Il tema è stato
analizzato da Gramsci segnatamente nelle Lettere dal carcere: in cui distingue
e separa nettamente il folclore dal folclorismo. Sì, le tradizioni popolari: le
canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di
Bolotana... le gare poetiche... le feste di San Costantino di Sedilo e di San
Palmerio ... le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive dal Carcere in una
lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno sempre
interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza
cabu nè coa.”
In altre opere Gramsci
ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una
stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa molto seria.
Solo così – fra l’altro – l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà
realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, facendo sparire il
distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre
occasioni sottolinea ancora che folclore è ciò che è, e occorrerebbe studiarlo
come una concezione del mondo e della vita, riflesso della condizione di vita
culturale di un popolo in contrasto con la società ufficiale.
Quello che invece Gramsci
critica è il “folclorismo“, ovvero: l’abbandono all’isolamento
storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che
definisce, malattia mortale di una cultura disattenta ai significati
progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento
della vita passata, nella celebrazione di quei «valori» che disturbano meno la
morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le
«operazioni conservatrici e reazionarie», legando viepiù il folclore
«alla cultura della classe dominante »
Di
Francesco Casula
Storico,
autore de “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”
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