Fra tutte le venti regioni,
gli alunni sardi, registrano i peggiori risultati: sono i più bocciati e i più
rimandati. Nella scuola Secondaria di secondo grado il 28,6 per cento ha
la sospensione di giudizio, cioè rimandato e, l’11,4 è stato bocciato. Solo il
60 per cento promosso. Il numero più alto di alunni bocciati si registra nelle
scuole professionali con il 17,3 per cento: significa che quasi uno su cinque
ripete lo stesso anno, mentre il 31% è rimandato. Sale il dato nei Tecnici dove
i rimandati sono il 32,8 per cento e il 14,4 per cento i non ammessi alla
classe successiva. Anche nelle Secondarie di Primo grado si registrano
risultati negativi per l’anno scolastico appena terminato: in Italia la
percentuale degli ammessi alla classe successiva è il 97,7, in Sardegna si sta
sotto la media con il 97,2 e il 2,8 per cento di bocciati. E
la dispersione scolastica è la più alta d’Italia: un ragazzo su quattro non
arriva al diploma.
Gli studenti sardi sono più
tonti di quelli italiani? O poco inclini allo studio e all’impegno? E i docenti
sono più scarsi o più severi? Io non credo. Come non penso che
svolgano più un ruolo determinante la mancanza o l’insufficienza delle
strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), anche se certamente
influenzano negativamente i risultati scolastici. E allora? E allora i motivi
veri sono altri: attengono alle demotivazioni, al senso di lontananza e di
estraneità di questa scuola. Che non risulta né interessante, né gratificante,
né attraente. La scuola italiana in Sardegna infatti è rivolta a un alunno che non
c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a
un sardo. E tanto meno a una sarda.
È una scuola che con i
contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha
niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei
programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione. Provate a
chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di
una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente
fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno
studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il
latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri
e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale
codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea.
Vi rendereste conto che la
storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è
stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola
monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo
sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al
“periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero
voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha
prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai
appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno.
Apprendono l’italiano a
scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata,
gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una
scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e
devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti
la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i
valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e
fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere
collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo
essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai
valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e
coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo
al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico.
Li si strappa al nucleo
familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima
conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i
giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito
scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura
del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati,
“poveri” sia culturalmente che linguisticamente. Di qui la mortalità e la
dispersione scolastica.
Ite faghere? Cambiare
radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e
dirigenti scolastici. Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente
partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la
presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico
non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma
come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione,
che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative
degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello
sviluppo. Di qui la necessità che nelle scuole di ogni ordine e grado si
inserisca la lingua e la cultura sarda, come materia curriculare. Altrimenti
i record negativi della scuola in Sardegna permarranno. E continuare a
piangersi addosso e a lamentarci servirà a poco
Francesco Casula
Saggista e
storico della letteratura sarda
Autore (tra
gli altri) dell’opera “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”
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