Quel Je suis Charlie, che orgogliosamente campeggiava nelle
nostre bacheche, lo avevamo scritto nell’incrollabile convinzione che la satira
fosse espressione di libertà e che non andasse imbavagliata. Avevamo
manifestato, con la matita nella foto del profilo, la nostra vicinanza ai
redattori del settimanale satirico esortandoli a non lasciarsi intimidire
dall’assalto al giornale e da quei dodici cadaveri sparsi sul campo. Ma ora,
dopo la questa vignetta, la matita di partecipazione emotiva si è spuntata.
Perché la satira va bene su tutto, basta che stia lontana da
casa nostra. Quindi via libera su Maometto, sui musulmani e anche su Allah,
purché non smuova le corde del nostro patriottismo nazional-popolare. Ma, si
sa, più si avvicina a noi più diventa scadente e insulsa e offensiva. Eppure la
satira, proprio perché tale, mette alla berlina l’intoccabile per definizione.
Esalta i difetti dell’uomo, estremizza gli eventi, schiaffa
un’impietosa e dissacrante lente d’ingrandimento su persone e situazioni. Sotto
quest’ottica è un meraviglioso vettore di democrazia, raccoglie e reclama
l’applicazione del principio di uguaglianza. Ricky Gervais ci ricorda che la
finalità della satira è proprio questa: aiuta a smitizzare le sciagure.
“È esattamente così
che si è evoluto l’umorismo, per farci superare le cose di merda. Se non puoi
fare battute sulle cose di merda, non c’è alcun motivo di farle sulle cose
belle. A tutti piacciono i palloncini, ma chi cazzo se ne frega?” Dovremmo
averlo ormai capito che cose di merda ne accadono anche da noi, e anche molte.
Quindi la satira, piaccia o meno, va inflitta con obiettività e senza sconti
per nessuno. Nemmeno per gli italiani.
Di
Romina Fiore.
Nessun commento:
Posta un commento