La
Nuova
Il pm: «A
Milia 4 anni» Giudizio per altri dodici. di Mauro Lissia
Ha giustificato spese per centomila
euro e ha restituito al consiglio regionale 37mila euro, ma per l'ex assessore regionale
ai Beni culturali Sergio Milia tutto questo non è bastato a convincere il pm
Marco Cocco a ritirare l'accusa di peculato continuato che l'ha portato davanti
al giudice Giovanni Massidda per il giudizio abbreviato. La requisitoria è
stata rapida, pesante la richiesta di pena: quattro anni di reclusione, che
senza lo sconto legato al rito alternativo sarebbero sei. L'ex campione di
basket è finito in giudizio per 168mila euro, fondi del gruppo Udc che per l'accusa
ha speso in barba ai criteri di legge, in altre parole per acquisti e pagamenti
incompatibili con l'attività politico-istituzionale di un consigliere
regionale.
Nel corso dell'inchiesta Milia ha
portato in Procura ricevute, fatture, scontrini, documenti di spesa che nel
progetto difensivo concordato con gli avvocati Luigi Concas e Nicola Satta
avrebbero dovuto mettere in una luce diversa la sua posizione processuale.
Tutt'altro: nel corso di un intervento molto asciutto il pm Cocco ha ribadito
che non basta, perché le spese documentate non avevano «le finalità indicate dalla
legge». Come dire: il peculato c'era e rimane, la pena – una delle più alte
richieste nella sequenza dei processi per i fondi ai gruppi - è riferita
probabilmente all'importanza della somma contestata.
Il 29 marzo parleranno i due
difensori, subito dopo il giudice Massidda potrebbe andare in camera di
consiglio per la sentenza oppure rinviare la posizione di Milia insieme a
quelle degli altri dodici consiglieri ed ex consiglieri nella legislatura
2004-2009 per i quali la Procura ha chiesto, com'era ampiamente scontato, il
rinvio a giudizio. Sono dodici e la scelta del giudizio ordinario potrebbe
aiutare qualcuno di loro ad alleggerire la posizione processuale con la
prescrizione: i fatti del 2004 e del 2005 sono già al limite. Ma questo aspetto
dipende da circostanze che nulla hanno a che vedere con le accuse.
Finora l'ex consigliere Sergio Obinu
ha patteggiato due anni di reclusione ed è uscito formalmente dal processo. Per
gli altri i difensori hanno discusso brevemente e discuteranno ancora
all'udienza del 29. Nel capo d'imputazione di questa tranche compaiono i nomi
di amministratori di lungo corso, personaggi che hanno dominato la scena
regionale fin dai primi anni Ottanta, un'intera generazione di politici del
centrodestra. Fra questi Roberto Capelli, che ieri ha chiesto al giudice di
essere interrogato per spiegare che le sue spese sono sempre state legate «a motivi
istituzionali». Le contestazioni contenute negli atti firmati dal pm Cocco sono
speculari a quelle delle altre tranches d'inchiesta: peculato per l'uso
improprio dei fondi pubblici destinati al funzionamento dei gruppi consiliari,
spese per migliaia di euro non giustificate e denaro sparito in chissà quali
tasche.
Ecco l'elenco degli imputati, con le
cifre contestate dalla Procura: il tempiese ed attuale sindaco Andrea
Biancareddu (165.113 euro), l'oristanese Francesco Ignazio Cuccu (175265), i
sassaresi Sergio Milia (168.552) e Salvatore Amadu (21300), i cagliaritani
padroni dell'Aias Vittorio Randazzo (30302) e Alberto Randazzo (91014), Sergio
Marracini (26500), Antonio Cappai (36766), Giorgio Oppi di Iglesias (112950),
Sergio Obinu di Sindia (655258), il nuorese Roberto Capelli (129500), Silvestro
Ladu di Bitti (13517), Pasquale Onida di Oristano (26310), Eugenio Murgioni di
Castiadas (43000) e Silvestro Ladu di Siniscola (4500).
I difensori sono Guido Manca Bitti,
Luigi e Pierluigi Concas, Massimiliano Ravenna, Anna Maria Busia, Guido Da
Tome, Leonardo Filippi, Paolo Loria e Giuseppe Motzo. Ritorneranno davanti ai
giudici dopo la prima condanna Ladu, Amadu, i due Randazzo e Marracini, hanno precedenti
per altri reati Biancareddu e Murgioni.
Unione
Sarda
«Renzi ha
cambiato il sistema È ancora una risorsa del Pd»
Il neo
deputato Gavino Manca: il tempo darà ragione alle nostre riforme
Scusate il ritardo: Gavino Manca
doveva arrivare in Parlamento cinque
anni fa, e invece farà solo oggi il
suo esordio da deputato. Nel 2013
aveva vinto le primarie per le liste
del Pd alle Politiche, ma poi il
gioco degli “ascensori”, che regalò
ad altri i posti migliori, e
l'ospitalità verso candidati non
sardi avevano rimandato
l'appuntamento con Montecitorio.
Stavolta però il renziano sassarese
trova un contesto ben diverso: se
allora il Pd aveva la maggioranza
assoluta, in questa legislatura è
relegato a ruoli di rincalzo. «Ma
anche se ridimensionati, restiamo il
secondo gruppo parlamentare»,
ragiona Manca alla vigilia del debutto:
«Questo ci consentirà di presidiare
le commissioni e vigilare su ogni
aspetto. Chiunque governerà troverà
in noi un'opposizione attenta,
preparata e rigorosa. Daremo un
contributo affinché sia, nonostante
tutto, una buona legislatura, non
cederemo alla tentazione di ridurci
a impedire il governo degli altri.
Ci chiederemo ogni volta cosa
faremmo se al governo ci fossimo
noi».
Per la Sardegna che cosa conta di
fare?
«Mi faccia dire che mi sento in
Parlamento per portare la voce dei
sardi non solo su ciò che riguarda
l'Isola, ma sul governo dell'intero
Paese, che non può crescere
lasciandoci indietro o mortificando le
nostre energie. Mi batterò sui temi
indicati dai cittadini in campagna
elettorale: continuità territoriale,
occupazione, sviluppo turistico».
Su questi punti collaborerete con
gli eletti del centrodestra e del M5S?
«Ci sono dei momenti in cui è
necessario fare squadra. Nell'interesse
della Sardegna sono certo che ci
saranno argomenti su cui potremo
lavorare insieme».
In generale, le sembra più facile
collaborare col M5S o col centrodestra?
«Per il momento stanno perseguendo i
medesimi obiettivi, spartendosi
la presidenza delle Camere, ragionando
prima di poltrone che di
contenuti. Non hanno idea di cosa
fare concretamente al governo».
Lei ha detto: abbiamo governato
bene, gli elettori non ci hanno seguito. Perché?
«In quasi tutto il mondo occidentale
gli elettori stanno premiando le
forze antisistema. C'è un
pregiudizio verso tutte le istituzioni,
comprese quelle scientifiche. La
politica ha sempre meno strumenti per
risolvere i problemi della società:
e chiunque si trovi al governo
diventa il capro espiatorio per ogni
difficoltà».
Ma il Pd deve fare autocritica? È
vero che avete perso contatto con la
gente e trascurato la questione
sociale?
«Abbiamo iniziato l'autocritica alle
23 e 01 del 4 marzo. Raramente
nella storia politica italiana c'è
stato un mea culpa pubblico come
questo. C'è tanta voglia di
ripartire: l'importante è non buttare il
bambino con l'acqua sporca e
valorizzare le cose buone fatte al
governo, dagli 80 euro alle
politiche per il lavoro. Per ora sembra
premiato chi ha venduto speranze, ma
i cittadini scopriranno presto
che si è trattato di un bluff e si
ricorderanno di chi ha detto la
verità. Noi lavoreremo sulla
capacità di ascolto e coinvolgimento,
specie con le parti sociali ed
economiche».
Molti addebitano la disfatta
all'arroganza di Renzi.
«Sono convinto che Renzi sia stato
punito per il suo tentativo di
mettere in discussione lo status
quo. In tanti si sono sentiti
minacciati dal suo attivismo e dalla
voglia di cambiare il sistema.
Tutti vogliono le riforme a parole,
salvo criticare chi cerca di farle
davvero».
Ci sono però cose che il segretario
avrebbe dovuto fare diversamente?
«Anche se sinceramente convinto,
forse sulla riforma della
Costituzione e della scuola ha corso
troppo, senza aspettare che i
portatori di interesse ne
digerissero i contenuti. È rimasto saldo, e
gliene faccio un merito, su alcuni
punti cruciali: la visione europea,
il salvataggio delle persone
abbandonate nel Mediterraneo, la difesa
del pensiero scientifico. Temi
indigesti a larghe fette della
popolazione».
Si è pentito di aver scelto Renzi
fin dal 2012?
«Al di là dei prezzi pagati e delle
sconfitte subite, sono convinto di
aver preso parte a un grande
processo riformatore come pochi altri
nella storia della Repubblica. Ne
sono orgoglioso».
Ora lui dice che farà il senatore
semplice. Possibile? Può avere
ancora ruoli rilevanti nel Pd e per
il Paese?
«Renzi ha innovato il modo di fare
in politica e non potrà che
rimanere un punto di riferimento.
Sbollita la rabbia, sono sicuro che
a mente fredda saranno riscoperti i
meriti del suo governo».
In Sardegna il Pd è andato anche
peggio. Come mai? È colpa anche della Giunta?
«Se a Milano ci si sente in
periferia, si figuri in Sardegna. E se a
livello nazionale il problema era
l'attivismo e il protagonismo di
Renzi, qui il governatore ha un
profilo opposto. Pigliaru ha scelto di
parlare poco e di aggredire i
problemi dell'Isola in modo strutturale.
Un lavoro che darà frutti nel
tempo».
C'è qualcosa che avreste potuto fare
meglio?
«Dal punto di vista della
comunicazione si sarebbe potuto fare di più.
A volte non basta fare: bisogna
anche saper raccontare quello che si è
fatto».
Pigliaru deve ricandidarsi?
«Lui e la coalizione, su cui c'è
molto da lavorare, dovranno fare una
verifica del percorso fatto e delle
soluzioni più opportune, e
prendere insieme una decisione. Lo
so che sembra una tipica risposta
politichese, ma è l'unico percorso
possibile».
Il segretario Cucca non si è
dimesso. Non è meglio avviare subito una
nuova fase?
«L'onda emotiva prodotta dal voto è
stata grande. Siamo tutti
traumatizzati. Qualsiasi cosa accada
è bene ragionare a bocce ferme,
senza affidarsi alla pancia».
Dite di voler ripartire dai circoli.
Ma nei circoli c'è ancora qualcuno?
«Il bello di questa campagna
elettorale è che ho toccato con mano la
vitalità dei nostri circoli e dei
nostri militanti. Ci sono tanti
giovani in gamba che si stanno
mettendo a disposizione».
Che cosa pensa della proposta di un
referendum tra gli iscritti
sull'ipotesi di un partito della
sinistra sarda, federato col Pd
nazionale?
«Come è stato indicato a livello
nazionale, è il momento di promuovere
il massimo coinvolgimento possibile
su qualsiasi scelta che riguardi
il futuro del partito. Su tutto. Si
figuri su temi così delicati».
E a chi dice che serve un
rinnovamento totale nella vostra classe
dirigente isolana, che cosa
risponde?
«Guardi, la mia esperienza politica
è stata possibile grazie alla
presenza di maestri, insostituibili
punti di riferimento e di sostegno
e tuttavia sempre rispettosi di ogni
autonomia e libertà. Spero di
saper fare altrettanto con i giovani
che si affacciano alla politica
in questa fase».
Giuseppe Meloni
Fumata
nera al vertice di ieri sera tra tutti i capigruppo. Oggi le
sedute di
insediamento Camere, l'accordo non c'è ancora
L'M5S
conferma: no a Romani e no a trattative con Berlusconi
Tutto si deciderà oggi, ammesso che
si decida, nel corso delle
riunioni di insediamento di Camera e
del Senato.
Certo la fumata nera di ieri sera
dopo il vertice dei partiti non
lascia presagire niente di buono. Il
no del Movimento Cinquestelle a
Paolo Romani e a un incontro
chiarificatore tra di Luigi Di Maio e
Silvio Berlusconi ha sancito il
fallimento della riunione che era
stata convocata alle 20 nell'ufficio
dei pentastellati, a
Montecitorio, per tentare di
dirimere il nodo della presidenza del
Senato. Da subito il nome di Romani,
proposto unitariamente mercoledì
dai leader del centrodestra, aveva
trovato la netta opposizione del
partito più votato il 4 marzo.
«NO A CONDANNATI» «Non accettiamo
condannati in un ruolo di garanzia»,
era stata la posizione di Di Maio
che aveva definito il capogruppo
uscente di FI al Senato
«invotabile». Ma il leader M5S aveva proposto
un nuovo incontro tra i capigruppo
di tutte le forze politiche «per
ristabilire un dialogo proficuo al
fine di un corretto processo per
l'individuazione delle figure di
garanzia per le presidenze delle
Camere».
All'incontro c'erano Danilo
Toninelli e Giulia Grillo per il
Movimento, Massimiliano Fedriga e
Gian Marco Centinaio per la Lega,
Renato Brunetta e Paolo Romani per
Forza Italia, Pietro Grasso per
Leu, Lorenzo Guerini e Maurizio
Martina per il Pd e Guido Crosetto e
Fabio Rampelli per Fratelli
d'Italia.
PORTA CHIUSA A BERLUSCONI «La Lega
ha fatto il nome di Paolo Romani,
ma abbiamo confermato che per noi
non ha i requisiti, in quanto
condannato per peculato. Ma ciò non
significa che noi chiudiamo a un
nome di centrodestra», ha detto
Toninelli, al termine del vertice.
«Non accettano di parlare dei nomi
delle presidenze con Berlusconi
abbiamo fatto per un'ora questa
domanda e loro ci hanno risposto di
voler discutere la cosa al tavolo
dei capigruppo», ha detto Romani
lasciando la riunione.
Per i 5 Stelle il leader del
centrodestra è
Salvini, il più votato. «I nomi
usciranno solo se ci sarà un incontro
tra i leader altrimenti il
centrodestra andrà con Romani al Senato e
Giancarlo Giorgetti alla Camera»,
hanno ribadito da Forza Italia. «Del
resto il mandato dell'ex Cav ai suoi
capigruppo era chiaro: sugli
altri incarichi trattate voi, sulle
presidenze chi vuole ne deve
discutere con me».
RISCHIO VOTO SEGRETO Il rischio, che
intravvedono in molti dentro FI,
è che con il voto segreto i leghisti
possano giocare di sponda con il
Movimento Cinque Stelle per
affossare la candidatura di Romani.
Salvini lo ha escluso: «Sicuramente
il centrodestra voterà compatto.
Nomi e cognomi non ne faccio, però
voteremo compatti». Il nome di
compromesso resta quello di Anna
Maria Bernini, che otterrebbe il sì
del Movimento mentre per la Camera i
Cinquestelle sembrano ferma sul
nome di Raffaele Fico
LA POSIZIONE DEL PD Quanto al Pd,
che dopo un no iniziale, ha deciso
di partecipare al vertice, la
posizione è diversa: «Cambino metodo e
coinvolgano davvero tutti.
L'importante è non riproporre scelte
precostituite e ragionare davvero di
profili di garanzia. Le massime
cariche istituzionali devono essere
patrimonio di tutti», ha detto il
segretario reggente Martina. Matteo
Orfini, presidente del partito,
ribadisce il «no» a Romani.
L'ipotesi più accreditata è che
l'indicazione che verrà data ai
parlamentari dem sarà quella di votare
scheda bianca.
Forza
Italia insiste sul nome di Paolo Romani, ma il moVimento non cede
Incognita
Fraccaro-Fico per il M5s, il Pd intanto prova a sparigliare le carte
I veti
sulle presidenze Si ricomincia da zero
di Michele Esposito
Una girandola impazzita di continui
vertici culminata con la
riunione di tutti i capigruppo non
basta a evitare, fino alla tarda
serata di ieri, l'evaporazione di
ogni accordo sulle presidenze delle
due Camere.Troppi i nodi alla base
di un impasse che dura ormai da più
di 48 ore, primo fra tutti quello
della candidatura del centrodestra
di Paolo Romani alla guida del
Senato e, soprattutto, il rifiuto del
M5s a qualsiasi incontro con Silvio
Berlusconi. «I nomi usciranno solo
se ci sarà un incontro tra i leader,
altrimenti il centrodestra andrà
con Romani al Senato e Giancarlo
Giorgetti alla Camera», è l'affondo
di Forza Italia al termine della
riunione dei capigruppo che, a fine
giornata, tenta invano una
ricucitura in zona Cesarini.
FI, Lega, M5S:
sono questi, al momento, i tre
protagonisti dell'impasse al termine di
un confronto a distanza che, alla
fine, porterà a votare scheda bianca
ai primi scrutini sia il
centrodestra che il Pd. Rinviando, di fatto,
l'elezione della seconda e terza
carica dello Stato almeno a domani.
La giornata comincia con la
richiesta, da parte del capogruppo uscente
del Pd Ettore Rosato, di «resettare»
ogni possibile trattativa. Poi è
il centrodestra a tornare a riunirsi
e dal nuovo vertice
Berlusconi-Salvini-Meloni esce nuovamente
il nome di Paolo Romani.
È a quel punto che Di Maio rompe il
silenzio proponendo una riunione tra
tutti i capigruppo e sentenziando il
«no» del M5s al capogruppo
azzurro, «indagato ed
invotabile».Non passa neanche un'ora e Salvini
complica ulteriormente il quadro,
riaprendo al M5s («Se c'è un tavolo,
siamo pronti») e sancendo
«l'azzeramento» di qualsiasi precedente
trattativa. Parole che riportano il
M5s nei giochi in maniera
prepotente. Anche perché Salvini
ammette di sentire Di Maio «più di
sua madre» raccontando anche di un
contatto telefonico tra i due prima
che il leader della Lega entrasse a
Palazzo Grazioli per il vertice
del centrodestra. Ma di sblocco
dell'impasse, all'orizzonte, fino a
questo momento non si vede neanche
l'ombra.La riunione convocata dal
M5s alle 20 dura poco più di un'ora.
E sul tavolo sembrano spuntare i
primi nomi, a cominciare da quello
meno gradito al M5s. «La Lega ha
fatto il nome di Romani»,
spribadisce Ignazio La Russa all'uscita dal
vertice. Un vertice che, tuttavia,
non porta eccessive novità. «Il
leader del centrodestra è Matteo
Salvini, siamo disposti ad
incontrarlo. Non legittimeremo
Silvio Berlusconi e non siamo disposti
a un Nazareno-bis», è la reazione
dei vertici del MoVimento alla
richiesta, da parte di Forza Italia,
di un vertice fra Di Maio e
Berlusconi. Un vertice che, dalle
parti dei pentastellati, viene
considerato come «letale» per
l'immagine dei Cinquestelle davanti ai
propri elettori. È difficile che,
nelle prossime ore, il clima si
possa rasserenare.
Forza Italia insisterà ancora sulla
candidatura di
Romani ed il M5s insisterà con il
suo «niet».Con un rischio, per il
Movimento: se al Senato, dopo i
primi tre scrutini, il centrodestra
può eleggersi da solo un «suo»
presidente, a Montecitorio ai
Cinquestelle non può andare
altrettanto liscia perche gli servono,
comunque, almeno 94 voti. Da qui
nasce il timore di Di Maio di
«perdere» anche la Camera, a favore
di un candidato come Giancarlo
Giorgetti.
Se Forza Italia ed il moVimento
Cinquestelle riusciranno a
smussare in extremis il loro
scontro, il ticket giusto, secondo gli
ultimi rumors, potrebbe essere
quello di Anna Maria Bernini (con Anna
Maria Casellati, ex magistrato, come
outsider al quale il M5S avrebbe
una qualche difficoltà a dire di no)
al Senato e Riccardo Fraccaro
alla Camera. Ma è un ticket del
quale, almeno fino a stasera, non
dovrebbe esserci alcuna traccia
ufficiale e che potrà emergere solo
dopo che il «gioco dei veti» -
copyright del reggente del Pd Maurizio
Martina - si sarà smussato.
Il
partito spera di tornare in gioco per le nomine ma è bloccato dalle
sue
divisioni Verso la scheda bianca. Sui capigruppo la minoranza vuole un
rappresentante Alta tensione al Nazareno Renziani pronti alla conta
di Serenella Mattera
ROMA
Non farsi schiacciare nel ruolo di
spettatori complici di un accordo
tra M5s e centrodestra. È questo il
risultato che il Pd tutto vanta,
mentre i «vincitori» delle elezioni
si incartano sulla scelta dei
presidenti delle Camere. In una
partita in cui i Dem giocano di
rimessa e rischiano di non toccare
palla, guardano con sollievo alla
«ripartenza» delle trattative.
Tornano a sperare i «dialoganti», che
vorrebbero trattare ora sulle
presidenze delle Camere e magari domani
sul governo.Ma le mosse del Pd sono
ingessate dalle sue divisioni: chi
tifa perché salti l'intesa tra M5s e
centrodestra, ammette che da qui
a eleggere un nome Dem (quale, poi?)
ce ne passa.
E anche sulla scelta
dei capigruppo il braccio di ferro
porta a un rinvio: Luigi Zanda si
fa portavoce di chi vuole che almeno
uno dei due nomi sia «non
renziano», ma gli uomini vicini a
Matteo Renzi si dicono pronti «alla
conta». «Cambiare metodo, ripartire
da zero», per individuare «figure
di garanzia» per la presidenza delle
Camere: è questa la linea su cui
si attestano i Dem fin dal mattino,
con le dichiarazioni di Maurizio
Martina, Ettore Rosato, Lorenzo
Guerini. È la linea emersa dal
«caminetto» di mercoledì notte e
condivisa anche dai renziani, che
alla riunione hanno dato forfait.
Nelle prime votazioni ci si asterrà
con la scheda bianca: qualcuno
accarezza l'idea di scrivere il nome di
un Dem come Zanda per «contarsi», ma
in questo momento il Pd cerca di
evitare proprio le conte. In serata
Rosato dice che i Dem non
voteranno Paolo Romani, come del
resto - spiegano dal partito - non
voterebbero Roberto Fico alla
Camera: ma Romani è figura gradita a un
ampio fronte Dem, il non voto
aprirebbe la strada alla sua elezione.
In giornata c'è chi avanza altre
ipotesi, che si farebbero largo se
saltasse l'intesa M5s-centrodestra.
Trattare con il centrodestra per
eleggere Emma Bonino al Senato, o un
nome come Dario Franceschini o
Piero Fassino alla Camera.
Ma così, spiegano fonti
franceschiniane,
non solo si presterebbe il fianco
alle accuse di «inciucio» del M5s,
ma l'accordo rischierebbe di non
tenere perché alla Camera Pd e
centrodestra anche sommati non hanno
una maggioranza schiacciante, e
potrebbero «vincere» i franchi
tiratori. E poi, nonostante le
smentite, fioccano i sospetti che un
accordo sia preludio a un'intesa
sul governo. Per tutte queste
ragioni, i Dem si concentrano più sulle
vicepresidenze: c'è chi ipotizza che
alla Camera possa andare Rosato,
e al Senato Anna Rossomando,
orlandiana. Ma è una partita successiva,
che si intreccia con quella dei
capigruppo.
Martina, che prova a
tenere il Pd unito, in mattinata
vede Luca Lotti e in serata,
nell'aprire - Renzi assente - la
prima riunione dei gruppi Dem, rende
onore all'ex segretario. A tutte le
aree del partito il reggente
garantisce collegialità e si prende
un mandato a ricomporre
rispettando gli equilibri. Ma i
renziani tengono alta la guardia e la
minoranza aspetta il reggente alla
prova dei fatti. Di fatto, un
braccio di ferro.
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Federico
Marini
skype:
federico1970ca
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