lunedì 16 dicembre 2019

Il maxiprocesso di Palermo


Il maxiprocesso di Palermo istruito contro Cosa nostra dal pool antimafia, di cui principali protagonisti furono i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, si aprì 33 anni fa, il 10 febbraio 1986. Al banco degli imputati furono chiamati 475 soggetti, per reati legati alla criminalità organizzata, tra cui associazione a delinquere di stampo mafioso, omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione e una serie di reati minori.

Il verdetto complessivo fu pronunciato il 16 dicembre 1987 dalla Corte d’Assise presieduta da Alfonso Giordano con giudice a latere Pietro Grasso, ammontò a 19 ergastoli, tra cui quelli di Totò Riina e Bernardo Provenzano, 2665 anni di carcere, 11 miliardi e mezzo di lire di multe e 114 assoluzioni.

Per lo svolgimento del processo fu costruita una grande aula subito soprannominata aula bunker, di forma ottagonale e dimensioni adatte a contenere svariate centinaia di persone. L'aula aveva sistemi di protezione tali da poter resistere anche ad attacchi di tipo missilistico, inoltre, fu dotata di un sistema computerizzato di archiviazione degli atti, senza il quale un processo di tali proporzioni non sarebbe stato possibile

Furono fondamentali le rivelazioni di Tommaso Buscetta, detto il boss dei due mondi, che nel 1984, dopo l’estradizione dagli Stati Uniti, fu il primo e più importante degli ex mafiosi che vengono chiamati poi “collaboratori di giustizia” o più comunemente “pentiti”. Quella stagione e in particolare il processo sono considerati come la prima reazione importate dello Stato, ed è in questa occasione che si afferma finalmente il reato di mafia.

Com’era normale attendersi, non mancarono nemmeno ripetuti tentativi di avvocati ed imputati di ritardare lo svolgimento del processo. Più volte gli imputati diedero in escandescenze, finsero attacchi epilettici o compirono azioni autolesioniste, ma gli atti più pericolosi per il processo vennero dagli avvocati, e furono due: una richiesta di ricusazione del presidente della Corte (però in seguito rigettata dalla Corte d'appello) e soprattutto, verso la fine del 1986, la richiesta di lettura integrale di tutti gli atti processuali. Nel caso del maxiprocesso, tale lettura avrebbe richiesto circa due anni di tempo, col rischio di incanalare l’intero processo in un binario morto da cui non sarebbe, forse, più uscito. Fu necessaria una nuova legge emanata dal Parlamento

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