Sos
ammortizzatori sociali- Allarme dei sindacati per il Sulcis e Porto
Torres. Barca (Cisl): Pigliaru intervenga Fondi
della mobilità in deroga, attesa per seicento operai
Sono 600, distribuiti tra Sulcis e
Porto Torres, e ancora non hanno visto la mobilità in deroga per le aree di
crisi complessa. C'è l'accordo e la relativa copertura finanziaria, ma ancora
non c'è stato il pagamento. La maggior parte dei lavoratori aspetta da
dicembre, alcuni (nei casi più estremi) da ottobre e altri addirittura dallo scorso
marzo.
LA PROTESTA I sindacati dei
metalmeccanici, che stanno seguendo in prima persona l'iter visto che la
maggior parte degli operai interessati proviene dalle fabbriche e dalle piccole
aziende chiuse, hanno già chiesto un incontro urgente al presidente della
Regione Francesco Pigliaru.
«È un problema che interessa molti
lavoratori, tra l'altro quelli più in difficoltà perché hanno perso il diritto
agli ammortizzatori sociali nelle aree definite “di crisi complessa” – dice Rino
Barca, segreteria Fsm Cisl del Sulcis - la loro mobilità è scaduta il 31
dicembre, c'è già un accordo con la relativa copertura finanziaria, ma ancora
non c'è stato il pagamento. Purtroppo si tratta di persone alle prese con
pesanti difficoltà economiche. Dalle interlocuzioni ufficiose che abbiamo avuto
sappiamo che gli elenchi presentati sono stati esaminati e sono in attesa di
essere accettati».
L'ATTESA Circa 600 ex operai che
gravitano intorno al polo di Portovesme (la maggior parte di Alcoa) e all'area
industriale di Porto Torres. Avendo perso i requisiti per la mobilità, così
come stabilito dalla nuova normativa sugli ammortizzatori sociali, l'unico modo
per poter garantire un sostegno a queste persone è stato inserirli nel percorso
sulle are di crisi complesse, zone in cui è difficilissimo trovare nuova
occupazione e gli indicatori socio-economici sono negativi. In Sardegna appunto
Portovesme e Porto Torres.
Ora gli ex operai attendono da
gennaio la mobilità. «Stiamo aspettando una convocazione, perché dobbiamo
chiarire la questione e dare risposte a queste persone - dice Roberto Forresu,
segretario della Fiom Cgil - forniti gli elenchi, pare che si stia attendendo
il via libera dal Ministero. Ma c'è necessità di capire se c'è la copertura
finanziaria e di stringere i tempi perché tutti possano usufruire della
mobilità prevista per le aree di crisi complesse.
L'ACCORDO Tra l'altro c'è da fare un
discorso anche per l'immediato futuro. L'accordo che abbiamo sottoscritto
parlava di copertura fino al 30 giugno, è già tempo di capire
se ci sono le risorse per il secondo semestre per prolungare lo strumento fino
alla fine dell'anno. Ovviamente per noi rimane prioritario l'obiettivo finale,
cioè riavviare le fabbriche e poter richiamare al più presto gli operai al lavoro».
Antonella Pani
Unione
Sarda
Ganau: io
in campo pur sapendo di perdere. Il partito faccia cose di sinistra
«Giunta
abbandonata dal Pd Ora svolta unitaria e giovane»
Ora nel Pd sardo va di moda
prendersela con la Giunta Pigliaru, per
spiegare il risultato elettorale
inferiore alla media nazionale.
Gianfranco Ganau non la pensa così:
«È mancato il Pd», riflette il
presidente del Consiglio regionale,
reduce a sua volta da una netta
sconfitta nel collegio senatoriale
del nord Sardegna. «Ripiegati su
noi stessi, non abbiamo svolto il
ruolo di partito-guida della
maggioranza di centrosinistra».
Semmai, osserva Ganau, è il fatto di
esser stata la principale forza
di governo ad aver penalizzato il
Pd, anzitutto a livello nazionale:
«Paghiamo il fatto di aver domato la
crisi peggiore di sempre. Abbiamo
riportato il Pil e l'occupazione a
crescere, ma sono servite politiche
impopolari. Sgradite a volte agli
stessi destinatari».
Significa che non potevate fare
diversamente?
«No, come partito abbiamo delle
responsabilità. Specie per la mancata
condivisione e l'errata
comunicazione di alcune azioni. Siamo stati
percepiti talvolta come arroganti,
presuntuosi».
Anche lei se la prende col carattere
di Renzi?
«Di certo il suo atteggiamento ha
influito. Ha sbagliato soprattutto a
non fare il referendum
costituzionale su parti separate della riforma,
e a intestarselo come una battaglia
personale, suscitando una
coalizione di tutti gli altri contro
di lui».
Attaccando ora Renzi non state
buttando via la svolta che aveva
impresso al Pd, prima spesso
impantanato in discussioni infinite?
«Non bisogna buttare via niente di
ciò che c'è stato di buono. Però il
partito deve fare autocritica,
ritornare tra la gente, ascoltarla. Si
era un po' perso il contatto con la
realtà. Abbiamo dato per scontato
i nostri consensi, quel 40% delle
Europee».
Ora il Pd dovrebbe consentire un
governo guidato da Di Maio o Salvini?
«Non sono favorevole a nessun
accordo, gli elettori ci hanno collocato
all'opposizione e dato ad altri il
compito di governare».
Perché in Sardegna siete andati
peggio?
«Perché da noi la crisi è stata più
profonda. Poi, certo, ci sono
responsabilità nostre. Non abbiamo
ascoltato le esigenze di alcuni
settori».
Lei non voleva candidarsi: è pentito
di aver accettato?
«Non la considero una sconfitta
personale, siamo andati male ovunque.
È vero, non volevo: mi sono messo a
disposizione per cercare di
contenere i danni».
Cioè sapeva di perdere?
«Beh, i dati erano chiari».
Ha influito anche la spaccatura del
Pd a Sassari e i contrasti col
sindaco Sanna?
«Non so, temo però che in città non
sia percepita con favore l'azione
dell'attuale amministrazione».
E la Giunta di centrosinistra ha
condizionato negativamente il voto sardo?
«Questo sinceramente non lo credo.
Il risultato è in linea col resto
del Sud. Vedo più un voto contro il
governo, l'effetto di alcune
politiche non del tutto sbagliate ma
forse un po' presuntuose, e poco
condivise».
A cosa sta pensando?
«Per esempio al Jobs Act. O alla
Buona scuola: pur stabilizzando oltre
100mila precari, avevamo contro gli
insegnanti. Si sarebbe dovuto
mediare di più».
Nell'Isola, dice il segretario del
Pd Cucca, ci si è concentrati sulle
riforme a lungo termine e poco sulle
emergenze. Condivide?
«In parte sì, ma le emergenze erano
tantissime e su molte la Giunta ha
lavorato sodo. Da Meridiana alla
Maddalena. Fino ad Alcoa, per cui
sembra che sia arrivata la
soluzione: ma finché i lavoratori non
riprendono a ricevere la busta paga,
non si vede il risultato».
E la sanità? Per molti, anche nel
Pd, la riforma vi ha fatto perdere voti.
«Su questo, come su altri atti, c'è
stato un problema di
comunicazione. Il riordino della
rete ospedaliera è stato visto come
la chiusura dei presìdi
territoriali, ma non è così. Anzi, il dialogo
Giunta-Consiglio ha creato margini
più ampi rispetto al decreto
ministeriale, più restrittivo».
È stata opportuna anche la scelta
dell'Asl unica?
«Era necessario un unico centro di
controllo e di spesa al posto di
otto repubbliche indipendenti. Ma i
benefici si vedranno col tempo».
Nel frattempo però le cronache
segnalano quasi ogni giorno dei disservizi.
«Sono legati soprattutto al blocco
delle assunzioni, ora superato.
Anche qui però ci vorrà del tempo
perché la riforma vada a regime».
Tra le disfunzioni, ha fatto
scalpore la mancanza di alcuni farmaci.
Non deriva proprio dai nuovi
meccanismi centralizzati?
«No, da situazioni ereditate dal
passato, con la proroga delle gare
d'appalto e la necessità di nuovi
bandi».
Nell'ultimo anno (scarso) della
legislatura, che cosa si può fare
realisticamente?
«C'è il tempo per riattivare una
politica di ascolto delle sofferenze
e completare poche cose, ma
importanti».
Quali?
«Anzitutto la legge urbanistica, per
dare certezze al settore edilizio
e scacciare la percezione negativa e
troppo restrittiva del Ppr. E poi
bisogna dare più efficienza a vari
settori, dalla stessa sanità alla
gestione dei pagamenti in
agricoltura: dove, non per colpa della
Giunta, restano i ritardi».
Avreste dovuto alzare di più la voce
col governo?
«Su alcuni temi si poteva forzare di
più. Per esempio sugli accantonamenti».
Nel complesso, che voto darebbe alla
Giunta?
«Sufficiente, ha fatto tante cose.
All'inizio è stata un po' troppo
tecnica, distante dai cittadini e
dalla stessa maggioranza. Poi si è
migliorato. Del resto, se i partiti
non esercitano il loro ruolo...»
Pensa anche lei che il Pd abbia di
fatto abbandonato la Giunta a se stessa?
«Purtroppo sì. Come primo partito
del centrosinistra avremmo dovuto
svolgere una funzione di indirizzo,
ma ci siamo ripiegati troppo sui
nostri problemi interni».
Ha senso pensare ora a un rimpasto
di Giunta?
«Bah. Nel caso, bisognerebbe farlo
in tre giorni. E non ci sono le
condizioni. Non mi sembra il caso di
perdere tempo in nuove
discussioni sugli assetti».
Qualcuno chiede di cercare subito un
nuovo candidato alla presidenza.
Avete già archiviato Pigliaru?
«No, ma lui ha detto che non si
sarebbe ricandidato e non ho notizie
di ripensamenti. Se è così, è giusto
pensare al successore».
Il Pd sardo, invece, cosa deve fare
per ripartire?
«Condivido molto la proposta di
Silvio Lai di un partito sardo
federato col Pd nazionale, che si
concentri molto più sui problemi
della Sardegna, a partire
dall'insularità, e sia autonomo anche sul
piano organizzativo».
E anche più attento alle
disuguaglianze? Insomma, più di sinistra?
«Sì, dobbiamo tornare a fare cose di
sinistra. Ma nell'ultima
Finanziaria regionale ce ne sono
almeno tre, molto importanti: il
piano per il lavoro; il reddito
d'inclusione sociale che abbiamo
introdotto per primi, il
finanziamento delle borse di studio
universitarie per tutti i 9mila
aventi diritto».
Come immagina il nuovo corso del Pd?
«Intanto avrei gradito che il
segretario si dimettesse già nella
direzione regionale di sabato
scorso, ma va bene anche in assemblea.
Non ha colpe specifiche, ma in certi
ruoli devi assumerti le
responsabilità e favorire il
rilancio in tempi rapidi».
Al posto dell'attuale segretario
vedrebbe con favore un reggente, o
meglio le primarie subito?
«Se l'assemblea eleggesse
all'unanimità un reggente autorevole,
potrebbe anche restare fino alle
Regionali. Se no, meglio dare presto
la parola a elettori e iscritti».
Lei quale soluzione preferirebbe,
tra queste due?
«Sicuramente la prima. Quella
unitaria. Dobbiamo smetterla di dividerci».
Oltre che unitaria, la svolta
dovrebbe anche essere all'insegna del
ricambio generazionale?
«Sono favorevole a un rinnovamento
al vertice, ci sono ottimi giovani
in grado di assumere ruoli
dirigenziali. Il che non significa
rottamare le persone competenti: ma
vedrei bene una svolta
generazionale anche per l'immagine
del partito».
Giuseppe Meloni
Parla
Pietro Pittalis, neodeputato di FI: «Porto a Roma gli interessi
dell'Isola»
«Vogliamo
una Sardegna forte e attenta alle comunità locali»
«Dobbiamo iniziare ad agire come
uomini di pensiero e pensare come
uomini d'azione, per dirla con
Bergson. Dobbiamo definire un nuovo
patto tra Sardegna e Stato e,
all'interno, ricostruire un rapporto
equilibrato con le comunità locali e
il mondo agropastorale». Pietro
Pittalis si prepara a partire per
Roma e giura che mai, neppure per un
istante, dimenticherà di essere «un
rappresentante del popolo sardo».
Nato nel 1958 a Charleroi (in
Belgio) dove il babbo, di Orune, faceva
il minatore, è tornato con la
famiglia nell'Isola da bambino, poi ha
preso la laurea in Giurisprudenza a
Firenze, è diventato avvocato e ha
vissuto tra Nuoro e Cagliari, in
Consiglio regionale. Eletto per la
prima volta nel 1994 (con Forza
Italia) alla sua quinta legislatura
consecutiva, lascia l'Aula dopo
ventiquattro anni per andare a fare il
deputato.
Una lunga carriera politica, e ora
parlamentare per la prima volta.
«Credo di aver maturato
un'esperienza che mi aiuterà a
capire come
essere utile per dare voce alla
Sardegna».
Le farà bene disintossicarsi dal
Consiglio regionale.
«È stato sempre bellissimo, e ho
conosciuto persone di grande spessore».
Chi ricorda in particolare?
«Federico Palomba, un galantuomo, io
ero al mio esordio,
all'opposizione, avevamo grande
sintonia e affinità culturali, al di
là dei rispettivi ruoli».
Momenti tristi?
«Quando non siamo riusciti a dare
risposte a lavoratori licenziati, a
precari non stabilizzati, le
vertenze irrisolte, penso a Ottana, a
Macomer, a Portovesme, a Porto
Torres, quelli sono stati i momenti
peggiori, per i quali ciascuno di noi
deve sentire una forte
responsabilità».
È stato anche assessore.
«Sì, al Bilancio, dal '99 al 2001,
con Mario Floris presidente.
Raccoglievo un'eredità pesante,
erano state impegnate risorse ingenti
per i piani straordinari per
l'occupazione, dovevamo finanziare la
legge 28 sull'imprenditoria
giovanile, poi c'era l'obiettivo di dotare
ogni sardo di un computer, il
rilancio dei programmi integrati d'area.
Abbiamo attuato interventi che, se
andiamo a rivedere le cifre, hanno
dato la migliore performance degli
ultimi vent'anni in termini di
riduzione del debito, di quantità di
fondi messi in circolazione, di
aumento dei consumi».
E oggi come sta la Sardegna?
«Sta peggio. Perché non si è colto
il senso di una società che cambia,
di un processo industriale esaurito.
La politica non è stata in grado
di proporre soluzioni alternative né
di sostenere con misure adeguate
comparti come l'agroalimentare, il
turismo, l'agricoltura e la
pastorizia. Inoltre abbiamo una
continuità territoriale che non
funziona, un piano energetico
perennemente in fase di avvio, si è
andati verso un centralismo di
funzioni e poteri ai danni dei Comuni.
Tutto questo ha determinato la
sonora sconfitta del centrosinistra e
della Giunta Pigliaru».
Pensa che dopo il flop elettorale si
sarebbero dovuti dimettere?
«Dico solo che un tempo per molto
meno si prendeva atto del
fallimento, e non sussistendo più il
rapporto di fiducia con gli
elettori, le dimissioni erano un
atto dovuto. Purtroppo oggi la
politica ha scordato le buone
pratiche, si continua ad andare avanti
facendo finta che nulla sia successo
o, ancora peggio, mistificando il
risultato facendo analisi
completamente scollegate dalla realtà».
Segue le vicende del Pd?
«Leggo leggo».
E cosa pensa?
«Che oggi a frenare un Movimento di
sola protesta, i Cinque Stelle, è
rimasto solo il centrodestra, che
con il 32% (senza neanche l'apporto
dei Riformatori) è competitivo e
rappresenta l'unico vero argine a
questa sorta di ubriacatura
generale».
Intanto a livello nazionale si è
parlato di un possibile accordo tra
Forza Italia e Pd.
«Sulle tre grandi emergenze -
pressione fiscale, sostegno alle povertà
e creazione di posti di lavoro - si
può trovare la convergenza per
dare risposte immediate agli
italiani. La nostra missione è la
soluzione di questi problemi, poi,
ci affidiamo alla saggezza e alla
prudenza del presidente Mattarella,
cui spetta districare la matassa».
Il vostro alleato Salvini sta
trattando con Di Maio.
«Io guardo ai fatti più che alle
ricostruzioni, e vedo che lui per ora
si è mosso nel perimetro della
coalizione, e confido sul fatto che
continui a essere portatore di quel
37% che ha preso il centrodestra a
livello nazionale, e non soltanto
del suo 17%».
Obiettivo Regionali del 2019.
«Il 15% che abbiamo preso alle
Politiche dimostra che Forza Italia
c'è. Ora si tratta di attrezzarci
meglio, di valorizzare i giovani, e
invito donne e uomini a tornare alla
militanza attiva, per costruire
una grande squadra».
Però vi manca un leader.
«Ci sono diverse personalità che si
distinguono amministrando Comuni
oppure nei parlamenti, italiano ed
europeo. Il nome scaturirà da un
programma e un'alleanza».
Alleanza con chi?
«Sono fermamente convinto che la
Sardegna possa essere un grande
laboratorio politico per costruire
qualcosa di nuovo, un centrodestra
moderno che guarda alla questione
sarda, identitaria e al rilancio
delle zone interne, aprendo alle
espressioni della migliore tradizione
sardista e sovranista. Serve un
fronte unico e compatto, per una
Sardegna autenticamente autonomista
e forte con lo Stato italiano».
Cristina Cossu
Gli
alleati alla Lega: o Palazzo Madama o il premier. Di Maio insiste:
niente
condannati
Meloni e
Berlusconi, pressing su Salvini per il Senato
O è strappo o è il caos. Quattro
giorni alla prima riunione del
Parlamento per l'elezione dei
presidenti di Camera e Senato, e tutto è
sempre più in alto mare. Proseguono
i contatti tra Luigi Di Maio e
Matteo Salvini, ma sul tavolo ancora
nessun nome da portare all'esame
delle due assemblee.
I due leader proseguono la loro
competizione per assicurarsi una via
preferenziale al Quirinale, ma sulla
partita delle presidenze il
leader del Carroccio è tra due
fuochi. Sia Giorgia Meloni che Silvio
Berlusconi lo stanno mettendo alle
strette: o la presidenza del Senato
o la premiership. Tutto non si può
avere. Gli azzurri ricordano che a
palazzo Madama Forza Italia è il
secondo gruppo, dopo M5S e sopra la
stessa Lega, e non intende restare
ai margini della trattativa. Anche
se il nome di Paolo Romani sembra
aver perso appeal, FI punta i piedi
e pare che alcuni emissari
fidatissimi di Berlusconi abbiano avuto
incontri informali col Pd.
Proprio da FI c'è la richiesta di
coinvolgere in Senato il Nazareno su
vicepresidenti, questori e
segretari. I numeri, viene spiegato,
escluderebbero i democratici, ma per
una questione di equilibrio non è
auspicabile. È già accaduto nella
scorsa legislatura, col M5S che
rischiava di non avere
rappresentanti nell'ufficio di presidenza. Il
Pd resta apparentemente a guardare:
per ora la palla è nelle sole mani
di Salvini. Due le opzioni per la
Lega: tenere salda la coalizione e
cedere il Senato agli azzurri o la
Camera a Fratelli d'Italia o Pd,
oppure confermare le mire sulla
seconda carica dello Stato e
consegnare Montecitorio ai
pentastellati.
Quest'ultima via farebbe saltare
l'alleanza con l'unica prospettiva
che Lega e M5S si votino da soli i
due presidenti. E, anche con
fatica, ce la farebbero. Salvini per
lo scranno più alto del Senato
punta su Roberto Calderoli o Giulia
Bongiorno. Di Maio preferirebbe
Riccardo Fraccaro, anziché Emilio
Carelli, perché è tra i maggiori
sostenitori dell'abolizione dei
vitalizi.
Di certo Di Maio non intende mollare
la presa: «Bisogna rispettare
l'esito delle elezioni», avverte, e
rivendica «la guida della Camera».
«Sarà una settimana emozionante»,
aggiunge il grillino, confermando lo
stile istituzionale che lo distingue
dal 4 marzo: «Siamo disponibili a
ragionare con tutti». Ma «prima il
metodo, poi i nomi. E ribadisco:
per le presidenze, no a condannati o
persone sotto processo». Un
messaggio a Salvini: né Romani né
Calderoli.
È Danilo Toninelli a scrivere nel
dettaglio l'agenda: «Di nomi non si
è parlato, lo faremo nei prossimi
giorni». L'idea del Movimento è di
mettere sul piatto i loro candidati
domani, per registrarne il
gradimento. Intanto è partito il
conto alla rovescia.
ASSEMINI.
Per le comunali
Casula
all'attacco Pd verso il voto sempre più diviso
L'avvicinarsi delle elezioni
comunali non sana la spaccatura nel Pd di
Assemini: tre circoli (Parks,
Rosselli e Spano) su cinque prendono le
distanze dal segretario cittadino,
Antonio Caddeo, a detta loro
«intenzionato a formare una
coalizione con il centrodestra.» Accusa
negata dal capogruppo in Consiglio
comunale, l'ex sindaco Luciano
Casula: «Non abbiamo mai dialogato
con il centrodestra ma avuto
incontri con Riformatori, liste
civiche e Antonio Scano. Il tutto
sotto la guida del segretario
legittimato, a differenza dei dissidenti
Francesco Consalvo, Roberto Pili e
Simone Rivano».
L'ex sindaco risponde a chi aveva
definito il circolo Lecis di Caddeo
allo sbando: «Nel 2013, nel suo
circolo, Consalvo era stato l'unico a
essere inserito in lista, per
garantirsi un posto in Consiglio. Il
resto della squadra era stato
completato dai circoli Lecis e Moro che,
a differenza degli altri, hanno
sempre contribuito al lavoro politico.
Alle scorse elezioni i dissidenti
hanno mosso un dito nella campagna
elettorale».
Consalvo ricorda: «Era stato Casula
a chiedermi di candidarmi, in
quanto segretario. C'era stata una
frammentazione ma ora c'è una
maggioranza del partito pronta a
formare una lista di centrosinistra.
Siamo contrari ad ammucchiate con il
centrodestra e Caddeo -
sfiduciato - fa finta di nulla». Per
Rivano, «la colpa della
situazione attuale è di Casula: 10
anni fa, quando ero candidato,
aveva fatto campagna elettorale per
Paolo Mereu (Fi) e nel 2013 è
riuscito a dimezzare i voti del
partito. Da anni chiediamo un
rinnovamento generazionale». (l.e.)
BARI
SARDO. Assemblea provinciale, Sabatini accusa: «Pochi iscritti»
Pd,
analisi di una disfatta: Sanità, riforma non capita
«La riforma sanitaria non è stata
capita». Il Pd ogliastrino si
interroga sulla sconfitta elettorale
alle politiche con lo sguardo
rivolto alle regionali. Nel tardo
pomeriggio di ieri il segretario
Carlo Balloi ha presieduto la
direzione e l'assemblea del Pd
organizzata al Centro civico di Bari
Sardo: «Sarà solo l'inizio -
aveva anticipato Balloi - di una
lunga fase di riflessione e di
confronto con tutti: iscritti,
simpatizzanti o semplici cittadini.
Insieme a loro dobbiamo affrontare
la soluzione dei problemi».
LA TESI DEGLI SCONFITTI Eppure non
sarebbero mancati, a giudizio del
segretario, provvedimenti importanti
varati dal governo nazionale e
regionale, a favore dell'Ogliastra:
«Penso - prosegue Balloi - alla
riforma ospedaliera o alla
programmazione territoriale. Resta il fatto
che non sono state percepite dalla
gente in quanto ancora inattuate.
Dobbiamo rialzarci e spronare la
giunta regionale».
Intanto Franco
Sabatini, candidato ogliastrino per
la Camera, ha dovuto cedere il
passo alla pentastellata Mara Lapia
in conseguenza del crollo del Pd.
«La gente si è sentita abbandonata -
è la riflessione di Sabatini -
intorno ai poli industriali avanza
il deserto, da Ottana ad Arbatax,
mentre la burocrazia rallenta fino allo
spasimo i principali
provvedimenti varati dalla giunta
regionale. I partiti come il nostro,
contrassegnati da leaderismo, pochi
iscritti e poca partecipazione,
hanno mostrato la loro
inadeguatezza. Bisogna ripartire dai paesi, dai
circoli e dalle primarie».
RIPARTIRE DALLA BASE Al momento i
circoli del Pd non godono certo di
buona salute. Come a Jerzu, dove si
vota a maggio per il rinnovo del
consiglio comunale. Alle politiche,
il Pd ha preso la metà dei voti
rispetto ai Cinquestelle: «Ripartire
dal basso - spiega Piero Carta,
coordinatore del circolo jerzese - è
una strada obbligata ma non sarà
facile, soprattutto con i giovani
che hanno individuato nel web il
canale preferito per la
partecipazione. In vista delle elezioni
comunali, bisogna mantenere netta la
distinzione dal quadro di
riferimento nazionale».
Intanto il segretario provinciale
Carlo Balloi annuncia un timido
segnale di svolta pervenuto con la
richiesta di un certo numero di
tesseramenti spontanei,
contestualmente all'esigenza di ristabilire
rapporti unitari con Leu nell'ottica
di un rafforzamento del centro
sinistra in vista delle battaglie
future.
Nino Melis
La
Nuova
Careddu:
l'aiuto di Tajani è un passaggio chiave
insularità e trasporti
di Luca Rojch
SASSARIL'assist che non ti aspetti
arriva dalla stessa Europa. Quella
che fino a oggi ha considerato la
Sardegna come estremo confine
dell'impero. Una trascurabile isola
del pigro Mediterraneo. Ma le
parole del presidente del Parlamento
Europeo Antonio Tajani, nella sua
intervista alla Nuova Sardegna,
sembrano segnare nuove relazioni tra
l'isola e le istituzioni di
Bruxelles. Da oggi un po' meno ostile. Il
presidente si è detto pronto a
sostenere le rivendicazioni portate
avanti in questi anni dalla giunta
guidata da Francesco Pigliaru.
Il governatore e il presidente si
erano già incontrati nell'aprile del
2017. E in quell'occasione Pigliaru
aveva mostrato il dossier
insularità. Nello stesso tempo aveva
chiesto che l'Europa avesse un
metodo condiviso con l'isola e
portasse avanti le richieste della
Sardegna. E con il governo che
sembra sempre più un equazione
impossibile da risolvere il canale
con l'Ue diventa preziosissimo.
Careddu. L'assessore ai Trasporti
Carlo Careddu, che con i burocrati
dell'Ue si scontra dal giorno stesso
del suo insediamento, lo ha
capito e non nasconde la sua
soddisfazione per l'apertura di Tajani.
«Apprezzo le parole del presidente
del Parlamento europeo e leggo il
suo intervento come un sostegno alla
battaglia della Regione
finalizzata al riconoscimento di
diritti fondamentali come quello alla
mobilità - dice Careddu -.
I sardi e la Sardegna chiedono che
tutte le
istituzioni, a livello nazionale ed
europeo facciano la loro parte, al
di là delle appartenenze e degli
schieramenti, per colmare il gap
esistente tra insularità e
continente in termini di trasporti,
energia, infrastrutture. Ci
aspettiamo adesso che le autorità
politiche e le strutture
burocratiche della Commissione siano
conseguenti all'apertura dimostrata
dal presidente Tajani».Le parole
d'ordine. Tajani ha posto come
obiettivo il superamento delle distanze
tra l'isola e le istituzioni Ue «in
termini di opportunità, di risorse
economiche e, soprattutto, di
competitività. Essere un'isola determina
un marcato svantaggio sul piano
dello sviluppo e della crescita, ma in
questi anni sono stati fatti
importanti passi in avanti per migliorare
questa situazione.
Il Parlamento europeo nel 2016 ha
approvato a larga
maggioranza una risoluzione che
verteva proprio sul riconoscimento
della condizione di insularità». Un
primo passo che Tajani non vuole
lasciare isolato. E chiede che il lo
Stato italiano faccia una legge
in cui venga riconosciuto lo status
di insularità della Sardegna e
delle maggiori isole. «Oggi questo
ritardo pesa nelle tasche dei sardi
per circa 1,1 miliardi di euro. E
gli effetti consistono in maggiori
oneri per il trasporto delle merci,
per la produzione, forti
ripercussioni sul piano energetico e
dei collegamenti». Tajani entra
anche in un altro capitolo
complicato dei rapporti tra Europa e
Sardegna: i trasporti.
E centra subito il tema chiave. «La
difficoltà
dei collegamenti da e per la
Sardegna resta la conseguenza più diretta
di una condizione insulare non
ancora riconosciuta». Ma forse le
dichiarazioni più importanti, che
suonano come una sinfonia melodiosa
alle orecchie dell'assessore
riguardano la Continuità territoriale.
«Bisogna garantire dei meccanismi di
compensazione e di perequazione,
la continuità territoriale è uno di
questi, che riducano gli oneri per
cittadini ed imprese. Sugli aiuti di
Stato certo è che occorre
superare i meccanismi stringenti che
limitano la mobilità da e per
l'isola». Su questa base sembra
aprirsi la strada a un nuovo rapporto
tra l'isola e l'Europa e tra la
Regione e gli organismi dell'Ue.
Verso
l'intesa per le presidenze I dem aprono al governo di scopo
Di Maio
non chiude ed è pronto a ridiscutere la sua "rosa". In agenda
il
vertice con Salvini. A metà settimana si comincerà
a parlare
chiaramente di nomi. No ai condannati o sotto processo
Due partite separate, una sulle
Camere, l'altra sul governo. Due
partite che Luigi Di Maio è pronto a
giocare con interlocutori
diversi, come Lega e Pd, nel giorno
in cui dai Dem giunge una prima
apertura ad un governo di scopo.
All'inizio della settimana cruciale
per le presidenze di Camera e Senato
è questa la strategia tracciata
dal M5S e dal suo leader che, nelle
prossime ore, si appresta a
stringere innanzitutto sull'accordo
per la seconda e terza carica
dello Stato. E, su questo campo, è
Matteo Salvini il principale
interlocutore del M5S. Di Maio e il
leader della Lega, prima della
riapertura del Senato, venerdì, si
sentiranno e potrebbero vedersi.
E il vertice tra Di Maio e Salvini
s'incrocia con il colloquio che
quest'ultimo avrà, mercoledì, con
Silvio Berlusconi. Sarà quindi a
metà settimana che si comincerà a
parlare, in maniera chiara, di nomi.
Ma qualche dato già emerge.
Innanzitutto resta il «no» del M5S a
candidati alle presidenze delle
Camere condannati o sotto processo. Un
«no» che inevitabilmente per Palazzo
Madama coinvolge il capogruppo di
FI Paolo Romani. Difficile, inoltre,
che il gruppo di senatori del M5S
dia il suo sì a Roberto Calderoli
(che non sembra essere tra le prime
carte neppure di Salvini). E se si
pensa che il M5S insiste sulla
guida della Camera il nome in pole,
al Senato, sembra essere della
senatrice leghista Giulia
Buongiorno.
Un accordo in tal senso
sbloccherebbe, come in un cubo di
Rubik, anche l'intesa per
Montecitorio dove, tra i
pentastellati, il nome più quotato resta
quello di Riccardo Fraccaro. «Siamo
il perno della legislatura, siamo
decisivi», afferma Di Maio riunendo
per la prima volta i 112 senatori
del Movimento e ribadendo come, da
parte sua, ci sia «la disponibilità
al dialogo con tutti» ma anche la
volontà che, chi sarà eletto ai
vertici delle Camere debba
«concorrere al cambiamento, a partire
dall'abolizione dei vitalizi». «Non
c'è una spartizione di poltrone,
il nostro compito è di sostenere le
persone più credibili», è la
replica che arriva dal portavoce del
Pd Matteo Richetti. Richetti che
apre ad un «esecutivo di scopo su
pochi punti», allargando la faglia
nei Dem tra i potenziali
responsabili e chi, come i renziani, non
vuole abdicare da un ruolo di
opposizione.
E, sempre ieri, un'altra
apertura è arrivata dal capogruppo
uscente Pd Ettore Rosato, che
definisce «utile», anche per un
eventuale alleanza di governo, la via
intrapresa dall'Spd in Germania: il
referendum tra gli iscritti.
Fibrillazioni che, in alcun modo,
vanno legate al Colle: il Quirinale
fa sapere infatti che Mattarella non
cerca la sponda di partiti o
correnti. Ma i sommovimenti nel Pd
sono visti con particolare
attenzione dal M5S. Di Maio non ha
ancora eliminato dalla rosa delle
soluzioni quella di un governo con
l'appoggio esterno con il Pd. «La
nostra forza è adattarci e
migliorarci», spiega, non a caso, ai
senatori, citando l'intervista in
cui Beppe Grillo, a La Repubblica,
apre di fatto a un governo di
condivisione sui temi. L'asse con la
Lega resta invece meno percorribile,
sia per gli equilibri interni al
centrodestra sia per la prevedibile
protesta di parte dei gruppi M5S,
più vicini, almeno culturalmente, al
mondo della sinistra.
E ieri, non
a caso, Di Maio ha ribadito la sua
apertura sulla rosa di governo.
«Dei ministri si parla con Mattarella,
dei temi invece si parla con i
partiti», spiega, facendo capire
come la squadra di governo presentata
prima del voto sia «sacrificabile»
nel dibattito futuro per
l'Esecutivo, «slegato» - sottolinea
Di Maio - dalla partita per le
presidenze delle Camere. Una partita
che difficilmente potrebbe finire
con Salvini a capo del Senato e Di
Maio alla guida della Camera: al
momento delle elezioni per le
presidenze il tavolo dei giochi per il
governo sarà tutt'altro che
concluso. Ed è un tavolo al quale sia Di
Maio che Salvini vogliono sedersi da
protagonisti.
Di Maio
assicura per la prima volta: lista dei ministri non intoccabile
Il Colle
dà tempo, ma fino a luglio di Fabrizio Finzi
Mentre i neo-senatori Cinque stelle
riempiono il Senato, Luigi Di Maio
apre decisamente al dialogo
assicurando per la prima volta che la
lista di ministri M5s non è
intoccabile. «Dei ministri parleremo con
Mattarella», ha detto confermando
che la legislatura partirà con al
centro il M5s. Non c'è però la
stessa fiducia al Quirinale dove si
assiste a un quadro politico che non
decolla, lasciando in campo più
soluzioni di Governo, tutte
spericolate. Il presidente è pronto a dare
tempo alla politica, sapendo che
potrà avere elementi di valutazione
affidabili solo attraverso le consultazioni
che si apriranno ai primi
di aprile. Al Colle ci si prepara
anche ai ritmi delle maratone
mettendo in conto la possibilità di
dover effettuare più round di
consultazioni che, tra l'altro,
avrebbero il pregio di portare a
maturazione il frutto di un Governo.
Naturalmente una deadline è stata
tracciata, sospinta dalla logica
delle scadenze. Non si può andare
oltre luglio, sia perché la non
voluta opzione di un ritorno alle urne
a ottobre non si può cancellare
dalla realtà (servono dai 45 ai 70
giorni dallo scioglimento alle
elezioni), sia perché sarebbe surreale
pensare di mandare gli italiani al
mare senza un Governo. Per non
parlare di quali potrebbero essere
le reazioni dei mercati. Ovvio che
Mattarella voglia con forza che la
legge di Bilancio 2019 sia
approvata. Se si dovesse arrivare
all'esercizio provvisorio la
responsabilità cadrebbe sulle forze
politiche.
Al di là dell'opzione
zeta, cioè il ritorno alle urne con
questo sistema elettorale, rimane
negli scenari valutati quella di
tentare un Governo con l'obiettivo di
fare Finanziaria e modifica del
Rosatellum per poi tornare alle urne,
magari accorpando politiche e
europee, previste nella primavera 2019.
In quest'ottica resta determinante
il ruolo del Pd che è pur sempre il
secondo partito del Paese. I Dem
sono silenziosi ed è difficile capire
cosa si muova veramente dentro il
partito. Ma avanza l'idea di far
decidere la linea agli iscritti con
un referendum. È chiaro che in
questa fase di stallo un Pd
dialogante potrebbe essere utile anche a
Mattarella se si trovasse costretto
a usare la moral suasion del
Quirinale per tentare la nascita di
un Governo di scopo.
In mezzo a
tutto ciò c'è la partita delle
presidenze delle Camere che tutti però
vogliono staccata da quella per il
Governo. Matteo Salvini ci ragiona
ma si trova nella difficile
posizione di doverne rendere conto a un
Silvio Berlusconi sospettoso. Che
rivedrà mercoledì prossimo.Intanto a
benedire le aperture di Di Maio ci
ha pensato Beppe Grillo: «noi siamo
un po' democristiani, un po' di
destra, un po' di sinistra, un po' di
centro. Possiamo adattarci a
qualsiasi cosa».
-----------------
Federico
Marini
skype:
federico1970ca
Nessun commento:
Posta un commento