Mentre cominciavamo a discutere d’impossibili argomenti, ci trovammo
dinanzi al carcere di Buoncammino, il luogo tramutatosi da alcuni mesi nella
mia dolcissima casa. Il penitenziario sorge su uno dei colli che dominano la
città, da cui si può usufruire di un panorama eccellente, che col tempo avrei imparato
a conoscere alla perfezione. Sulla sinistra c’è l’antico anfiteatro romano,
nella cui pietra grigia crescono erba, fiori e siringhe. Dinanzi s’estende gran
parte della mia bella città, dal porto per arrivare sino alla Laguna di Santa
Gilla, in cui di tanto in tanto è riportato agli onori della cronaca il corpo
di qualche “ultimo” caduto definitivamente in disgrazia.
In lontananza si può
scrutare la poderosa catena montuosa dei Sette Fratelli i cui contorni, nelle
mattinate particolarmente limpide, assumono un’apparenza spettrale, a tinte
sbiadite, da quadro di Monet. Alla loro base sorgono le prepotenti raffinerie
della Saras, le cui ciminiere sputano fuoco senza soluzione di continuità. Su
in cima, nel colle assediato da alberi ed edifici storici, s’erge allora
l’emblematica “galera”, che mostra le sembianze d’un grazioso palazzotto
ottocentesco, con le sue forme tonde ed affinate. Pochi elementi provocano il
dispiacere dei suoi “ospiti”: le celle sono di ridottissime dimensioni, manca
l’aria per respirare, la promiscuità provoca dei curiosi fenomeni d’erotismo
androgino. In questo carcere sopravvive irriducibile un elevato tasso di
suicidi, traboccano i ladruncoli di quartiere, i malati di AIDS, i
sieropositivi, i tossicodipendenti, gli immigrati d’ogni nazione e colore, malati
psichici, virali, cutanei, esorbitanti fenomeni di devianza sociale. Insomma,
in questo bel posticino noi ultimi della terra abbiamo scelto un ideale luogo
di villeggiatura coatta! Al culmine
della sfortuna, in ragione di volontari errori giudiziari e di maledizioni
anonime, potrebbe capitarti che il tuo compagno di cella sia addirittura un
politico caduto in disgrazia, e la tua pena allora è raddoppiata, triplicata,
quadruplicata… Potenziata all’infinito!
Quando studiavo non potevo conoscere queste situazioni, ma durante
una limpida mattina di Novembre ebbi l’occasione d’ascoltare un dialogo
speciale, che accese una lampadina nell’intimo buio della mia mente
ottenebrata. Sentii una voce che giungeva dalla grande roccia sulla destra del
penitenziario. Dunque una donna, che teneva a fatica le stragonfie buste della
spesa Conad, con una gonna spessa e nera, un fazzoletto annodato intorno alla
testa, di color viola, del quasi lutto, o forse della disgrazia annunciata.
“Antò, Antò!”
Nessuno rispondeva al richiamo…
“Antò, Antoniccu, soi mamma, faidì biri fillu miu….” (Trad. Antonio,
sono mamma, fatti vedere figlio mio…)
Il silenzio dominava. Poi una risposta dal nulla.
“Signora, e che cos’è, sa mamma de’ Tony Cappai?” La voce rauca giunse
da una delle molteplici grate del braccio ovest. Pareva un suono proveniente da
una voragine immensa, o direttamente dalla tazza del cesso.
“Eia, soi deu, mi du lammasa Antoni, po’ favori” (Trad. Si, sono io, me lo chiami Antonio per
favore?)
“Unu pagu de
pazienzia. Moi si du lamu…” (Trad. Un po’ di pazienza. Si,
adesso lo chiamo.)
Per qualche minuto resse il silenzio, mentre io, Maria e Oreste
attendevamo che il ragazzo decidesse di farsi vivo. Restammo immobili su quel
cornicione per qualche minuto, eravamo come in bilico su un invisibile filo di
nailon, attendendo spasmodicamente, ed irrazionalmente, il proseguimento della
conversazione. Tante volte ero transitato accanto a quelle mura ma, come spesso
accade, raramente avevo ragionato sul fatto che quella pazzesca scatola di
cemento fosse un contenitore di storie, vicissitudini, rapporti. Pensare che
una madre possa avere un figlio rinchiuso in un penitenziario può dare alla
testa. Si, tutti siamo stati bambini, comprese le persone lese, ma ciò non impedisce
ad un uomo d’immedesimarsi nel dolore di un altro uomo, o, almeno, così si dice
in alcuni ambienti, poi fate voi!
“Oh mà, soi
deu…”
“Fillu miu
bellu, comment’istasa?” (Trad: Figlio mio bello, come stai?)
“Eh, o mamma, tutto bene, tutto bene… Portami un po’ di maglioni che
di sera si sta “mettendo” freddo. E babbu, d’ esti passau su dolu e sckina? (Trad:
Babbo come sta? Gli è passato il mal di schiena?)
“Si, già gli è passato s’iscuru, ti salutano tanto lui, Rosa e Zia
Assunta. Ascurta pagu pagu, bellu de mamma…”
“E t’esti succediu?” Rispose il fantomatico “Tony”, forse ponendo
entrambe le mani a mo’ d’imbuto dinanzi alla bocca sfregiata.
“No, o Antò, che già non è successo niente. Però ti devo dire che
babbo deve vendere il terreno di Zio Amerigo, e ti voleva chiedere s’eri sempre
dello stesso parere…”
“Certo che lo sono, già lo sapete che non cambio mai idea, io. Digli
a babbo di venderlo, e di non pensarci più, e a Zio Amerigo comprategli una bella
lapide, con una foto poco poco più bella, che quella che ha fa schifo…”
“Va bene o Antò, stammi bene, guarda che ripasso domani, ciao bello
di mamma.”
“Ciao o mà, e saludamì a tottusu…”
Noi non perdemmo una sola frase del dialogo familiare. Forse fu
soltanto una mia impressione, ma mi parve di notare gli occhi di Maria brillare
un poco. Allora non potevo immaginare che, un giorno non molto lontano, avrei
conosciuto personalmente il fantomatico Tony. In carcere s’incontrano dei
grandiosi farabutti sconvolti da ogni sorta di devianza, talvolta senza moralità,
persa nelle mille vicissitudini quotidiane, oppure apertamente nello stesso
carcere. Tony, invece, non era affatto un mascalzone, ed era riuscito a
conservare un certo grado di decoro personale, attività complessa in luoghi
come questo, in cui vergogne e bestialità s’accavallano a ritmi costanti e
frenetici…
Ricordo come se fosse ieri (era ieri?) il giorno in cui lo conobbi.
Durante un tranquillo pomeriggio primaverile, in cui il vento portava con sé
gradevoli fragranze figlie del mare, un turco assetato di vendetta aveva
tentato d’accoltellarmi durante una partita di “luna monta”. Tony l’aveva
immediatamente immobilizzato, e gli aveva assestato un calcione talmente
energico che lo scaraventò a qualche metro di distanza.
“Vinto io, vinto io, ti faccio buco di culo!” Urlava il baffuto
aprendo le braccia per simulare un enorme cerchio.
“Tornatene sul Bosforo, turco della malora!” Gli rispondevo mentre
lo portavano via, ben protetto dalle ampie spalle del mio salvatore.
“Eh, calmo ragazzino, altrimenti t’accoltello io questa volta…”
Detto questa breve ma essenziale frase, Tony mi mostrò il suo
sorriso sdentato da killer venezuelano, tendendomi nel frattempo la sua mano
grandiosa. Si trattava di un “maurro” alto un metro e novanta, per cento chili
di muscoli sapientemente distribuiti su un fisico eccezionale. Prima d’essere
catturato dalla volontà punitiva dello Stato faceva il meccanico, una leggenda
nel suo settore, poiché sapeva procurare qualsiasi pezzo d’ogni sacrosanta
vettura. Era come i meccanici cubani, che riescono a riparare quelle assurde
auto americane che puoi vedere soltanto su Happy Days, guidate da Fonzie, da
Pozzi, o magari dalla maledetta sottiletta Jhonny. Comunque… Sulla sua
reclusione circolavano versioni fantastiche, ma un giorno scoprì che era stato
arrestato per una banale “aggressione a pubblico ufficiale”.
“Mi voleva sequestrare la macchina quel bastardo, ma gli è passata,
eeeh! Se gli è passata…” Mi disse una volta.
“Mamma mia”, gli risposi, “a volte esagerano proprio. Una volta m’hanno
sequestrato la Marbella perché non aveva la revisione. Accidenti, per poco mio
padre non m’ammazzava… Tu che macchina avevi?”
“Una Porche”
“Come mai la volevano sequestrare?”
“L’avevo appena rubata… Mi servivano dei pezzi!”
“Azz…” Simulai, cercando di non mostrare il mio sconcerto.
Tony era un eroinomane dell’ultima generazione, nelle sue vene
scorrevano fluidi ignoti e pericolosissimi, miscele assolute, droghe che
soltanto selezionati professionisti erano capaci di preparare. La fedina penale
era lunga come un rotolo di carta igienica, ma nonostante ciò si comportava
come un autentico baronetto, diceva “grazie”, “prego”, difendeva sempre i più
deboli non solo dalle ordinarie angherie degli altri carcerati, ma addirittura
dalle brutalità dei secondini più perfidi. Insomma, era un Fidel del carcere ma
non faceva distinzioni di classe e ripudiava ogni sorta di marxismo: pestava
selvaggiamente tanto i poveri quanto i ricchi, i potenti come gli ultimi della
terra. Tuttavia picchiava i potenti con un sorriso, e questo elemento era
sufficiente per renderlo simpatico ai più. Tutti avrebbero confidato nel suo
dominio incontrastato ma Tony, pur essendo un grande uomo nel senso primario
del termine, era pur sempre un uomo…
Una mattina m’apprestavo a pulire il pavimento della nostra cella.
La notte precedente Davide s’era dato da fare, aveva mangiato come un ossesso e
vomitando tutto con rabbia, alzando le braccia verso la luna piena che
s’intravedeva dalle grate della cella. Saranno state le tre del mattino, al
massimo le quattro. Alcuni viscidi inservienti lo trascinarono in infermeria,
se così la si può chiamare, poiché tra l’altro aveva vomitato anche sangue.
Alcuni schizzi m’erano piombati sul viso, e mentre raschiavo la tazza del cesso,
mi domandavo se il caro compagno di cella fosse o meno sieropositivo. M’aveva
raccontato diversi episodi con le nigeriane di Viale Monastir, e per giunta era
in perfetta sintonia con Ratzinger sulla questione del preservativo. D’accordo,
gli indizi non erano rassicuranti, ma decisi di non pensarci. I problemi d’ogni
giorno erano sufficienti, non potevo dare retta all’ipocondria… Nel frattempo
alcune incrostazioni resistevano ostinate ma, inopportuno come Sandro Bondi, il
secondino di turno cominciò a sbattere il manganello sulle inferriate della cella.
SDENG! SDENG! SDENG!
“Cazzone, Tony Cappai era tuo amico, non è vero?” Domandò col suo
accento siciliano.
“Si, certo, cosa vuoi Conca di cazzo?”
“Cosa voglio io? Il tuo caro amico sta regolando il conto col Grande
Capo, eh eh. All’Inferno non gli daranno la riduzione di pena, lì gli avvocati
non arrivano, bastardo!”
Lo guardai incredulo.
“Com’è successo… Quando?”
“Stanotte, una bella overdose… Minchia… Avrebbe steso un cavallo,
ben gli sta! M’ha fatto sempre schifo quel Cappai!”.
“Maledetto”, gli dissi, “vai a farti un clistere, che ne hai
bisogno…”
“Wè, wè, stai attendo a come parli… Non c’è più il tuo amico a
difenderti, ricordatelo per tutto il tempo che starai qua dentro…” Detto questo
il subdolo se ne andò a sbrigare qualche altro truculento affare.
Gettai lo spazzolone nel cesso, mi sedetti sul letto sprizzato di
sangue e mi passai la mano sul viso. La mia mente schizzò a quel ricordo
lontano, quando la madre lo chiamava e lui rispondeva dalle grate, occultato
dalle mura. Tony, accidenti a te! Eppure era un esperto d’eroina, com’era
potuto accadere… Una serie d’immagini inquietanti transitò nell’anfiteatro
della mia coscienza. Pensai ai secondini, ai turchi, a quel dannato panettiere
di Bonorva che voleva farlo a pezzi, a quel sunnita che aveva giurato, in nome
dello stesso Maometto, d’ammazzarlo. No, non potevo saperlo, soltanto lui
possedeva la chiave di volta, e l’aveva portata con lui nel Paradiso dei pazzi.
Pensai così al carcere, alle lezioni di diritto penale, all’istituto della pena,
al principio di rieducazione, alle teorie retribuzioniste, utilitaristiche,
alla Costituzione… Poi pensai agli ultimi della terra rinchiusi nelle carceri,
agli immigrati umiliati, ai transessuali, alle prostitute, ai ladruncoli di
quartiere, e poi a tutti coloro che decidono di suicidarsi, a quelli che
muoiono di AIDS o altre malattie virali, a quelli che vengono accoltellati,
strozzati, violentati, quelli che nessuno va mai a trovare, quelli che
attendono il giorno dopo con placida e stanca rassegnazione… Rinchiusi, segregati
nel centro di Cagliari, nelle gattabuie, nascosti alla gente, alla morale che
se ne frega delle anomalie che contano davvero… Poi pensai, e ripensai, e
ripensai ancora, e poi, e poi… E poi giunse Davide.
“Cosa ci fai in mezzo a questo casino?” Mi chiese col viso di un
biancore candido.
“Tony Cappai è morto di overdose, stanotte.”
“Ah, poveraccio! Era una brava persona… Vieni, dammi una mano.”
Davide, col camicie ancora lordo dalla sera precedente, afferrò il
lenzuolo bianco che gli avevo appena sistemato sulla branda. Mi chiese
d’aiutarlo per avvicinarsi alla grata, ed una volta arrivato fece un nodo al
lenzuolo, per farlo scivolare tutt’intero all’esterno della cella. Trascinai la
branda vicino al muro, dunque ci salii sopra. Gli altri carcerati avevano avuto
la stessa idea di Davide, del resto, questa era una consuetudine radicata, la
compassione vigila limpida anche tra noi disperati. Decine e decine di lenzuoli
bianchi, che al sole ondeggiavano per un leggero vento di maestrale, salutavano
la scarcerazione anticipata e definitiva del nostro “Tony” Cappai.
Vincenzo maria D'Ascanio
http://www.vincenzomariadascanio.flazio.com/
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