lunedì 19 agosto 2019

La crisi di governo in 3D di Matteo&Matteo. Di Pino Cabras



Mancano poche ore alla sessione del Senato scaturita dal voltafaccia di Matteo Salvini, e tanti scenari sono ancora possibili per il futuro del Parlamento e del governo italiano. Ormai abbondano innumerevoli esercizi d’immaginazione che però nella maggior parte dei casi sono solo congetture senza troppe basi reali. I fantagoverni vengono fatti e disfatti da vecchi arnesi della Seconda Repubblica, stanche locomotive che trascinano tutti i vagoni ammaccati del sistema mediatico italiano in coda a nomi consumati, a partire dal prezzemolino più costoso del mondo, Mario Draghi.
Malgrado il caos di queste ore, provo a enunciare alcuni punti fermi, che valutano sia la formula del “governo del cambiamento” oggi in crisi, sia le prossime possibili soluzioni. Se ci riesco non concederò alcunché alla fantapolitica, ma solo all’ottimismo della volontà.

COSA CI UNIVA: IL CENTRO DEL CONTRATTO
Innanzitutto, ricordiamoci come è nata questa legislatura. Una marea di voti riversati nelle urne il 4 marzo 2018 hanno fatto del M5S una forza alquanto grande da essere imprescindibile per un governo (con il 36% dei parlamentari), ma non abbastanza autosufficiente. Gli unici governi possibili richiedevano una contrattazione in cui si trovassero punti comuni tra soggetti molto diversi disposti ad accettare mediazioni distanti dalla loro rispettiva storia. Inevitabile per chi sottoscrivesse un accordo di governo non essere contento di alcuni punti raggiunti nella negoziazione. Anche perché l’unica alternativa a un accordo di questa natura era l’ennesimo governo tecnico, cioè un governo rovinosissimo che avrebbe aggiunto sofferenze enormi alle sofferenze economiche già inflitte al popolo dai precedenti governi tecnici, che avevano peggiorato la qualità della democrazia italiana, condannata a una stagnazione assai comoda per i paesi dominanti dell’Unione europea.

Nello stipulare il “contratto di governo”, il M5S e la Lega condividevano una grande aspirazione posta al centro del programma, ed era in suo nome che le due forze di governo riuscivano a digerire i rispettivi “rospi” che si costringevano a ingoiare.

Qual era questo centro del programma? Lo sintetizzo così: restituire alla Repubblica italiana i mezzi, i metodi, gli istituti occorrenti a fare autonomamente politica economica, ossia tutti gli strumenti per i quali la Repubblica è stata invece da molti anni spodestata dall’attuale compagine istituzionale europea, che ha causato un impoverimento sempre più pesante dei cittadini e della cosa pubblica, con un crescente inaridimento della sovranità popolare. Ci siamo riusciti a realizzare il nucleo della nuova proposta politica?

No, non ancora, ma abbiamo nondimeno fatto tanto, con molti provvedimenti guidati dall’intento di migliorare la vita di milioni di cittadini. Non c’è stata abbastanza forza e coraggio innovativo per spingere al massimo questo “centro del programma”, dunque i risultati sono stati parziali, anche se alcune misure pur modeste hanno cambiato la tendenza degli ultimi anni: penso in particolare al c.d. Decreto Dignità, che ha invertito radicalmente la tendenza a precarizzare il lavoro e ha spinto alla stabilizzazione dei lavoratori ad un ritmo mai visto da decenni. Si è scoperto che con poco si otteneva già molto, purché si agisse in direzione contraria al passato. Figuriamoci cosa si poteva ottenere con il molto.

Come ho avuto già modo di far notare, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dapprima sottovalutato dalla totalità dei media e dalle forze politiche avversarie (oltre che aggredito con indecenti campagne che tentavano di demolire la sua reputazione), si è rivelato un mediatore formidabile, creativo e tenace, che ha mantenuto elevatissimo il consenso di una forte maggioranza dei cittadini intorno alla prospettiva del “governo del cambiamento”.

Conte è stato un elemento di stabilità in grado di offrire un ombrello protettivo alle dinamiche frenetiche della politica italiana. Matteo Salvini ha potuto approfittare di questa salvaguardia sovrastante e ha parassitato la “pace” che solo Conte poteva garantire intorno al governo ai suoi primi passi. Salvini ha scelto sin da subito di strumentalizzare con dismisura il ruolo pubblico del Ministero dell’Interno, piegandolo all’uso di un apparato propagandistico di parte, un martellante sistema di megafoni che urlava un solo tema, l’immigrazione (pur sentito come una minaccia da una maggioranza netta dei cittadini). Il tema veniva da lui esasperato senza preoccupazioni o scrupoli perché sapeva che le patate bollenti passavano in altre mani, che sapevano dare uno sbocco istituzionale a quel problema lasciato incancrenire colpevolmente e gravemente dai precedenti governi e ora innalzato a questione numero uno da Salvini.

Il MoVimento 5 Stelle era impegnato nel mentre a far approvare la stragrande maggioranza dei provvedimenti di legge innovativi, che davano all’Italia per la prima volta dopo tanti anni un vero governo politico, un’autorità che non proteggeva più il vecchio ceto di politicanti che avevano ceduto i gioielli di famiglia perché “ce lo chiedeva l’Europa” e combatteva la corruzione di certi corpi dello Stato. Avendo ora in campo un vero governo – che incontrava sì difficoltà e aveva sì dei limiti, ma era pienamente politico e a suo modo efficace – il M5S vi investiva tutte le sue energie e trascurava le difese rispetto alla strumentalizzazione partitica della Lega salviniana, che intanto occupava ogni spazio, spesso fingendo di cercare soluzioni ai problemi.

IL TITANISMO COMIZIO-CENTRICO E LA DEMOLIZIONE DEL CARISMA
Riassumendo: la rana salviniana si gonfiava costantemente perché sui suoi polmoni confluiva una vera tempesta perfetta, alimentata da vari fattori concomitanti:

1) la totale strumentalizzazione della funzione ministeriale in un kombinat di agitazione e propaganda elettorale permanente, incentrata sul titanismo comizio-centrico di Salvini, basata sull’opinione sondata istantanea, affidata a una memoria ridotta alle 48 ore, dove anche la stessa Lega risultava cannibalizzata dal culto della personalità bulimica del suo leader;

2) l’egoismo irremovibile dell’Europa in merito al problema della gestione dei suoi confini meridionali, al quale hanno accondisceso i governi italiani precedenti, a loro volta complici delle recenti guerre che hanno aggravato le cause delle migrazioni;

3) un sistema dei media che gareggiava faccia a faccia con il kombinat salviniano, gli opponeva un gonfiatissimo allarme antifascista, ma in realtà lo magnificava per sgonfiare l’anomalia del M5S e rafforzare intorno a un nemico temibile il ceto politico malconcio che aveva ereditato il residuo elettorato della sinistra;

4) un M5S che mancava totalmente il suo appuntamento con la questione audiovisiva italiana (cioè una questione politica di primordine) lasciando fare tutto agli altri e sguarnendo un’area vasta del popolo italiano da una sua degna presenza nei media.

In questo quadro Salvini ha gestito malissimo le relazioni internazionali. La politica internazionale è un sistema complesso di scacchiere, ma Salvini gioca sempre a dama, purtroppo come giocherebbe un piccione. E in più si circonda di magliari alla Savoini. Ma questo ci porterebbe lontano.

Come accadde già all’altro Matteo, quel Renzi che nel 2014 conquistò un formidabile 40% di voti espressi, anche Salvini ha ottenuto uno strabiliante risultato alle elezioni europee, che si rivelano una volta di più come uno specchio deformato dell’elettorato nazionale. Questo tipo di elezioni è oramai un evento di fatto destabilizzante, perché il leader che in quel momento è sulla cresta dell’onda viene tentato dal cementare intorno alla sua persona l’eterna palude conservatrice italiana, nell’illusione di avere in pugno una maggioranza disposta a dargli qualche forma di “pieni poteri”.

L’abbaglio renziano si spinse e si spense in una revisione costituzionale rifiutata via referendum dalla maggioranza vera dei cittadini. L’abbaglio salviniano si spegne molto prima, già adesso, perché la ruota gira ormai più in fretta, dietro alla supposta capitalizzazione di un consenso che in realtà è sempre più volatile e disaffezionato.

Questi accentratori impazienti dimenticano che le istituzioni sono durevoli e possiedono tanti meccanismi di arresto nei confronti di chi voglia forzarle per calcoli di breve respiro. E dimenticano anche che i loro fan tifano sì per loro, ma la maggioranza di chi vota non è fan di nessuno e cambia facilmente suffragio. Questo vale per tutti, nessuno escluso, noi compresi, ma vale tanto di più a danno di questi autocrati da “vorrei ma non posso”, poverissimi di vere qualità strategiche e incapaci di cogliere la complessità della società, che si illudono di sedurre oltre il breve raggio dei loro tweet invadenti e autocratici, prima di essere disarcionati.

Il M5S, dato per spacciato come tante altre volte, ha in realtà una robustezza flessibile e si ritrova nelle stesse posizioni di manovra che c’erano all’inizio di questa legislatura: abbastanza forte da essere indispensabile per un governo; non abbastanza forte da poterlo fare da solo. E se si va a elezioni, nulla garantisce che non si ripresenti la stessa situazione, data la legge elettorale.

L’errore catastrofico di Matteo Renzi e Matteo Salvini è stato quello di fare i conti senza la forza politica più importante e innovativa, da loro ritenuta una parentesi storica pronta a esaurirsi. Loro si apparecchiano i popcorn pensando di assistere a una tragedia in 2D, mentre in realtà si tratta di uno spettacolo tridimensionale interattivo in cui la vittima predestinata ti tira i piedi e ti sloggia dalla poltrona. Nel frattempo la loro reputazione è ridimensionata, in mezzo alle macerie lasciate in giro, anche dentro i propri partiti, in parte svuotati dal parassitismo del loro carisma dopato, tenuto in balia delle manipolazioni comunicative. Anche qui: è un rischio che corrono tutti, ai tempi dei maledetti hashtag, noi inclusi. Ma l’invocazione di “pieni poteri” dei politici più narcisisti e più potenti genera una successiva demolizione del carisma molto più devastante e istantanea.

Il problema, oggi, è che i due politici spregiudicati che hanno rincorso una parabola simile, Matteo&Matteo, sono comunque ancora parte molto influente degli equilibri in divenire. Entrambi sono stati molto forti nella politica italiana, entrambi hanno incontrato la sconfitta, entrambi sono stati marchiati dal tradimento e l’inaffidabilità (“Enrico stai sereno” e “il governo durerà 5 anni”), entrambi tuttavia conservano un’inerzia della loro forza originaria, tuttora sufficiente a ostacolare molte mosse altrui nonostante il loro repentino ridimensionamento. Quindi lo scenario si presenta molto complicato.

ELEZIONI, GOVERNO BREVE O GOVERNO LUNGO. E CON CHI?
È naturalmente possibile che si arrivi al voto in autunno. Sarebbe però lo scenario irresponsabile voluto da Salvini e lascerebbe la Repubblica italiana esposta all’interruzione del cammino intrapreso, con un bilancio non approvato o raffazzonato. I contraccolpi economici sarebbero gravissimi, come da più parti si fa notare. Salvini ha usato come argomento in favore della rottura traumatica il voto europeo del M5S che ha contribuito all’elezione della “rigorista” Ursula Von Der Leyen alla presidenza della Commissione. Su questa base ha promesso un governo anti-austerity.

Ma un minuto dopo la rottura, Matteo era da Silvio Berlusconi (che ha votato Ursula assieme a Orbán) assieme a Giorgetti (la continuità della vecchia Lega Nord liberista, il relatore della riforma che ha introdotto il pessimo pareggio di bilancio nella Costituzione), e su quelle basi avrebbe numericamente l’unica speranza di vincere nell’ipotesi di un voto nel 2019 (da solo o con Fratelli d’Italia oggi non è affatto sicuro di vincere). Sarebbe un governo che riciclerebbe il peggio della Seconda Repubblica con la benedizione di un irriconoscibile Alberto Bagnai con l’elmetto padano. Che ciofeca di scenario, per fortuna è improbabile!

Dopo che pure Salvini ha capito che lo scenario è improbabile, si è umiliato al punto da chiedere di aprire un tavolo con il M5S per vedere se si può rilanciare il governo M5S-Lega. Ora, tutto è possibile, ma la reputazione e la parola di un leader conta tantissimo e non si ricostruisce più, una volta perduta. Esiste una Lega che non si faccia prendere dalla foga di arraffare tutto, imbarcare di tutto, occupare tutto e “capitalizzare”? Una Lega che non trasformi il ministero dell’interno nel kombinat che fabbrica continuamente propaganda partitocratica e crea un governo parallelo? Una Lega che punti davvero e non per posa acchiappavoti a combattere l’austerity e ci liberi dai Tria e da tutto il “terzo partito” espressione degli apparati più conservatori e immobilisti dello Stato Profondo? Ecco, se esiste questa Lega, finché è guidata da Salvini è inservibile. Se se ne libera, fa un servizio a se stessa e alla Repubblica. Quel 35% dopato non va da nessuna parte.

A questo punto, con una delle sue giravolte spettacolari, anche Matteo Renzi ha detto la sua. Avevo già notato che alla riunione del Club Bilderberg di quest’anno avevano ostentato la sua presenza e mi ero chiesto: come mai in questo clubbone di superpotenti che raduna quelli che contano hanno convocato un politico in declino? L’unica spiegazione che son riuscito a darmi è stata la vera natura del suo potere attuale.

Renzi ha potere di interdizione: nel 2018 aveva stroncato sul nascere qualsiasi ipotesi di governo con il M5S, e anche adesso controlla un pacchetto di voti parlamentari decisivi per fare questo tipo di maggioranza. Che gli altri lo vogliano o no, dentro o fuori il PD, una maggioranza siffatta nascerebbe solo con il suo placet, che lui farebbe pagare con i prezzi esosi praticati dai fanatici fedelissimi di cui si è circondato. Il PD, finché ha l’ipoteca di Renzi (di cui ora non può numericamente liberarsi), è inservibile a una maggioranza politica.

Aggiungo che anche il PD “non renziano” non ha fatto una revisione delle politiche “austeritarie” che lo hanno reso così com’è. Mentre i laburisti britannici si sono liberati dell’eredità ormai disastrosa del liberismo di Tony Blair con un doloroso ma enorme processo di revisione politica, culturale, ideologica e dirigenziale, giocato in mezzo a moltissime energie nuove della società del Regno Unito, e con Corbyn che ha rinnovato tutto, il PD ha invece ancora dirigenti organici a un modo di pensare blairiano, con in più una irrisolta subalternità a tutte le superstizioni economiche dei profeti dell’austerità.

Un governo con il PD lo farei solo alle seguenti condizioni: Un 4% di deficit nel contratto di governo, decollo in grande stile di una grande banca pubblica, lancio dei certificati di compensazione fiscale con cui aumentare la liquidità del sistema, un piano di investimenti ecologici fuori dai parametri di Maastricht, abolizione del pareggio di bilancio, l’obbligo per Andrea Romano di venire alla Camera vestito come Fidel Castro per 6 mesi, l’impegno di Ivan Scalfarotto a vestirsi nello stesso periodo come Che Guevara, un ministro dell’economia di provenienza francese, Jean-Paul Fitoussi, che faccia dimenticare l’austerity e insegni a Marattin che non esiste solo la favoletta pazza dell’«austerità espansiva».

Ma intanto rimane Renzi, e sembra improbabile che i dirigenti del PD si liberino dalla sindrome di Fonzie, quella che impedisce di dire «ho sbagliato». Tanto meno «ho sbagliato per vent’anni.» Al punto che vedo Prodi vaneggiare di “governo Ursula”. Cioè un governo che ripeta lo schema e gli errori di questi anni? No grazie. Naturalmente, se il PD accettasse queste condizioni, sarei disposto a vestirmi come Kim Jong Un per 9 mesi, purché Renzi faccia altrettanto. Anzi, lui meglio di no.

Cosa rimane? Rimane un governo breve, trasversale, che cambi la legge elettorale, faccia una legge di bilancio equilibrata e senza ceppi al deficit, e ci porti alle elezioni nel 2020, senza ministeri della propaganda a perturbare la vita democratica. Se poi rigettiamo tutti insieme le ricette “austeritarie”, beh, sarebbe una grande prova per la nostra Repubblica.
Potrebbe farlo un monocolore M5S che chiunque potrebbe sfiduciare qualora osasse uscire dal suo compito a tempo. Un governo così congegnato potrebbe far decantare la situazione politica senza fughe in avanti o forzature o rischi economici, da non far correre inutilmente a un paese con tanti fondamentali sani.

Con Ursula e tutti quanti ci si potrebbe e dovrebbe parlare, naturalmente. L’Europa è in crisi e molti stati attraversano grandi fibrillazioni politiche. Dovremo essere di nuovo senza paura quel che siamo stati per tanti decenni, uno Stato di frontiera capace di rapporti a lungo raggio nel Mediterraneo e in tutto l’Oriente, e più attivo nell’evoluzione delle organizzazioni sovranazionali cui appartiene.

Di Pino Cabras
deputato per il Movimento 5 Stelle e membro della Commissione Esteri e della Commissione Finanze dal 2018

Articolo tratto dal sito: https://www.pinocabras.it


Nessun commento:

Posta un commento