«Sassari
è un caso nazionale, una cosa fuori dal mondo. In nessuna parte d'Italia si è
verificato un così clamoroso fallimento delle procedure di sicurezza in un
ospedale. A Sassari il 60 per cento dei contagi
riguarda personale ospedaliero. Nel resto d'Italia la media è dell'8 per cento.
C'è altro da aggiungere»?
È un atto d'accusa, anonimo, «per
evitare ritorsioni», sia da parte di colleghi suscettibili e influenti che
delle autorità politiche, pronte a mettere la mordacchia a chi in prima linea
sta combattendo contro il coronavirus.
A parlare
è un dirigente medico di alto livello dell'Azienda sanitaria di Sassari. Cinquantotto anni, ottimi
studi superiori prima della laurea in
medicina, incarichi di grande importanza in diverse
strutture del nord Sardegna. E pone alcune domande: «C'era un piano per
affrontare l'emergenza? E ancora: le decisioni sono state prese
in tempo? Sono gli stessi interrogativi che, credo, si sta ponendo
la Procura della Repubblica dopo l'apertura dell'inchiesta».
Che idea
si è fatto a tale proposito?
«Non ho certezze. So solo che è un
disastro. Quando tutto sarà finito, devono cadere alcune teste».
Impreparati?
«Come minimo. Il virus si è diffuso
in Cina a gennaio. A febbraio è comparso in Lombardia. A marzo la sanità
sassarese doveva essere attrezzata per l'emergenza. Il risultato, invece, è
quello che abbiamo sotto gli occhi».
Ci sono
stati casi anche negli ospedali a Nuoro e Cagliari.
«Vero, ma l'infezione poi non è
dilagata nei reparti come a Sassari. Che pure era uno dei due hub regionali per
il contrasto al Covid-19. Un bell'esempio di hub».
Cosa
avrebbero dovuto fare i dirigenti?
«Elaborare un piano di emergenza,
studiare percorsi dedicati, attrezzarsi di mascherine.
Ben prima che il virus facesse la sua comparsa in città.
Invece...»
Che clima
si respira in ospedale?
«Pessimo, c'è nervosismo e non possiamo
permettercelo. Ora serve sangue freddo».
Il
direttore del Pronto Soccorso del Santissima Annunziata, Mario Oppes, è in
malattia a casa.
Ho solo sentito voci di corridoio:
forse ha subito uno stress insopportabile».
Uno dei
decessi è avvenuto a Casa Serena. Cosa ne pensa?
«Un fatto preoccupante, al di là del
dolore per la morte di una persona. In quella casa di
riposo c'erano 150 anziani ad altissimo rischio. Sono i più
vulnerabili. Il virus non sarebbe mai dovuto entrare lì dentro».
Il picco
in Sardegna è ancora di là da venire?
«Ho paura di sì. E noi non abbiamo
né le teste né le risorse della Lombardia. Le carenze di personale che sono
state denunciate negli anni scorsi ci sono ancora».
Si
possono creare più posti letto.
«Certo. E poi chi li gestisce? Un
passante, un impiegato o chi altri?»
È di
questi giorni la polemica sulle mascherine.
«Mandare allo sbaraglio gli operatori
non protetti è stato un disastro».
Ma queste
mascherine ci sono o no?
«Le forniture dovrebbero arrivare.
Tra l'altro, un'azienda di Bonorva ha riconvertito la sua produzione da
materassi a mascherine. Questo ci darà un po' di respiro. Ma c'è chi ne sta
approfittando».
Cioè?
«Il costo di una mascherina in tempi
normali era di 20 centesimi. Alcuni fornitori ora, in tempo di guerra, le
vendono a 5 euro l'una».
E i
respiratori?
«In Italia li fabbrica una sola
azienda. E serve tempo, mica si allestisce un respiratore in un giorno. La
Germania produce qualcosa, il grosso lo fanno in Cina».
Come
possiamo difenderci da questa epidemia?
«Igiene personale e distanza sociale.
Per il vaccino serve tempo. Molto tempo».
Ivan Paone
Articolo
tratto da L’Unione Sarda delk 23.03.2020
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Federico
Marini
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