo con gli 80 euro
incontra l'uomo col reddito di
cittadinanza, il primo è un uomo
morto».
Non crede che al centrosinistra
servisse il decisionismo renziano?
Pensi alla legge sulle unioni
civili.
«Sono orgoglioso di aver contribuito
ad approvare leggi importanti, ma
abbiamo fallito le riforme
istituzionali, consegnando il Paese
all'ingovernabilità. E non te la
cavi dicendo: governino gli altri».
Cioè il Pd dovrebbe sostenere un
governo Di Maio?
«No. Però non si dileggiano i
cittadini che lo hanno votato, molti
sono nostri ex elettori. Bisogna
essere attenti e umili per capire le
loro scelte. La riflessione della
direzione nazionale finora è
insufficiente, se si danno le colpe
solo ai difetti caratteriali. E
l'atteggiamento di Renzi, che non ha
partecipato, è vile. Dire “non
mollo, non lascerò mai il futuro
agli altri” è un patetico reducismo».
E se Mattarella chiedesse di
garantire la governabilità?
«Su questo la direzione ha detto due
cose giuste: non possiamo
sostenere maggioranze politiche
altrui, ma valuteremo le eventuali
proposte del capo dello Stato
nell'interesse del Paese».
In che cosa potrebbe tradursi la
“responsabilità”?
«Impossibile dirlo oggi».
Come può ripartire ora il Pd?
Primarie subito?
«Il Pd va rifondato. Con un percorso
che arrivi a quell'esito, ma non
subito. Andare a una conta tra un
mese non serve a niente».
Cosa servirebbe, invece?
«Anzitutto non rompersi, riprendere
a essere una comunità dopo la
violenza politica introdotta in
questi anni. E poi riscoprire cosa
significa essere una forza
progressista e riformista».
Già: cosa significa?
«Per ora sono più importanti le
domande che le risposte. Dobbiamo
ripartire dai nostri valori di
fondo, guardare la società con gli
occhi dei più deboli e delle
periferie sociali. Invece l'abbiamo
guardata con gli occhi del Palazzo,
e alla fine siamo stati visti come
il Palazzo».
Sta dicendo che dovete stare più a
sinistra?
«La sinistra è in crisi in tutta
Europa: la lunga crisi economica e le
migrazioni rendono difficile
difendere i nostri ideali. Ma per essere
progressisti occorre riprendere a
essere essenziali e radicali, senza
mai essere arroganti. Certo non con
l'armamentario delle vecchie
ideologie, ma con un pensiero
nuovo».
Lei è così critico perché non è
stato ricandidato?
«O viceversa, non crede? Ero critico
già da prima: non ho votato la
legge elettorale né la mozione su
Bankitalia. Certo mi dispiace che
non mi sia stato proposto non dico
un posto sicuro, ma neppure uno di
rincalzo: forse proprio perché ho
ragionato con la mia testa».
Ora lavorerà alla Scuola di
politiche. Qual è la finalità?
«Formare ogni anno cento giovani,
per contribuire a creare una nuova
classe dirigente che capisca
l'importanza della competenza e
dell'apertura. Ci sono scuole
“sorelle” a Parigi e Berlino; in Italia
dopo Roma abbiamo aperto a Genova,
poi saremo a Torino e Milano. E,
spero presto, nell'Isola».
A proposito: nella crisi Pd, visti i
dati sardi, c'è una specifica
questione sarda?
«Il Pd sardo deve smettere di essere
una federazione di correnti. Io
ho sempre fatto parte di una
corrente, ma serve un nuovo modo di stare
insieme. Di certo il partito non è
stato condotto bene in questi
mesi».
In questi anni, dirà: non ha mai
svolto una funzione di indirizzo sulla Giunta.
«È vero, obiettivamente il rapporto
tra Pd e Giunta non ha funzionato
al meglio. Alla Regione abbiamo
fatto molte cose positive, ma forse
tutti abbiamo avvertito poco la
gravità della situazione sarda, e non
siamo stati sufficientemente decisi
nel rapporto con lo Stato».
Anche in Sardegna è inutile fare
subito le primarie?
«Sì. L'augurio a tutti noi è che si
trovino soluzioni che ci vedano
uniti. Soluzioni di qualità e di
cambiamento».
E di ricambio anagrafico?
«Credo ai giovani che si prendono
spazi, non alle cooptazioni: vorrei
che fossero i capi del partito, non
i rappresentanti dei capi veri».
Giuseppe Meloni
Il
sindaco di Olbia Nizzi (FI) analizza il recente voto politico e
parla del
futuro
«Alle
Regionali possiamo vincere Io candidato se me lo chiedono»
«Il vento impetuoso che ha spinto il
Movimento Cinquestelle verso il
trionfo alle Politiche non spazzerà
via tutto anche alle Regionali, ne
sono certo. Il quattro marzo i
candidati non hanno avuto alcun peso,
tra un anno saranno decisivi. E noi
puntiamo a vincere».
Settimo Nizzi è convinto che non ci
sarà un altro tsunami. Il sindaco
di Olbia ha chiare le ragioni del
risultato di due settimane fa e dice
di sapere che cosa deve fare il
centrodestra da qui al 24 febbraio
2019, data in cui verosimilmente si
voterà per eleggere governatore e
consiglio regionale. «Dobbiamo
tornare tra la gente, spiegare che cosa
vogliamo e avere il coraggio di
portare fino in fondo i nostri
programmi».
In realtà Forza Italia anche questa
volta aveva un candidato forte, il
sindaco di Golfo Aranci e
consigliere regionale Giuseppe Fasolino, che
nell'uno-contro-uno del Nord
Sardegna ha perso contro il pentastellato
Nardo Marino. «Noi abbiamo
guadagnato consensi rispetto alle ultime
tornate elettorali e se ci fosse
stato il vecchio collegio avremmo
vinto di duemila voti. Ma questo
voto di protesta che ha travolto
tutto il sud non poteva essere
fermato in alcun modo. Sa perché non
abbiamo preso noi quei voti?»
Perché?
«Perché non abbiamo cavalcato le
grandi battaglie di popolo:
l'invasione di stranieri, la
sicurezza sociale, la mancanza di
risposte agli imprenditori. In
Italia si fanno leggi che incentivano
chi delinque e penalizzano le
persone perbene. Ecco perché ci ha
superato la Lega».
Fasolino ha detto che il
centrodestra ha assecondato spesso gli umori
della gente e non ha portato sino in
fondo alcune sue battaglie
storiche, come il Ppr.
«Ha ragione. In politica servono
coraggio e determinazione e se si
lasciano le cose a metà si va a
casa. È assurdo che non si sia ancora
cambiato un Ppr al quale solo 20
comuni su 377 hanno adeguato il loro
Puc: i sindaci sono tutti scarsi o è
un piano inapplicabile?».
Non ci è riuscito nemmeno il
centrosinistra, hanno paura anche loro?
«Sì, ma solo di una sola persona.
Per questo il centrosinistra dopo
aver vinto tutto perderà tutto. Che
futuro può avere una maggioranza
che non porta in Consiglio una
legge, quella Urbanistica, che vuole
approvare? Se non hai il coraggio di
osare ingrossi le fila della
protesta, e questo vale per tutti».
Lei quando ha osato?
«Sempre. Quello che dipende da noi
lo facciamo in pochissimo tempo: il
Piano del litorale, il piano Dehors,
quello per il centro storico, la
viabilità».
Che cosa dovete fare da qui alle
Regionali?
«Rimettere in moto la struttura
organizzativa del partito nel
territorio, parlare con la gente».
Quale dev'essere, a suo avviso, il
profilo del vostro candidato alla
presidenza della Regione.
«Una persona che abbia buoni
rapporti col territorio, che abbia una
storia di concretezza e di cose
fatte, che sia determinata, che sia
legata alla politica ma non un
politico di professione. Uno che sappia
dialogare con le altre forze
politiche della coalizione, dall'Udc ai
Riformatori sino al Psd'Az, che per
noi è importante».
Per caso sta parlando di lei?
«Sono felice di essere il sindaco di
Olbia ma se il partito e la
coalizione dovessero chiamarmi mi
metterei a disposizione. Ma darei il
mio contributo anche se dovesse
essere scelto un altro».
Ci sono altri nomi in grado di
incarnare le caratteristiche che ha descritto?
«C'è un gruppo di persone di tutte
le età molto capaci e siamo
maturati molto rispetto al passato.
Ma ci siederemo attorno al tavolo
con gli alleati e poi condivideremo
le scelte con Silvio Berlusconi».
La leadership di Ugo Cappellacci è
solida?
«Ugo ha la piena fiducia di
Berlusconi, è stato eletto deputato e
Forza Italia non è andata così male,
date le condizioni. Questo lo ha
rafforzato. E ora che sarà a Roma
saprà vedere anche da un altro punto
di vista la vita di partito».
Fabio Manca
Il leader
del Movimento 5 Stelle esclude un esecutivo istituzionale
Di Maio
detta le regole
No alla
Lega. «Tornare al voto non ci spaventa»
ROMA L'Italia restarà nell'Unione
europea e nella Nato e non faremo
mai accordi con forze
antieuropeiste. Davanti alla stampa estera,
Luigi Di Maio manda un messaggio
all'Europa per rassicurare i
principali partner del Continente
(Germania e Francia) sulle
intenzioni del Movimento che nove
giorni dopo il voto torna a ribadire
il proprio ruolo come forza
proiettata verso il governo del Paese,
bocciando ogni altra ipotesi
alternativa. Messaggi rivolti anche alla
Lega, con cui è escluso ogni
dialogo, e al Pd, considerato
interlocutore privilegiato.
Il candidato premier del Movimento 5
Stelle dice di non contemplare
«alcuna ipotesi di governo
istituzionale o di governo di tutti» e
sottolinea che la partita relativa
all'elezione dei presidenti delle
due Camere (per la quale il dialogo
resta aperto) «non riguarda le
dinamiche di governo».
«PROPOSTE, NON POLTRONE» Per Di Maio
è impensabile anche «immaginare
una squadra di governo diversa da
quella espressa dalla volontà
popolare».
«C'è stata una grande investitura.
Dobbiamo liberare l'Italia e se le
forze politiche stanno chiedendo di
tornare a votare a noi non
spaventa. I cittadini quando hanno
votato Movimento 5 Stelle hanno
votato un candidato premier, una
squadra e un programma. Chi vuole
farsi avanti venga con proposte e
non con posti nei ministeri,
ministri, sottosegretari. Interlocuzione
con tutti sui temi ma fino ad
ora non ho visto avanzare neanche
una proposta», si rammarica il
leader M5S, che alla domanda se un
eventuale accordo con i partiti
debba passare per un voto online su
Rousseau, risponde: «Prima deve
esserci l'interlocuzione, poi
vedremo il metodo».
«MISURE PER LA STABILITÀ» «Le nostre
misure economiche saranno sempre
ispirate alla stabilità del Paese:
non vogliamo trascinare le
dinamiche economiche nelle diatribe
politiche», evidenzia Di Maio, che
sferra un attacco al ministro
dell'Economia: «Credo che oggi Padoan
sia stato molto irresponsabile a
trascinare le questioni tra Italia e
Bruxelles rispondendo “non so” a
proposito del futuro dell'Italia. È
stata quasi una provocazione -
rincara il capo politico M5S - come a
dire che “ora che me vado
all'opposizione avveleno i pozzi”».
MESSAGGIO A BRUXELLES Pur
confermando la linea del Movimento sulle
questioni cruciali, Di Maio veste i
panni dell'europeista e prova a
mandare un messaggio distensivo ai
vertici di Bruxelles e alle
cancellerie europee: «Non vogliamo
avere nulla a che fare con i
partiti estremisti europei»,
scandisce il vicepresidente della Camera,
ribadendo così il no alla Lega e che
la linea di politica estera
targata M5S non isolerà l'Italia,
perché è nelle intenzioni del
Movimento restare nella Ue e nella
Nato, con l'ambizione però di
«cambiare le cose che non vanno».
SUPERARE IL NODO DEL 3% «Ormai tutti
concordano» sul fatto che il
parametro del 3% «vada superato,
vediamo come. Noi abbiamo a cuore
l'idea di ridurre il debito
pubblico» ma «con politiche espansive» e
«non con l'austerity», insiste Di
Maio, che torna a parlare di una
possibile revisione delle sanzioni
alla Russia (ma solo
«nell'interesse dell'Italia») e
annuncia che in caso di nomina come
presidente del Consiglio il suo
primo viaggio ufficiale avrà come meta
Bruxelles.
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Federico
Marini
skype:
federico1970ca
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