Mancano poche ore alla sessione del Senato scaturita dal
voltafaccia di Matteo Salvini, e tanti scenari sono ancora possibili per il
futuro del Parlamento e del governo italiano. Ormai abbondano innumerevoli
esercizi d’immaginazione che però nella maggior parte dei casi sono solo
congetture senza troppe basi reali. I fantagoverni vengono fatti e disfatti da
vecchi arnesi della Seconda Repubblica, stanche locomotive che trascinano tutti
i vagoni ammaccati del sistema mediatico italiano in coda a nomi consumati, a
partire dal prezzemolino più costoso del mondo, Mario Draghi.
Malgrado il caos di
queste ore, provo a enunciare alcuni punti fermi, che valutano sia la formula del “governo del
cambiamento” oggi in crisi, sia le prossime possibili soluzioni. Se ci riesco
non concederò alcunché alla fantapolitica, ma solo all’ottimismo della volontà.
COSA CI UNIVA: IL CENTRO DEL CONTRATTO
Innanzitutto,
ricordiamoci come è nata questa legislatura. Una marea di voti riversati nelle urne il 4 marzo 2018
hanno fatto del M5S una forza alquanto grande da essere imprescindibile per un
governo (con il 36% dei parlamentari), ma non abbastanza autosufficiente. Gli
unici governi possibili richiedevano una contrattazione in cui si trovassero
punti comuni tra soggetti molto diversi disposti ad accettare mediazioni
distanti dalla loro rispettiva storia. Inevitabile per chi sottoscrivesse un accordo
di governo non essere contento di
alcuni punti raggiunti nella negoziazione. Anche perché l’unica
alternativa a un accordo di questa natura era l’ennesimo governo tecnico, cioè un governo rovinosissimo che
avrebbe aggiunto sofferenze enormi alle sofferenze economiche già inflitte al
popolo dai precedenti governi tecnici, che avevano peggiorato la qualità della
democrazia italiana, condannata a una stagnazione assai comoda per i paesi
dominanti dell’Unione europea.
Nello stipulare il “contratto di governo”, il M5S e la Lega
condividevano una grande aspirazione posta al centro del programma, ed era in
suo nome che le due forze di governo riuscivano a digerire i rispettivi “rospi”
che si costringevano a ingoiare.
Qual era questo centro
del programma? Lo sintetizzo così: restituire alla Repubblica italiana i mezzi,
i metodi, gli istituti occorrenti a fare autonomamente politica economica, ossia tutti gli strumenti per i
quali la Repubblica è stata invece da molti anni spodestata dall’attuale
compagine istituzionale europea, che ha causato un impoverimento sempre più
pesante dei cittadini e della cosa pubblica, con un crescente inaridimento
della sovranità popolare. Ci siamo riusciti a realizzare il nucleo della nuova
proposta politica?
No, non ancora, ma abbiamo nondimeno fatto tanto, con molti
provvedimenti guidati dall’intento di migliorare la vita di milioni di
cittadini. Non c’è stata abbastanza forza e coraggio innovativo per spingere
al massimo questo “centro del programma”, dunque i risultati sono stati parziali, anche se alcune
misure pur modeste hanno cambiato la tendenza degli ultimi anni: penso in
particolare al c.d. Decreto Dignità, che ha invertito radicalmente la tendenza a precarizzare il lavoro e ha
spinto alla stabilizzazione dei lavoratori ad un ritmo mai visto da decenni. Si
è scoperto che con poco si otteneva già molto, purché si agisse in direzione
contraria al passato. Figuriamoci cosa si poteva ottenere con il molto.
Come ho avuto già modo di far notare, il presidente del
Consiglio Giuseppe Conte, dapprima sottovalutato dalla totalità dei media e dalle forze politiche
avversarie (oltre che aggredito con indecenti campagne che tentavano di
demolire la sua reputazione), si è rivelato un mediatore formidabile, creativo
e tenace, che ha mantenuto elevatissimo il consenso di una forte maggioranza
dei cittadini intorno alla prospettiva del “governo del cambiamento”.
Conte è stato un
elemento di stabilità in grado di offrire un ombrello protettivo alle dinamiche
frenetiche della politica italiana. Matteo Salvini ha potuto approfittare di questa
salvaguardia sovrastante e ha parassitato la “pace” che solo Conte poteva
garantire intorno al governo ai suoi primi passi. Salvini
ha scelto sin da subito di strumentalizzare con dismisura il ruolo pubblico del
Ministero dell’Interno, piegandolo all’uso di
un apparato propagandistico di parte, un martellante sistema di megafoni che
urlava un solo tema, l’immigrazione (pur sentito come una minaccia da una
maggioranza netta dei cittadini). Il tema veniva da lui esasperato senza
preoccupazioni o scrupoli perché sapeva che le patate bollenti passavano in
altre mani, che sapevano dare uno sbocco istituzionale a quel problema lasciato
incancrenire colpevolmente e gravemente dai precedenti governi e ora innalzato
a questione numero uno da Salvini.
Il MoVimento 5 Stelle
era impegnato nel mentre a far approvare la stragrande maggioranza dei
provvedimenti di legge innovativi, che davano all’Italia per la prima volta dopo tanti anni
un vero governo politico, un’autorità che non proteggeva più il vecchio ceto di
politicanti che avevano ceduto i gioielli di famiglia perché “ce lo chiedeva
l’Europa” e combatteva la corruzione di certi corpi dello Stato. Avendo ora in
campo un vero governo – che incontrava sì difficoltà e aveva sì dei limiti, ma
era pienamente politico e a suo modo efficace – il M5S vi investiva tutte le
sue energie e trascurava le difese rispetto alla strumentalizzazione partitica
della Lega salviniana, che intanto occupava ogni spazio, spesso fingendo di
cercare soluzioni ai problemi.
IL TITANISMO
COMIZIO-CENTRICO E LA DEMOLIZIONE DEL CARISMA
Riassumendo: la rana
salviniana si gonfiava costantemente perché sui suoi polmoni confluiva una vera
tempesta perfetta, alimentata da vari fattori concomitanti:
1) la totale strumentalizzazione della funzione ministeriale in un kombinat di
agitazione e propaganda elettorale permanente, incentrata sul titanismo
comizio-centrico di Salvini, basata sull’opinione sondata istantanea, affidata
a una memoria ridotta alle 48 ore, dove anche la stessa Lega risultava
cannibalizzata dal culto della personalità bulimica del suo leader;
2) l’egoismo irremovibile dell’Europa in merito al problema della
gestione dei suoi confini meridionali, al quale hanno accondisceso i governi italiani precedenti,
a loro volta complici delle recenti guerre che hanno aggravato le cause delle
migrazioni;
3) un sistema dei media che gareggiava faccia a faccia con il kombinat salviniano,
gli opponeva un gonfiatissimo allarme antifascista, ma in realtà lo magnificava per
sgonfiare l’anomalia del M5S e rafforzare intorno a un nemico temibile il ceto
politico malconcio che aveva ereditato il residuo elettorato della sinistra;
4) un M5S che mancava totalmente il suo appuntamento con la
questione audiovisiva italiana (cioè una questione politica di primordine) lasciando fare tutto agli
altri e sguarnendo un’area vasta del popolo italiano da una sua degna presenza
nei media.
In questo quadro
Salvini ha gestito malissimo le relazioni internazionali. La politica internazionale è un
sistema complesso di scacchiere, ma Salvini gioca sempre a dama, purtroppo come
giocherebbe un piccione. E in più si circonda di magliari alla Savoini. Ma
questo ci porterebbe lontano.
Come accadde già
all’altro Matteo, quel Renzi che nel 2014 conquistò un formidabile 40% di voti
espressi, anche Salvini ha ottenuto uno strabiliante risultato alle elezioni
europee, che si rivelano una
volta di più come uno specchio deformato dell’elettorato nazionale. Questo tipo
di elezioni è oramai un evento di fatto destabilizzante, perché il leader che
in quel momento è sulla cresta dell’onda viene tentato dal cementare intorno
alla sua persona l’eterna palude conservatrice italiana, nell’illusione di
avere in pugno una maggioranza disposta a dargli qualche forma di “pieni
poteri”.
L’abbaglio renziano si
spinse e si spense in una revisione
costituzionale rifiutata via referendum dalla maggioranza vera dei cittadini.
L’abbaglio salviniano si spegne molto prima, già adesso, perché la ruota gira
ormai più in fretta, dietro alla supposta capitalizzazione di un consenso che
in realtà è sempre più volatile e disaffezionato.
Questi accentratori
impazienti dimenticano che le istituzioni sono durevoli e possiedono tanti
meccanismi di arresto nei confronti di chi voglia forzarle per calcoli di breve
respiro. E dimenticano anche
che i loro fan tifano sì per loro, ma la maggioranza di chi vota non è fan di
nessuno e cambia facilmente suffragio. Questo vale per tutti, nessuno escluso,
noi compresi, ma vale tanto di più a danno di questi autocrati da “vorrei ma
non posso”, poverissimi di vere qualità strategiche e incapaci di cogliere la
complessità della società, che si illudono di sedurre oltre il breve raggio dei
loro tweet invadenti e autocratici, prima di essere disarcionati.
Il M5S, dato per spacciato
come tante altre volte, ha in realtà una robustezza flessibile e si ritrova
nelle stesse posizioni di manovra che c’erano all’inizio di questa legislatura: abbastanza forte da essere
indispensabile per un governo; non abbastanza forte da poterlo fare da solo. E
se si va a elezioni, nulla garantisce che non si ripresenti la stessa
situazione, data la legge elettorale.
L’errore catastrofico
di Matteo Renzi e Matteo Salvini è stato quello di fare i conti senza la forza
politica più importante e innovativa, da loro ritenuta una parentesi storica
pronta a esaurirsi. Loro si apparecchiano
i popcorn pensando di assistere a una tragedia in 2D, mentre in realtà si
tratta di uno spettacolo tridimensionale interattivo in cui la vittima
predestinata ti tira i piedi e ti sloggia dalla poltrona. Nel frattempo la loro
reputazione è ridimensionata, in mezzo alle macerie lasciate in giro, anche
dentro i propri partiti, in parte svuotati dal parassitismo del loro carisma
dopato, tenuto in balia delle manipolazioni comunicative. Anche qui: è un
rischio che corrono tutti, ai tempi dei maledetti hashtag, noi inclusi. Ma
l’invocazione di “pieni poteri” dei politici più narcisisti e più potenti
genera una successiva demolizione del carisma molto più devastante e istantanea.
Il problema, oggi, è
che i due politici spregiudicati che hanno rincorso una parabola simile,
Matteo&Matteo, sono comunque ancora parte molto influente degli equilibri
in divenire. Entrambi sono stati
molto forti nella politica italiana, entrambi hanno incontrato la sconfitta,
entrambi sono stati marchiati dal tradimento e l’inaffidabilità (“Enrico stai
sereno” e “il governo durerà 5 anni”), entrambi tuttavia conservano un’inerzia
della loro forza originaria, tuttora sufficiente a ostacolare molte mosse altrui
nonostante il loro repentino ridimensionamento. Quindi lo scenario si presenta
molto complicato.
ELEZIONI, GOVERNO BREVE O
GOVERNO LUNGO. E CON CHI?
È naturalmente
possibile che si arrivi al voto in autunno. Sarebbe però lo scenario irresponsabile voluto da Salvini
e lascerebbe la Repubblica italiana esposta all’interruzione del cammino
intrapreso, con un bilancio non approvato o raffazzonato. I
contraccolpi economici sarebbero gravissimi, come da più parti si fa notare. Salvini ha usato come argomento in
favore della rottura traumatica il voto europeo del M5S che ha contribuito
all’elezione della “rigorista” Ursula Von Der Leyen alla presidenza della
Commissione. Su questa base ha promesso un governo anti-austerity.
Ma un minuto dopo la rottura, Matteo era da Silvio Berlusconi (che ha votato Ursula assieme a
Orbán) assieme a Giorgetti (la continuità della vecchia Lega Nord liberista, il
relatore della riforma che ha introdotto il pessimo pareggio di bilancio nella
Costituzione), e su quelle basi avrebbe numericamente l’unica speranza di
vincere nell’ipotesi di un voto nel 2019 (da solo o con Fratelli d’Italia oggi
non è affatto sicuro di vincere). Sarebbe un governo che riciclerebbe il peggio
della Seconda Repubblica con la benedizione di un irriconoscibile Alberto
Bagnai con l’elmetto padano. Che ciofeca di scenario, per fortuna è
improbabile!
Dopo che pure Salvini
ha capito che lo scenario è improbabile, si è umiliato al punto da chiedere di
aprire un tavolo con il M5S per vedere se si può rilanciare il governo M5S-Lega. Ora, tutto è possibile, ma la
reputazione e la parola di un leader conta tantissimo e non si ricostruisce
più, una volta perduta. Esiste una Lega che non si faccia prendere dalla foga
di arraffare tutto, imbarcare di tutto, occupare tutto e “capitalizzare”? Una
Lega che non trasformi il ministero dell’interno nel kombinat che
fabbrica continuamente propaganda partitocratica e crea un governo parallelo?
Una Lega che punti davvero e non per posa acchiappavoti a combattere
l’austerity e ci liberi dai Tria e da tutto il “terzo partito” espressione
degli apparati più conservatori e immobilisti dello Stato Profondo? Ecco, se
esiste questa Lega, finché è guidata da Salvini è inservibile. Se se ne libera,
fa un servizio a se stessa e alla Repubblica. Quel 35% dopato non va da nessuna
parte.
A questo punto, con
una delle sue giravolte spettacolari, anche Matteo Renzi ha detto la sua. Avevo già notato che alla riunione
del Club Bilderberg di quest’anno avevano ostentato la sua presenza e mi ero
chiesto: come mai in questo clubbone di superpotenti che raduna quelli che
contano hanno convocato un politico in declino? L’unica spiegazione che son
riuscito a darmi è stata la vera natura del suo potere attuale.
Renzi ha potere di
interdizione: nel 2018 aveva stroncato sul nascere qualsiasi ipotesi di governo
con il M5S, e anche adesso controlla un pacchetto di voti parlamentari decisivi
per fare questo tipo di maggioranza. Che gli altri lo vogliano o no, dentro o fuori il PD, una
maggioranza siffatta nascerebbe solo con il suo placet, che lui farebbe pagare
con i prezzi esosi praticati dai fanatici fedelissimi di cui si è circondato.
Il PD, finché ha l’ipoteca di Renzi (di cui ora non può numericamente
liberarsi), è inservibile a una maggioranza politica.
Aggiungo che anche il
PD “non renziano” non ha fatto una revisione delle politiche “austeritarie” che
lo hanno reso così com’è. Mentre i laburisti
britannici si sono liberati dell’eredità ormai disastrosa del liberismo di Tony
Blair con un doloroso ma enorme processo di revisione politica, culturale,
ideologica e dirigenziale, giocato in mezzo a moltissime energie nuove della
società del Regno Unito, e con Corbyn che ha rinnovato tutto, il PD ha invece
ancora dirigenti organici a un modo di pensare blairiano, con in più una
irrisolta subalternità a tutte le superstizioni economiche dei profeti
dell’austerità.
Un governo con il PD lo farei solo alle seguenti condizioni:
Un 4% di deficit nel contratto di governo, decollo in grande stile di una
grande banca pubblica, lancio dei certificati di compensazione fiscale con cui
aumentare la liquidità del sistema, un piano di investimenti ecologici fuori
dai parametri di Maastricht, abolizione del pareggio di bilancio, l’obbligo per
Andrea Romano di venire alla Camera vestito come Fidel Castro per 6 mesi,
l’impegno di Ivan Scalfarotto a vestirsi nello stesso periodo come Che Guevara,
un ministro dell’economia di provenienza francese, Jean-Paul Fitoussi, che
faccia dimenticare l’austerity e insegni a Marattin che non esiste solo la
favoletta pazza dell’«austerità espansiva».
Ma intanto rimane
Renzi, e sembra improbabile che i dirigenti del PD si liberino dalla sindrome
di Fonzie, quella che impedisce di dire «ho sbagliato». Tanto meno «ho sbagliato per
vent’anni.» Al punto che vedo Prodi vaneggiare di “governo Ursula”. Cioè un
governo che ripeta lo schema e gli errori di questi anni? No grazie. Naturalmente,
se il PD accettasse queste condizioni, sarei disposto a vestirmi come Kim Jong
Un per 9 mesi, purché Renzi faccia altrettanto. Anzi, lui meglio di no.
Cosa rimane? Rimane un governo breve,
trasversale, che cambi la legge elettorale, faccia una legge di bilancio
equilibrata e senza ceppi al deficit, e ci porti alle elezioni nel 2020, senza
ministeri della propaganda a perturbare la vita democratica. Se poi rigettiamo
tutti insieme le ricette “austeritarie”, beh, sarebbe una grande prova per la
nostra Repubblica.
Potrebbe farlo un
monocolore M5S che chiunque potrebbe sfiduciare qualora osasse uscire dal suo
compito a tempo. Un governo così
congegnato potrebbe far decantare la situazione politica senza fughe in avanti
o forzature o rischi economici, da non far correre inutilmente a un paese con
tanti fondamentali sani.
Con Ursula e tutti quanti ci si potrebbe e dovrebbe parlare,
naturalmente. L’Europa è in crisi e molti stati attraversano grandi
fibrillazioni politiche. Dovremo essere di nuovo senza paura quel che siamo
stati per tanti decenni, uno Stato di frontiera capace di rapporti a lungo
raggio nel Mediterraneo e in tutto l’Oriente, e più attivo nell’evoluzione
delle organizzazioni sovranazionali cui appartiene.
Di
Pino Cabras
deputato
per il Movimento 5 Stelle e membro della Commissione Esteri e della Commissione
Finanze dal 2018
Articolo
tratto dal sito: https://www.pinocabras.it
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