venerdì 23 marzo 2018

Rassegna stampa 23 Marzo 2018


La Nuova

Il pm: «A Milia 4 anni» Giudizio per altri dodici. di Mauro Lissia

Ha giustificato spese per centomila euro e ha restituito al consiglio regionale 37mila euro, ma per l'ex assessore regionale ai Beni culturali Sergio Milia tutto questo non è bastato a convincere il pm Marco Cocco a ritirare l'accusa di peculato continuato che l'ha portato davanti al giudice Giovanni Massidda per il giudizio abbreviato. La requisitoria è stata rapida, pesante la richiesta di pena: quattro anni di reclusione, che senza lo sconto legato al rito alternativo sarebbero sei. L'ex campione di basket è finito in giudizio per 168mila euro, fondi del gruppo Udc che per l'accusa ha speso in barba ai criteri di legge, in altre parole per acquisti e pagamenti incompatibili con l'attività politico-istituzionale di un consigliere regionale.

Nel corso dell'inchiesta Milia ha portato in Procura ricevute, fatture, scontrini, documenti di spesa che nel progetto difensivo concordato con gli avvocati Luigi Concas e Nicola Satta avrebbero dovuto mettere in una luce diversa la sua posizione processuale. Tutt'altro: nel corso di un intervento molto asciutto il pm Cocco ha ribadito che non basta, perché le spese documentate non avevano «le finalità indicate dalla legge». Come dire: il peculato c'era e rimane, la pena – una delle più alte richieste nella sequenza dei processi per i fondi ai gruppi - è riferita probabilmente all'importanza della somma contestata.

Il 29 marzo parleranno i due difensori, subito dopo il giudice Massidda potrebbe andare in camera di consiglio per la sentenza oppure rinviare la posizione di Milia insieme a quelle degli altri dodici consiglieri ed ex consiglieri nella legislatura 2004-2009 per i quali la Procura ha chiesto, com'era ampiamente scontato, il rinvio a giudizio. Sono dodici e la scelta del giudizio ordinario potrebbe aiutare qualcuno di loro ad alleggerire la posizione processuale con la prescrizione: i fatti del 2004 e del 2005 sono già al limite. Ma questo aspetto dipende da circostanze che nulla hanno a che vedere con le accuse.

Finora l'ex consigliere Sergio Obinu ha patteggiato due anni di reclusione ed è uscito formalmente dal processo. Per gli altri i difensori hanno discusso brevemente e discuteranno ancora all'udienza del 29. Nel capo d'imputazione di questa tranche compaiono i nomi di amministratori di lungo corso, personaggi che hanno dominato la scena regionale fin dai primi anni Ottanta, un'intera generazione di politici del centrodestra. Fra questi Roberto Capelli, che ieri ha chiesto al giudice di essere interrogato per spiegare che le sue spese sono sempre state legate «a motivi istituzionali». Le contestazioni contenute negli atti firmati dal pm Cocco sono speculari a quelle delle altre tranches d'inchiesta: peculato per l'uso improprio dei fondi pubblici destinati al funzionamento dei gruppi consiliari, spese per migliaia di euro non giustificate e denaro sparito in chissà quali tasche.

Ecco l'elenco degli imputati, con le cifre contestate dalla Procura: il tempiese ed attuale sindaco Andrea Biancareddu (165.113 euro), l'oristanese Francesco Ignazio Cuccu (175265), i sassaresi Sergio Milia (168.552) e Salvatore Amadu (21300), i cagliaritani padroni dell'Aias Vittorio Randazzo (30302) e Alberto Randazzo (91014), Sergio Marracini (26500), Antonio Cappai (36766), Giorgio Oppi di Iglesias (112950), Sergio Obinu di Sindia (655258), il nuorese Roberto Capelli (129500), Silvestro Ladu di Bitti (13517), Pasquale Onida di Oristano (26310), Eugenio Murgioni di Castiadas (43000) e Silvestro Ladu di Siniscola (4500).

I difensori sono Guido Manca Bitti, Luigi e Pierluigi Concas, Massimiliano Ravenna, Anna Maria Busia, Guido Da Tome, Leonardo Filippi, Paolo Loria e Giuseppe Motzo. Ritorneranno davanti ai giudici dopo la prima condanna Ladu, Amadu, i due Randazzo e Marracini, hanno precedenti per altri reati Biancareddu e Murgioni.


Unione Sarda

«Renzi ha cambiato il sistema È ancora una risorsa del Pd»
Il neo deputato Gavino Manca: il tempo darà ragione alle nostre riforme

Scusate il ritardo: Gavino Manca doveva arrivare in Parlamento cinque
anni fa, e invece farà solo oggi il suo esordio da deputato. Nel 2013
aveva vinto le primarie per le liste del Pd alle Politiche, ma poi il
gioco degli “ascensori”, che regalò ad altri i posti migliori, e
l'ospitalità verso candidati non sardi avevano rimandato
l'appuntamento con Montecitorio.

Stavolta però il renziano sassarese trova un contesto ben diverso: se
allora il Pd aveva la maggioranza assoluta, in questa legislatura è
relegato a ruoli di rincalzo. «Ma anche se ridimensionati, restiamo il
secondo gruppo parlamentare», ragiona Manca alla vigilia del debutto:
«Questo ci consentirà di presidiare le commissioni e vigilare su ogni
aspetto. Chiunque governerà troverà in noi un'opposizione attenta,
preparata e rigorosa. Daremo un contributo affinché sia, nonostante
tutto, una buona legislatura, non cederemo alla tentazione di ridurci
a impedire il governo degli altri. Ci chiederemo ogni volta cosa
faremmo se al governo ci fossimo noi».

Per la Sardegna che cosa conta di fare?
«Mi faccia dire che mi sento in Parlamento per portare la voce dei
sardi non solo su ciò che riguarda l'Isola, ma sul governo dell'intero
Paese, che non può crescere lasciandoci indietro o mortificando le
nostre energie. Mi batterò sui temi indicati dai cittadini in campagna
elettorale: continuità territoriale, occupazione, sviluppo turistico».

Su questi punti collaborerete con gli eletti del centrodestra e del M5S?
«Ci sono dei momenti in cui è necessario fare squadra. Nell'interesse
della Sardegna sono certo che ci saranno argomenti su cui potremo
lavorare insieme».

In generale, le sembra più facile collaborare col M5S o col centrodestra?
«Per il momento stanno perseguendo i medesimi obiettivi, spartendosi
la presidenza delle Camere, ragionando prima di poltrone che di
contenuti. Non hanno idea di cosa fare concretamente al governo».

Lei ha detto: abbiamo governato bene, gli elettori non ci hanno seguito. Perché?
«In quasi tutto il mondo occidentale gli elettori stanno premiando le
forze antisistema. C'è un pregiudizio verso tutte le istituzioni,
comprese quelle scientifiche. La politica ha sempre meno strumenti per
risolvere i problemi della società: e chiunque si trovi al governo
diventa il capro espiatorio per ogni difficoltà».

Ma il Pd deve fare autocritica? È vero che avete perso contatto con la
gente e trascurato la questione sociale?
«Abbiamo iniziato l'autocritica alle 23 e 01 del 4 marzo. Raramente
nella storia politica italiana c'è stato un mea culpa pubblico come
questo. C'è tanta voglia di ripartire: l'importante è non buttare il
bambino con l'acqua sporca e valorizzare le cose buone fatte al
governo, dagli 80 euro alle politiche per il lavoro. Per ora sembra
premiato chi ha venduto speranze, ma i cittadini scopriranno presto
che si è trattato di un bluff e si ricorderanno di chi ha detto la
verità. Noi lavoreremo sulla capacità di ascolto e coinvolgimento,
specie con le parti sociali ed economiche».

Molti addebitano la disfatta all'arroganza di Renzi.
«Sono convinto che Renzi sia stato punito per il suo tentativo di
mettere in discussione lo status quo. In tanti si sono sentiti
minacciati dal suo attivismo e dalla voglia di cambiare il sistema.
Tutti vogliono le riforme a parole, salvo criticare chi cerca di farle
davvero».

Ci sono però cose che il segretario avrebbe dovuto fare diversamente?
«Anche se sinceramente convinto, forse sulla riforma della
Costituzione e della scuola ha corso troppo, senza aspettare che i
portatori di interesse ne digerissero i contenuti. È rimasto saldo, e
gliene faccio un merito, su alcuni punti cruciali: la visione europea,
il salvataggio delle persone abbandonate nel Mediterraneo, la difesa
del pensiero scientifico. Temi indigesti a larghe fette della
popolazione».

Si è pentito di aver scelto Renzi fin dal 2012?
«Al di là dei prezzi pagati e delle sconfitte subite, sono convinto di
aver preso parte a un grande processo riformatore come pochi altri
nella storia della Repubblica. Ne sono orgoglioso».

Ora lui dice che farà il senatore semplice. Possibile? Può avere
ancora ruoli rilevanti nel Pd e per il Paese?
«Renzi ha innovato il modo di fare in politica e non potrà che
rimanere un punto di riferimento. Sbollita la rabbia, sono sicuro che
a mente fredda saranno riscoperti i meriti del suo governo».

In Sardegna il Pd è andato anche peggio. Come mai? È colpa anche della Giunta?
«Se a Milano ci si sente in periferia, si figuri in Sardegna. E se a
livello nazionale il problema era l'attivismo e il protagonismo di
Renzi, qui il governatore ha un profilo opposto. Pigliaru ha scelto di
parlare poco e di aggredire i problemi dell'Isola in modo strutturale.
Un lavoro che darà frutti nel tempo».

C'è qualcosa che avreste potuto fare meglio?
«Dal punto di vista della comunicazione si sarebbe potuto fare di più.
A volte non basta fare: bisogna anche saper raccontare quello che si è
fatto».

Pigliaru deve ricandidarsi?
«Lui e la coalizione, su cui c'è molto da lavorare, dovranno fare una
verifica del percorso fatto e delle soluzioni più opportune, e
prendere insieme una decisione. Lo so che sembra una tipica risposta
politichese, ma è l'unico percorso possibile».

Il segretario Cucca non si è dimesso. Non è meglio avviare subito una
nuova fase?
«L'onda emotiva prodotta dal voto è stata grande. Siamo tutti
traumatizzati. Qualsiasi cosa accada è bene ragionare a bocce ferme,
senza affidarsi alla pancia».

Dite di voler ripartire dai circoli. Ma nei circoli c'è ancora qualcuno?
«Il bello di questa campagna elettorale è che ho toccato con mano la
vitalità dei nostri circoli e dei nostri militanti. Ci sono tanti
giovani in gamba che si stanno mettendo a disposizione».

Che cosa pensa della proposta di un referendum tra gli iscritti
sull'ipotesi di un partito della sinistra sarda, federato col Pd
nazionale?
«Come è stato indicato a livello nazionale, è il momento di promuovere
il massimo coinvolgimento possibile su qualsiasi scelta che riguardi
il futuro del partito. Su tutto. Si figuri su temi così delicati».

E a chi dice che serve un rinnovamento totale nella vostra classe
dirigente isolana, che cosa risponde?
«Guardi, la mia esperienza politica è stata possibile grazie alla
presenza di maestri, insostituibili punti di riferimento e di sostegno
e tuttavia sempre rispettosi di ogni autonomia e libertà. Spero di
saper fare altrettanto con i giovani che si affacciano alla politica
in questa fase».
Giuseppe Meloni

Fumata nera al vertice di ieri sera tra tutti i capigruppo. Oggi le
sedute di insediamento Camere, l'accordo non c'è ancora
L'M5S conferma: no a Romani e no a trattative con Berlusconi

Tutto si deciderà oggi, ammesso che si decida, nel corso delle
riunioni di insediamento di Camera e del Senato.
Certo la fumata nera di ieri sera dopo il vertice dei partiti non
lascia presagire niente di buono. Il no del Movimento Cinquestelle a
Paolo Romani e a un incontro chiarificatore tra di Luigi Di Maio e
Silvio Berlusconi ha sancito il fallimento della riunione che era
stata convocata alle 20 nell'ufficio dei pentastellati, a
Montecitorio, per tentare di dirimere il nodo della presidenza del
Senato. Da subito il nome di Romani, proposto unitariamente mercoledì
dai leader del centrodestra, aveva trovato la netta opposizione del
partito più votato il 4 marzo.

«NO A CONDANNATI» «Non accettiamo condannati in un ruolo di garanzia»,
era stata la posizione di Di Maio che aveva definito il capogruppo
uscente di FI al Senato «invotabile». Ma il leader M5S aveva proposto
un nuovo incontro tra i capigruppo di tutte le forze politiche «per
ristabilire un dialogo proficuo al fine di un corretto processo per
l'individuazione delle figure di garanzia per le presidenze delle
Camere».

All'incontro c'erano Danilo Toninelli e Giulia Grillo per il
Movimento, Massimiliano Fedriga e Gian Marco Centinaio per la Lega,
Renato Brunetta e Paolo Romani per Forza Italia, Pietro Grasso per
Leu, Lorenzo Guerini e Maurizio Martina per il Pd e Guido Crosetto e
Fabio Rampelli per Fratelli d'Italia.

PORTA CHIUSA A BERLUSCONI «La Lega ha fatto il nome di Paolo Romani,
ma abbiamo confermato che per noi non ha i requisiti, in quanto
condannato per peculato. Ma ciò non significa che noi chiudiamo a un
nome di centrodestra», ha detto Toninelli, al termine del vertice.
«Non accettano di parlare dei nomi delle presidenze con Berlusconi
abbiamo fatto per un'ora questa domanda e loro ci hanno risposto di
voler discutere la cosa al tavolo dei capigruppo», ha detto Romani
lasciando la riunione.

Per i 5 Stelle il leader del centrodestra è
Salvini, il più votato. «I nomi usciranno solo se ci sarà un incontro
tra i leader altrimenti il centrodestra andrà con Romani al Senato e
Giancarlo Giorgetti alla Camera», hanno ribadito da Forza Italia. «Del
resto il mandato dell'ex Cav ai suoi capigruppo era chiaro: sugli
altri incarichi trattate voi, sulle presidenze chi vuole ne deve
discutere con me».

RISCHIO VOTO SEGRETO Il rischio, che intravvedono in molti dentro FI,
è che con il voto segreto i leghisti possano giocare di sponda con il
Movimento Cinque Stelle per affossare la candidatura di Romani.
Salvini lo ha escluso: «Sicuramente il centrodestra voterà compatto.
Nomi e cognomi non ne faccio, però voteremo compatti». Il nome di
compromesso resta quello di Anna Maria Bernini, che otterrebbe il sì
del Movimento mentre per la Camera i Cinquestelle sembrano ferma sul
nome di Raffaele Fico

LA POSIZIONE DEL PD Quanto al Pd, che dopo un no iniziale, ha deciso
di partecipare al vertice, la posizione è diversa: «Cambino metodo e
coinvolgano davvero tutti. L'importante è non riproporre scelte
precostituite e ragionare davvero di profili di garanzia. Le massime
cariche istituzionali devono essere patrimonio di tutti», ha detto il
segretario reggente Martina. Matteo Orfini, presidente del partito,
ribadisce il «no» a Romani. L'ipotesi più accreditata è che
l'indicazione che verrà data ai parlamentari dem sarà quella di votare
scheda bianca.


Forza Italia insiste sul nome di Paolo Romani, ma il moVimento non cede
Incognita Fraccaro-Fico per il M5s, il Pd intanto prova a sparigliare le carte
I veti sulle presidenze Si ricomincia da zero

di Michele Esposito

Una girandola impazzita di continui vertici culminata con la
riunione di tutti i capigruppo non basta a evitare, fino alla tarda
serata di ieri, l'evaporazione di ogni accordo sulle presidenze delle
due Camere.Troppi i nodi alla base di un impasse che dura ormai da più
di 48 ore, primo fra tutti quello della candidatura del centrodestra
di Paolo Romani alla guida del Senato e, soprattutto, il rifiuto del
M5s a qualsiasi incontro con Silvio Berlusconi. «I nomi usciranno solo
se ci sarà un incontro tra i leader, altrimenti il centrodestra andrà
con Romani al Senato e Giancarlo Giorgetti alla Camera», è l'affondo
di Forza Italia al termine della riunione dei capigruppo che, a fine
giornata, tenta invano una ricucitura in zona Cesarini.

FI, Lega, M5S:
sono questi, al momento, i tre protagonisti dell'impasse al termine di
un confronto a distanza che, alla fine, porterà a votare scheda bianca
ai primi scrutini sia il centrodestra che il Pd. Rinviando, di fatto,
l'elezione della seconda e terza carica dello Stato almeno a domani.
La giornata comincia con la richiesta, da parte del capogruppo uscente
del Pd Ettore Rosato, di «resettare» ogni possibile trattativa. Poi è
il centrodestra a tornare a riunirsi e dal nuovo vertice
Berlusconi-Salvini-Meloni esce nuovamente il nome di Paolo Romani.

È a quel punto che Di Maio rompe il silenzio proponendo una riunione tra
tutti i capigruppo e sentenziando il «no» del M5s al capogruppo
azzurro, «indagato ed invotabile».Non passa neanche un'ora e Salvini
complica ulteriormente il quadro, riaprendo al M5s («Se c'è un tavolo,
siamo pronti») e sancendo «l'azzeramento» di qualsiasi precedente
trattativa. Parole che riportano il M5s nei giochi in maniera
prepotente. Anche perché Salvini ammette di sentire Di Maio «più di
sua madre» raccontando anche di un contatto telefonico tra i due prima
che il leader della Lega entrasse a Palazzo Grazioli per il vertice
del centrodestra. Ma di sblocco dell'impasse, all'orizzonte, fino a
questo momento non si vede neanche l'ombra.La riunione convocata dal
M5s alle 20 dura poco più di un'ora.

E sul tavolo sembrano spuntare i
primi nomi, a cominciare da quello meno gradito al M5s. «La Lega ha
fatto il nome di Romani», spribadisce Ignazio La Russa all'uscita dal
vertice. Un vertice che, tuttavia, non porta eccessive novità. «Il
leader del centrodestra è Matteo Salvini, siamo disposti ad
incontrarlo. Non legittimeremo Silvio Berlusconi e non siamo disposti
a un Nazareno-bis», è la reazione dei vertici del MoVimento alla
richiesta, da parte di Forza Italia, di un vertice fra Di Maio e
Berlusconi. Un vertice che, dalle parti dei pentastellati, viene
considerato come «letale» per l'immagine dei Cinquestelle davanti ai
propri elettori. È difficile che, nelle prossime ore, il clima si
possa rasserenare.

Forza Italia insisterà ancora sulla candidatura di
Romani ed il M5s insisterà con il suo «niet».Con un rischio, per il
Movimento: se al Senato, dopo i primi tre scrutini, il centrodestra
può eleggersi da solo un «suo» presidente, a Montecitorio ai
Cinquestelle non può andare altrettanto liscia perche gli servono,
comunque, almeno 94 voti. Da qui nasce il timore di Di Maio di
«perdere» anche la Camera, a favore di un candidato come Giancarlo
Giorgetti.

Se Forza Italia ed il moVimento Cinquestelle riusciranno a
smussare in extremis il loro scontro, il ticket giusto, secondo gli
ultimi rumors, potrebbe essere quello di Anna Maria Bernini (con Anna
Maria Casellati, ex magistrato, come outsider al quale il M5S avrebbe
una qualche difficoltà a dire di no) al Senato e Riccardo Fraccaro
alla Camera. Ma è un ticket del quale, almeno fino a stasera, non
dovrebbe esserci alcuna traccia ufficiale e che potrà emergere solo
dopo che il «gioco dei veti» - copyright del reggente del Pd Maurizio
Martina - si sarà smussato.

Il partito spera di tornare in gioco per le nomine ma è bloccato dalle
sue divisioni Verso la scheda bianca. Sui capigruppo la minoranza vuole un rappresentante Alta tensione al Nazareno Renziani pronti alla conta

di Serenella Mattera

ROMA
Non farsi schiacciare nel ruolo di spettatori complici di un accordo
tra M5s e centrodestra. È questo il risultato che il Pd tutto vanta,
mentre i «vincitori» delle elezioni si incartano sulla scelta dei
presidenti delle Camere. In una partita in cui i Dem giocano di
rimessa e rischiano di non toccare palla, guardano con sollievo alla
«ripartenza» delle trattative. Tornano a sperare i «dialoganti», che
vorrebbero trattare ora sulle presidenze delle Camere e magari domani
sul governo.Ma le mosse del Pd sono ingessate dalle sue divisioni: chi
tifa perché salti l'intesa tra M5s e centrodestra, ammette che da qui
a eleggere un nome Dem (quale, poi?) ce ne passa.

E anche sulla scelta
dei capigruppo il braccio di ferro porta a un rinvio: Luigi Zanda si
fa portavoce di chi vuole che almeno uno dei due nomi sia «non
renziano», ma gli uomini vicini a Matteo Renzi si dicono pronti «alla
conta». «Cambiare metodo, ripartire da zero», per individuare «figure
di garanzia» per la presidenza delle Camere: è questa la linea su cui
si attestano i Dem fin dal mattino, con le dichiarazioni di Maurizio
Martina, Ettore Rosato, Lorenzo Guerini. È la linea emersa dal
«caminetto» di mercoledì notte e condivisa anche dai renziani, che
alla riunione hanno dato forfait.

Nelle prime votazioni ci si asterrà
con la scheda bianca: qualcuno accarezza l'idea di scrivere il nome di
un Dem come Zanda per «contarsi», ma in questo momento il Pd cerca di
evitare proprio le conte. In serata Rosato dice che i Dem non
voteranno Paolo Romani, come del resto - spiegano dal partito - non
voterebbero Roberto Fico alla Camera: ma Romani è figura gradita a un
ampio fronte Dem, il non voto aprirebbe la strada alla sua elezione.
In giornata c'è chi avanza altre ipotesi, che si farebbero largo se
saltasse l'intesa M5s-centrodestra. Trattare con il centrodestra per
eleggere Emma Bonino al Senato, o un nome come Dario Franceschini o
Piero Fassino alla Camera.

Ma così, spiegano fonti franceschiniane,
non solo si presterebbe il fianco alle accuse di «inciucio» del M5s,
ma l'accordo rischierebbe di non tenere perché alla Camera Pd e
centrodestra anche sommati non hanno una maggioranza schiacciante, e
potrebbero «vincere» i franchi tiratori. E poi, nonostante le
smentite, fioccano i sospetti che un accordo sia preludio a un'intesa
sul governo. Per tutte queste ragioni, i Dem si concentrano più sulle
vicepresidenze: c'è chi ipotizza che alla Camera possa andare Rosato,
e al Senato Anna Rossomando, orlandiana. Ma è una partita successiva,
che si intreccia con quella dei capigruppo.

Martina, che prova a
tenere il Pd unito, in mattinata vede Luca Lotti e in serata,
nell'aprire - Renzi assente - la prima riunione dei gruppi Dem, rende
onore all'ex segretario. A tutte le aree del partito il reggente
garantisce collegialità e si prende un mandato a ricomporre
rispettando gli equilibri. Ma i renziani tengono alta la guardia e la
minoranza aspetta il reggente alla prova dei fatti. Di fatto, un
braccio di ferro.

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Federico Marini
skype: federico1970ca

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