Adesso pensa al nome, al suo nome. Pensa al nome del tuo
bambino, e pronuncialo. Pensa alla sua faccia da spiritoso, alla finestrella
che ha in bocca perché sta cambiando i dentini da latte. E pensa alle monellerie,
al ciuffo ribelle che non si abbassa quando lo pettini per mandarlo a
scuola. E guarda le foto che hai fatto con lui, coi fratellini, con le
zie, con gli amichetti, al compleanno, in gita.
E mentre ti senti galleggiare nell’amore per lui,
all’improvviso, una telefonata concitata che ti avvisa che c’è stata una
disgrazia.
Ma come una disgrazia? No, non è possibile! Si sono sbagliati, questo è sicuro. Allora corri, senza badare a pericoli, piangendo
disperatamente, e quando arrivi trovi un rottame giallo, fumante, e tante
persone che vagano come fantasmi. Uno ti indica, ti chiamano, ti chiedono di
avvicinarti. C’è uno che vuole chiederti di che colore era la camicetta che
aveva tuo figlio, oggi.
Tu pensi che sia una domanda assurda. Che quei mucchietti di
cose allineati non possono essere persone. Che le cose che stanno raccogliendo
non possono essere pezzi di persone. Che quella domanda non possono avertela
fatta per trovare il proprietario di quel braccino con una manica di camicetta
rossa.
Uguale a quella camicetta rossa che hai abbottonato
stamattina. Pensa a cosa significa vedere la propria vita finire in quell’istante. Restare
vivo solo per sentirti morto fino all’ultimo dei tuoi giorni.
Pensa a cosa proveresti nel sentire il colonnello, che ha ordinato quell’attacco sullo scuolabus pieno di bambini, parlare di “attacco legittimo”.
Pensa se tu potessi gridare il tuo dolore al proprietario
della fabbrica che ha prodotto la bomba che ha squartato il tuo bambino. E
pensa a cosa proveresti se lui ti rispondesse “Quest’anno la produzione è
aumentata, il fatturato cresce e le prospettive sono incoraggianti”.
Pensa se tu potessi gridare il tuo dolore a chi ha materialmente assemblato proprio quell’ordigno, in una fabbrica di un’isola lontana in mezzo al mare, e lui ti rispondesse che non c’era lavoro, che purtroppo se non lo avesse fatto lui qualcuno lo avrebbe ugualmente fatto.
Pensa se tu volessi scappare da tutto questo orrore,
dall’odore del sangue nella polvere, dallo sguardo spietato della morte, e dopo
mesi di fame, di sete, di paura, una volta approdato a una riva ti sentissi
dire “Tornatene da dove sei venuto”.
Pensa se tu volessi gridare il tuo dolore al mondo intero,
ma il mondo intero parla di telefonini e creme solari, fischiettando “Amore e
capoeira”.
E l’immane sofferenza, indicibile, incomprensibile per la
morte del tuo bambino, fatto a pezzi con l’esplosivo, interessa per una breve
giornata agostana un trafiletto sui media o questo insignificante post su
facebook. Pensa a tutto ciò. Solo così potrai avere lontanamente idea di ciò che prova
una madre nello Yemen.
Pier Franco Devias
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