(20 Agosto 1968) I carri armati sovietici invadono Praga. Durante la notte le truppe dell'Armata Rossa entrano nella capitale della Cecoslovacchia con l’obiettivo di bloccare sul nascere il nuovo corso politico avviato da Alexander Dubček, deciso ad inaugurare una via più democratica al sistema comunista. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe di cinque Paesi del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia tra l'incredulità dei cittadini cecoslovacchi, che non riescono a considerare come nemici i soldati e circonda i carri armati cercando di dialogare in russo con gli occupanti. Anche Umberto Eco, testimone oculare, lo scrive sulle pagine dell'Espresso nel settembre dello stesso anno. Dubček chiede di non opporre resistenza, ma alla fine: 200 persone moriranno comunque negli scontri.
É la fine della "primavera di Praga": i carri armati sovietici distruggono la speranza dell’avvento di un “socialismo dal volto umano”. La dirigenza cecoslovacca denuncia al mondo intero l’invasione e il 21 agosto il Parlamento lancia un appello in cui si denuncia: "l'atto di violenza internazionale in contrasto con i principi degli accordi di alleanza." Tuttavia il 3 agosto a Bratislava Dubček incontra Breznev (segretario del PCUS) per cercare uno sbocco alla crisi, e soprattutto per prendere le distanze da quei gruppi d’intellettuali che avevano fortemente criticato l’Unione Sovietica. Dubček cerca di ritrovare la fiducia di Breznev, assicurando la fedeltà del Paese ai patti di Varsavia. Tuttavia, questo non bastò.
Il processo di destalinizzazione sviluppatosi in Cecoslovacchia dall’inizio degli anni Sessanta fu accompagnato da crescenti pressioni in senso riformista e da una forte risveglio dell’autonomismo slovacco. Il rinnovamento di gran parte del gruppo dirigente aprì la strada ad un processo di riforme democratiche che ottenne presto un largo sostegno popolare, investendo importanti aspetti della vita politica, sociale ed economica del Paese (libertà di stampa, riapertura ai partiti non comunisti, rinascita delle altre organizzazioni di massa, riorganizzazione del sistema produttivo, maggiore autonomia dall’URSS ecc.).
Il timore, da parte sovietica, che questi sviluppi potessero pregiudicare la collocazione internazionale della Cecoslovacchia e rappresentare una minaccia per la stabilità del patto di Varsavia determinò, dopo una serie di avvertimenti, all’invasione del Paese da parte delle truppe sovietiche. Non vi furono opposizioni di sorta perché l’esercito cecoslovacco era schierato a occidente, secondo gli ordini del Patto di Varsavia, per presidiare le frontiere con la Germania dell’Ovest.
Inoltre. il Partito comunista cecoslovacco non aveva alcuna forma di organizzazione militare, contando sulla protezione del patto di Varsavia. L’intervento armato avvenne mentre si teneva una riunione celebrativa del Partito comunista cecoslovacco il quale, per evitare lo scioglimento immediato, si riunì in un luogo segreto allo scopo di ufficializzare il programma riformatore. Tuttavia la presenza militare sovietica non aveva solo lo scopo di bloccare le riforme democratiche, ma anche quella di costringerlo a subire l’umiliazione di una sua presenza costante e minacciosa a monito per gli altri Stati satelliti.
Una volta controllato lo Stato cecoslovacco Mosca impose un proprio governo rappresentato da Gustav Husak che abolì tutte le riforme del suo predecessore. Le conseguenza dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia ebbero un impatto emotivo molto forte in seno ai Partiti comunisti occidentali, i quali videro alcune personalità rinunciare alla tessera e disconoscere l’operato di Mosca. Le ambasciate e i governi occidentali protestarono in modo diverso gli uni dagli altri ma senza troppo vigore per non spaccare l’equilibrio della Guerra Fredda, basato sulla mancanza di reciproci palesi interventi sulle politiche dei due schieramenti.
Il segretario del Partito Comunista Italiano, Luigi Longo, condannò l'invasione ma alcuni dirigenti del partito decisero che quella presa di posizione non era sufficiente. Occorreva essere più chiari e decisi nella condanna dei fatti che si sarebbero definitivamente chiusi con la fine della Primavera di Praga. Quei militanti, che diedero poi vita al gruppo de “Il Manifesto,” furono radiati dal partito con l'accusa di frazionismo dopo la pubblicazione, nel secondo numero della rivista omonima, dell'editoriale dal titolo "Praga è sola"
In particolare, un fatto colpì l’opinione pubblica internazionale. Nel pomeriggio del 16 gennaio 1969, lo studente Jan Palach si recò nella piazza San Venceslao di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Rimase lucido durante i tre giorni di agonia. Ai medici disse d'aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono 600 000 persone, provenienti da tutto il Paese. Jan Palach decise di non bruciare i suoi appunti ed i suoi articoli (che rappresentavano i suoi pensieri e i suoi ideali), che tenne in un sacco a tracolla distante dalle fiamme. Almeno altri sette studenti, tra cui l'amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio e si tolsero la vita, nel silenzio degli organi d'informazione, ormai controllati dalle forze d'invasione.
Vincenzo Maria D’Ascanio
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