Dalla scelta di Massimo Zedda
dipende il futuro del Comune. In questi giorni il primo cittadino e sindaco
metropolitano dovrà sciogliere la riserva e decidere se candidarsi alla
presidenza della Regione. Nel frattempo non dovrà togliersi la fascia tricolore
perché l'eventuale incompatibilità - che diventi governatore o consigliere
regionale di minoranza - si concretizzerebbe solo dopo le elezioni. In questa
fase c'è un'ampia gamma di scenari possibili, in base alla scelta di Zedda e al
risultato del voto di fine febbraio alle elezioni regionali.
SE SI CANDIDA E VINCE Tante anime
del centrosinistra spingono per una candidatura di Massimo Zedda che potrebbe
far allargare la coalizione nella speranza di evitare la disfatta e tentare una
rimonta difficile. Se dovesse candidarsi e vincere le elezioni diventando
presidente della Regione sarebbe un risultato clamoroso che lo lancerebbe tra
le figure di spicco del centrosinistra nazionale, ma sarebbe costretto a lasciare
la guida di palazzo Bacaredda.
Così come nel 2011 si era dimesso da
consigliere regionale una volta eletto sindaco, in questo caso dovrebbe fare il
contrario. Se dovesse dimettersi scatterebbero i 20 giorni tecnici di tempo
prima della effettiva entrata in vigore: solo a quel punto prenderebbe le
redini del Comune un commissario, il Consiglio comunale verrebbe sciolto e ci
sarebbero i tempi per un immediato ritorno alle urne in primavera.
DI NUOVO AL VOTO Le Regionali
dovrebbero essere domenica 24 febbraio mentre le Europee saranno 91 giorni
dopo, domenica 26 maggio. Non si sa se ci sarà un election day o se verrà
fissata un'altra data per le Amministrative, ma in ogni caso ci sarebbero 55
giorni di tempo necessari per tornare alle urne dopo le eventuali dimissioni.
In caso di vittoria - o di elezione come consigliere regionale d'opposizione - il
sindaco potrebbe scegliere anche un'altra strada: non dimettersi, prendere
tempo e aspettare la procedura per la decadenza.
I tempi, in questo caso, si
allungherebbero e la guida del Comune passerebbe in mano alla vice sindaca
Luisa Anna Marras mentre anche quella della Città metropolitana dovrebbe
passare al suo vice Fabrizio Rodin. Per quanto riguarda palazzo Regio, dovrebbe
applicarsi lo stesso sistema col vice sindaco metropolitano che diventerebbe
plenipotenziario.
Con questa soluzione si andrebbe al
voto per le Comunali nel 2020, un anno prima della scadenza naturale del
mandato. Ma, politicamente, se Zedda dovesse diventare presidente della
Regione, al centrosinistra converrebbe tornare subito alle urne per sfruttare
il vento favorevole e cercare di conservare la guida del Comune.
SE SI CANDIDA E PERDE C'è ancora
molta incertezza sull'eventuale candidatura del sindaco come successore di
Pigliaru. Se Massimo Zedda si candidasse e non riuscisse a vincere dovrebbe
affrontare una situazione scomoda. Potrebbe decidere di non tornare tra i
banchi dell'opposizione in Consiglio regionale e restare sindaco. Tornerebbe in
Municipio da sconfitto e, almeno per le valutazioni politiche, conterebbe
comunque il risultato raggiunto a Cagliari e dintorni.
Ma un cambio di rotta ai vertici
della Regione e la sua sconfitta potrebbero avere ripercussioni letali anche
sulla maggioranza che guida palazzo Bacaredda. Se tante forze politiche
sarebbero pronte a schierarsi al fianco di Zedda per conquistare Villa Devoto, altrettante
- in caso di sconfitta - potrebbero voltargli le spalle e cercare di farlo
cadere anche in Comune.
SE NON SI CANDIDA Questa situazione
potrebbe però verificarsi comunque. Anche se il sindaco decidesse di non cedere
alle tentazioni e restare tranquillo al secondo piano di palazzo Bacaredda, una
pesante sconfitta del centrosinistra potrebbe avere ripercussioni anche sul
Comune. Gli alleati potrebbero voltargli le spalle e il cambio di bandiera a
Villa Devoto, magari accompagnato da un pessimo risultato del centrosinistra
potrebbe portare a una crisi tra i banchi del Consiglio comunale.
Marcello Zasso
Unione Sarda
Nel
centrodestra prende forza l'ipotesi Binaghi
Il
presidente della Federtennis gradito alla Lega
Il centrodestra è molto vicino alla
scelta del suo candidato
governatore. Non c'è niente di
ufficiale, ma il nome attorno al quale
starebbe per chiudersi il cerchio
potrebbe essere quello di Angelo
Binaghi. Contrariamente a quanto si
può pensare, il presidente della
Federazione Italiana Tennis sarebbe
la prima scelta della Lega che,
quasi sicuramente, avrà diritto di
esprimere il candidato della
coalizione. Cagliaritano, una
famiglia importante alle spalle, Binaghi
è molto vicino al sottosegretario
alla presidenza del Consiglio (con
delega allo Sport) Giancarlo
Giorgetti. Secondo i bene informati, i
rapporti tra i due sono ottimi, e da
prima del 4 marzo.
SÌ DI FORZA ITALIA Il numero uno
della Fit sarebbe gradito anche a
Forza Italia, l'altro partito della
coalizione che in seconda battuta
potrebbe rivendicare il diritto di
esprimere un nome. Binaghi ha il
profilo adatto: ingegnere e ottimo
manager, ha il merito di aver
riportato in auge il tennis italiano
con campioni, in particolare
donne, che negli ultimi anni sono
riuscite a vincere tornei molto
importanti anche a livello di Grande
Slam. È un «decisionista»,
dicono. Uno «collaudato alla prova
di governo».
Una qualità che
sarebbe apprezzata da chi cerca una
figura con caratteristiche
coerenti con un programma di matrice
molto autonomista e
rivendicazionista nei confronti di
uno Stato «patrigno». Un nome buono
anche per Fratelli d'Italia, anche
se gli esponenti del partito di
Giorgia Meloni non hanno mai
nascosto di preferire una personalità
della politica. Nessuna preclusione
neanche da parte dei Riformatori.
È solo una coincidenza, però, il
fatto che Angelo Binaghi sia nipote
del fondatore del partito, Massimo
Fantola.
SCELTA IN 15 GIORNI Strada spianata,
dunque. Ma se questa è la scelta,
allora deve essere fatta subito. Il
presidente della Federtennis non
vuole stare sulla graticola. Se è il
nome condiviso, dovrà essere
ufficializzato entro due settimane,
venti giorni al massimo.
Il nodo è comunque a livello
nazionale e risale alla riunione di
Palazzo Grazioli del 20 settembre
quando Berlusconi, Salvini e Meloni
hanno fatto sapere che «il
centro-destra si presenterà unito a tutte
le prossime competizioni elettorali
a partire dalle elezioni regionali
di Piemonte, Abruzzo,
Basilicata, Sardegna con
l'individuazione di un
candidato condiviso, così come in
tutti altri appuntamenti
amministrativi». Si tratta di capire
come Lega, Forza Italia e
Fratelli d'Italia decideranno di
spartirsi le quattro regioni a
livello di nomi in campo.
Se poi entro quindici giorni non
arriverà nessun accordo, i
Riformatori hanno già avvertito che
chiederanno la celebrazione delle
primarie di coalizione. Alternativa
all'opzione Binaghi sarebbe la
magistrata Ines Pisano, sempre
espressione della Lega di Matteo
Salvini.
Roberto Murgia
Il
centrosinistra vuole schierare le liste civiche
Il
sostegno dei sindaci per convincere Zedda
Ma resta
l'incognita del rapporto con le primarie di Maninchedda
Se Massimo Zedda correrà per la
presidenza della Regione saranno le
civiche il suo vero esercito. Sembra
essere questa una delle cause dei
dubbi e dell'attesa prima di
sciogliere qualsiasi riserva. In questa
situazione i partiti rischiano di
essere ballerine di seconda fila per
lasciare le luci della ribalta a
sindaci e amministratori. Non è
escluso che a sostegno di Zedda ci
siano una lista del presidente e
altre due civiche.
Per ottenere un'investitura importante,
Zedda potrebbe decidere di
presentarsi alle primarie, anche se
in questo quadro politico è
difficile capire quali e organizzate
da chi. Le “nazionali sarde”,
lanciate ad Abbasanta da Paolo
Maninchedda, hanno dei limiti precisi
e, nonostante qualche segnale di
apertura, le posizioni sono ancora
distanti.
CORTEGGIATI Non è una novità
guardare al mondo dei sindaci e degli
amministratori, perché un po' tutte
le forze politiche hanno sposato
questa linea. Facendo parte di quel
mondo, il primo cittadino di
Cagliari rappresenta per molti
colleghi una soluzione ottimale. E pare
che lo stesso Zedda valuti
attentamente questo aspetto per evitare di
avere il cappello di qualche partito
sulla sua investitura.
La presenza di amministratori,
inoltre, riuscirebbe a sfumare i
contorni dei partiti, in forte
difficoltà nel consenso, e rendere più
libera la campagna elettorale. La
deputata dem e sindaca di Sadali,
Romina Mura, dice: «Sarebbe positivo
se i sindaci fossero
protagonisti, perché il loro ruolo è
fondamentale». Non a caso in
questi giorni sono stati proprio i
primi cittadini a sponsorizzare
ufficialmente una candidatura di
Zedda. Il consigliere regionale di
Campo progressista, Francesco Agus,
conferma la tesi dei sindaci
«protagonisti della politica sarda,
perché su di loro, in questi anni,
si sono scaricati costi, sacrifici e
responsabilità».
LE SPINE La campagna elettorale sarà
caratterizzata soprattutto dal
tentativo di ricucire il rapporto
tra politica e territori. «I
Municipi sono i punti di riferimento
e in molti paesi sono rimasti
anche gli ultimi», sottolinea Agus,
«ricucire lo strappo significa
dare agli amministratori la
possibilità di essere protagonisti».
Inoltre, questa operazione permette
di riportare all'impegno attivo
tanti sindaci che sono entrati in
rotta di collisione con il governo
regionale e che hanno rotto i
rapporti con il proprio partito di
riferimento.
LA CORSA Le primarie quasi
sicuramente si faranno. Il problema è
capire quante saranno, chi parteciperà
e quale sarà il progetto. Il
Partito dei sardi, protagonista
della campagna delle “primarie
nazionali”, è distante dal Partito
democratico e soprattutto pone la
questione nazionale.
Il presidente del Pds, Franciscu
Sedda, ha
scritto al presidente di Campo
progressista (partito di Zedda),
Luciano Uras, che aveva aperto alle
primarie, non della nazione sarda
ma del popolo sardo. Dopo un'analisi
sul contesto politico, Sedda
lancia l'appello: «Non credete che
la questione del popolo sardo vada
posta su un terreno più radicale di
rivendicazione di tipo
nazionale?».
Il Partito dei sardi ci crede, così
come reputa che le primarie
nazionali sarde siano il terreno
ideale per definire il progetto e
«scegliere insieme chi debba guidare
i sardi nell'affermazione dei
loro diritti e interessi nazionali,
dandogli il mandato e la forza che
solo una mobilitazione
nazional-popolare può dare». La speranza del
leader indipendentista è che si
possa «costruire una grande coalizione
nazionale sarda, pluralista e unita,
dove la sinistra sarda e l'area
moderata sarda possano
tranquillamente riconoscersi».
IN ATTESA Romina Mura pensa alle
primarie come «strumento utile per
individuare il candidato o la
candidata alla presidenza della
Regione». Certo l'importante è che
«ci sia un progetto condiviso a
monte, su temi come insularità,
trasporti e nuovi rapporti con lo
Stato». Agus, crede nell'utilità
delle primarie se «consentono un
rafforzamento della coalizione e
offrono alle tante persone fuori dai
partiti di riavvicinarsi alla
politica».
Matteo Sau
Coalizioni,
è il tempo dei calcoli
Partiti
al lavoro per sfruttare al meglio la legge elettorale
Corsa in solitaria o dentro una
coalizione? Non è soltanto la scelta
del candidato governatore a
impegnare i ragionieri dei partiti, ma
anche gli effetti della legge
elettorale sul nuovo scenario politico.
Quella sarda è stata di fatto
studiata su un sistema bipolare fatto da
coalizioni numericamente forti. A
fare da filtro a un parlamento sardo
eterogeneo ci sono le soglie di
sbarramento, il limite minimo da
raggiungere per concorrere
all'elezione di consiglieri. Per una
coalizione questo limite è fissato
al 10% dei voti validi che, con un
calcolo approssimativo sui numeri
del 2014, significherebbe prendere
tra i 77 e gli 80 mila voti.
I partiti che si presentano senza
alleati, come nel caso del Movimento
5 Stelle, devono superare la
soglia di sbarramento del 5%. Per i
candidati alla presidenza della
Regione, invece, la regole è che
oltre il vincitore, in Consiglio
regionale entri il secondo più
votato, lasciando fuori tutti gli
altri.
La legge elettorale prevede un
premio di maggioranza: se il
presidente eletto supera il 40% dei
voti, potrà contare sul 60% dei
seggi in Consiglio regionale, mentre
chi vince con una forbice
compresa tra il 25 e il 40% avrà il
55% di premio. L'unico caso in cui
i seggi vengono assegnati con un
proporzionale puro si verifica se
nessuno raggiunge il 25%. (m. s.)
Puddu:
«Non so se ci sarà una consultazione in rete o deciderà Di Maio»
M5S in
cerca del candidato che sostituirà Mura
Il Movimento 5 Stelle ha chiuso da
tempo con le regionarie la pratica
delle candidature. Con Mario Puddu
in corsa per la carica di
governatore, i pentastellati
lavorano sul programma che verrà
presentato ufficialmente ai sardi.
«Fra poco spingeremo
sull'acceleratore per entrare nel
vivo della campagna elettorale»,
dice Puddu.
Ancora non è stata decisa una data,
ma il piano di governo
della Regione dell'M5S è stato
costruito attraverso tavoli tematici
sulle questioni più importanti
dell'Isola. Qualche proposta comincia a
circolare, come nel caso della legge
urbanistica o della riforma
sanitaria, con posizioni
diametralmente opposte rispetto al governo
regionale di centrosinistra.
NUOVA SCELTA Dopo l'approvazione
delle dimissioni di Andrea Mura dalla
Camera, il Movimento 5 Stelle dovrà
partecipare alle elezioni
suppletive. Ancora in fase di studio
il metodo con cui verrà scelto il
candidato dell'uninominale: «I
criteri sulla scelta verranno
comunicati da Luigi Di Maio», spiega
il candidato dell'M5S. Non si sa,
dunque, se la scelta avverrà
attraverso una consultazione in rete
oppure con una scelta così come è
stato fatto per gli altri 8 collegi
uninominali, dove il Movimento ha
fatto l'en plein alle elezioni del 4
marzo. Nessuna alleanza per il
Movimento 5 Stelle che, al livello
regionale, non sarà influenzato dal
contratto di governo con la Lega.
M. S.
La
Nuova
Seggio
scoperto, è partita la caccia ai candidati
Cagliari,
sfumata l'ipotesi Berlusconi in Fi spunta Cicu. Il Pd
potrebbe
rispondere con Soru o Pigliaru
SASSARIIl collegio di Cagliari
potrebbe essere la prima occasione
utile per Silvio Berlusconi per
rientrare in Parlamento, ma
difficilmente il leader di Forza
Italia approfitterà delle dimissioni
di Andrea Mura. Troppo rischioso per
l'ex premier misurarsi in un
collegio per nulla sicuro, che il 4
marzo aveva premiato i 5 stelle.
Il suo nome era circolato
all'indomani dell'annuncio dell'addio a
Montecitorio del deputato-velista.
D'altro canto, fin dal momento in
cui Berlusconi era stato riabilitato
dal Tribunale di sorveglianza ed
erano stati cancellati gli effetti
della legge Severino, lo stato
maggiore di Forza Italia aveva
iniziato a studiare i possibili scenari
per candidare l'ex premier. La prima
occasione si presenta ora a
Cagliari, ma ormai Berlusconi è
concentrato sulle Europee di giugno,
dove presentandosi capolista in
tutti i collegi non corre rischi di
una bocciatura personale alle
urne.Le suppletive di Cagliari,
comunque, saranno un primo test a
livello nazionale, anche se molto
probabilmente saranno indette
insieme alle regionali.
Il che fa
supporre che per quel collegio si
replicheranno le stesse alleanze per
il governo dell'isola. E dunque i
due partiti che sostengono Conte, il
M5s e la Lega, si ritroveranno
avversari nelle urne. I 5 stelle,
infatti, che hanno già scelto il
loro candidato governatore, Mario
Puddu, e hanno annunciato di andare
da soli alle elezioni,
presenteranno un loro nome.
Difficile sapere se verrà scelto con una
consultazione on line oppure se sarà
pescato dalla società civile,
anche se l'esperienza Mura ha
lasciato il segno nel Movimento. Su
Cagliari potrebbe ritrovare l'unità
il centrodestra, ma il nome del
candidato dipenderà da chi sarà il
leader della coalizione.
In questo
momento in pole c'è il segretario
del Psd'Az, Christian Solinas, e a
quel punto il seggio per la Camera
potrebbe essere offerto a un big di
Forza Italia come Salvatore Cicu,
visto che la legislatura in Europa è
ormai agli sgoccioli. Stesso
discorso che può valere nel
centrosinistra per Renato Soru, che
ha già annunciato la sua decisione
di non ricandidarsi a Strasburgo, o
per l'attuale governatore
Francesco Pigliaru, che in quel modo
si farebbe da parte e lascerebbe
la strada libera per la leadership
di Massimo Zedda. (al.pi.)
Il Def fa
paura ai mercati
Di
Maio-Salvini: «Avanti»
Compleanno di lavoro per il ministro
del Tesoro che compie 70 anni
di Silvia GasparettowROMALa manovra
da 40 miliardi messa in cantiere
dal governo gialloverde, quasi tutta
in deficit, spaventa i mercati,
con lo spread che fa un balzo di
oltre 30 punti e tocca i 280 punti e
la Borsa che registra profondo
rosso, con un tonfo che in un solo
giorno brucia 22 miliardi di
capitalizzazione.Un esito atteso davanti
al quale l'esecutivo ostenta
sicurezza perché la manovra porterà più
crescita e una volta che saranno
svelati «i dettagli», garantisce il
presidente del Consiglio Giuseppe
Conte, «lo spread sarà coerente con
i fondamentali della nostra economia».
A Roma non fa paura nemmeno una
eventuale bocciatura della
Commissione europea, che si riserva di
esprimersi quando avrà sul tavolo la
bozza della legge di Bilancio ma
che già ha sottolineato, attraverso
i guardiani dei conti Ue, Valdis
Dombrovskis e Pierre Moscovici, che
l'Italia così non rispetta le
regole.Più severo il primo, più
dialogante il secondo, che spiega come
non ci sia interesse ad aprire una
crisi con l'Italia che però sta
facendo scelte che rischiano di
«impoverire i cittadini».
Anche in
casa nostra le risposte hanno
accenti diversi: Matteo Salvini,
spavaldo, dice che «i mercati se ne
faranno una ragione» e che se la
Ue boccerà la manovra «tiriamo
avanti» lo stesso, mentre Luigi Di
Maio, che a sua volta si dice «non
preoccupato da spread e mercati»,
getta acqua sul fuoco spiegando che
nessuno vuole andare allo scontro
con Bruxelles e che il debito
calerà, grazie alla crescita.Per la
legge di Bilancio vera e propria,
comunque, c'è ancora quasi un mese
di tempo, mentre a 24 ore dal Consiglio
dei ministri che ha approvato
la nota di aggiornamento al Def il
ministro dell'Economia Giovanni
Tria non ha ancora espresso alcun
commento e l'unico dato noto è il
deficit, che il governo ha deciso di
fissare per i prossimi 3 anni al
2,4% del Pil.
Ancora non si sa che effetti avrà
questa scelta né sul
debito, che rischia di non scendere
se non marginalmente e sfruttando
magari qualche trucco contabile come
sostiene l'ex commissario alla
spending review Carlo Cottarelli, né
tantomeno sul Pil. La manovra
«sarà seria, meditata e coraggiosa»
si limita a dire il premier
confidando che «sia la ricetta
giusta per la crescita e lo sviluppo
sociale». Un obiettivo ragionevole,
si lascia sfuggire uno dei vice
del ministro dell'Economia, Massimo
Garavaglia è che si possa arrivare
anche all'1,5%, se avrà successo la
scommessa di smontare la legge
Fornero per favorire il ricambio
generazionale e di introdurre il
reddito di cittadinanza migliorando
le condizioni per trovare lavoro.
Se Confindustria e sindacati
guardano con cautela al Def auspicando
che ora non si sbaglino le misure
della manovra, la prima reazione dei
mercati mostra però che gli
investitori sono poco convinti che una
politica così espansiva (27 miliardi
di deficit) ma con questo mix di
interventi possa rappresentare una
garanzia di tenuta dei conti
pubblici italiani. Nel venerdì nero
di Piazza Affari a soffrire è
tutto il listino con il Ftse Mib che
lascia sul terreno il 3,72% a
20.711 punti.
E a finire sotto tiro sono in
particolare i bancari con
perdite da capogiro comprese tra il
9,43% di Banco Bpm e il 6,73% di
Unicredit. Ma il conto dei timori di
maggiori spese e debito lo pagano
anche le aziende di Stato, con Poste
tra le più bersagliate (-4,28%
che la riavvicina ai valori della
quotazione). Lo spread tra il Btp e
il Bund chiude in rialzo a 267 punti
base da 235 punti, col tasso sul
decennale che torna, dopo alcuni
mesi, sopra il 3% al 3,13%. Un
livello che, se si manterrà tale,
costerà alle casse dello Stato un
esborso già calcolato da diversi
istituti in 3-4 miliardi, e che
dovrebbe essere a sua volta
quantificato nell'aggiornamento del Def.
La rabbia
di Tria, potrebbe lasciare dopo la manovra. Il Quirinale preoccupato
Il
pressing dell'M5s spiazza la Lega
di
Michele Esposito
Il giorno dopo il «ce l'abbiamo
fatta»
lanciato da Luigi Di Maio sul
balcone di Palazzo Chigi è un giorno di
lunghi silenzi e ripetute
rassicurazioni. I primi arrivano dal grande
«sconfitto» della manovra di
M5S-Lega, Giovanni Tria. Le seconde sono
scandite dal premier Giuseppe Conte
e dai due vicepremier, pronti a
spalare i via ogni dubbio sulla
stabilità dell'esecutivo giallo-verde.
Ma il titolare del Mef, irato per
quanto accaduto giovedì e al lavoro
nel suo ministero su una manovra non
sua, non avrebbe escluso del
tutto- si apprende in ambienti
parlamentari- il grande strappo dopo il
varo della legge di bilancio. Se il
rischio dimissioni sembra lontano
da qui fino all'ok delle Camere alla
manovra, tutto, o quasi, potrebbe
accadere già a partire dal giorno
successivo.
Di certo, quanto
accaduto giovedì stabilisce un
«prima e un dopo» nell'era
giallo-verde. M5S-Lega, con una
manovra da 40 miliardi e un
deficit/Pil del 2,4% scelgono di
andare allo scontro aperto con l'Ue e
di camminare sui carboni ardenti dei
mercati. Ma, già nel corso del
vertice di martedì sera con i
ministri M5S, Di Maio aveva fatto capire
ai suoi di essere pronto a tutto per
questo, anche alla crisi di
governo. Troppo importante per la
sua leadership e per il M5S era
inserire il reddito di cittadinanza,
misura con la quale i 5 Stelle
tornano a blindare il loro
elettorato del Sud. «Abbiamo ricordato a
Tria che manteniamo le nostre
promesse», sottolinea, non a caso, il
ministro Riccardo Fraccaro.
Il messaggio di «guerra»
pentastellato ,
attraverso Conte, è arrivato ben
chiaro a Tria, e forse anche al
presidente Sergio Mattarella, ben
consapevole che una crisi
dell'esecutivo alle porte della
manovra sarebbe stata deflagrante per
la stabilità italiana. Ed è su
questo terreno che il M5S, con il pieno
appoggio di Salvini e con Giancarlo
Giorgetti che, fino all'ultimo,
caldeggiava prudenza, ha potuto
forzare.
Con un'appendice non di poco
conto: l'aver «ceduto» all'influenza
della Lega la gestione della
ricostruzione del Ponte Morandi,
affidata al neo commissario Claudio
Gemme, manager di lungo corso che,
alle ultime elezioni, era stato tra
i papabili candidati del
centrodestra a sindaco di Genova.
Dal Quirinale intanto filtra
«preoccupazione per la tenuta dei conti».
Rimasto al suo posto secondo molti
su sollecitazione del Quirinale,
nonostante la decisione di Lega e
Movimento 5 Stelle di sfidare
l'Europa e i mercati con una manovra
finanziata quasi interamente in
deficit, il ministro Tria ha
lavorato per ore, nel giorno del suo
settantesimo compleanno, alla Nota
di aggiornamento al Def. Ha
riscritto e limato con il suo staff
le tante pagine del documento, i
focus, gli approfondimenti e,
soprattutto, le attese tabelle di
finanza pubblica.
È lì che comparirà scritto nero su
bianco il
disavanzo al 2,4%, è lì che si
evidenzieranno gli obiettivi di
crescita del governo per i prossimi
anni ed è sempre lì che verrà
calcolato il livello del debito
pubblico, quello su cui l'Italia è
internazionalmente più esposta.
Prima dello strappo consumato a
Palazzo Chigi, il ministro non aveva
escluso la possibilità di
partecipare ad una conferenza stampa
sull'educazione finanziaria da
tempo programmata al ministero.
La necessità di lavorare alla NaDef,
in una versione molto diversa
rispetto a quella fino a pochi giorni fa
immaginata, lo ha però bloccato nei
suoi uffici, allungando la
striscia di silenzio che ha
contraddistinto le sue ultime, difficili,
48 ore. A lungo Luigi Di Maio,
Matteo Salvini e Giuseppe Conte hanno
continuato a commentare in pubblico
quelli che dalle loro parole
sembrano i risultati già raggiunti
con la manovra ancora da scrivere
(crescita, vittoria sulla povertà,
rilancio degli investimenti), ma
dal titolare del Tesoro - ed è una
novità assoluta - non è arrivata
nemmeno una parola.
Difficile dire se nasconda l'impegno
a ricalcolare
le tabelle o la necessità di
contenere una scontata arrabbiatura. I
suoi commenti saranno affidati alla
premessa della Nota, la
tradizionale introduzione con cui il
ministro dell'Economia presenta
le linee programmatiche del governo
al Parlamento.
Il capitolo che più
rappresenterà la sua visione è
quello degli investimenti che saranno
previsti dall'ultima manovra e che
sono da sempre uno dei suoi cavalli
di battaglia anche in ateneo. Ma non
sarà semplice per il professore
esprimere davvero la sua
convinzione. Dopo aver rivendicato di aver
giurato «nell'interesse esclusivo
della nazione», degli italiani e dei
loro risparmi, giustificare ora un
possibile aumento del debito
potrebbe essere una missione non
facile.
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Federico
Marini
skype:
federico1970ca