Unione Sarda
La Sardegna fuori dal Senato? Il rebus
divide gli esperti Palazzo Madama vietato ai consiglieri regionali: scontro tra
politici e giuristi
La Sardegna fuori dal nuovo Senato: ma è
vero? Per ora è un dibattito che appassiona soprattutto i costituzionalisti,
però attenzione: metti che vinca il Sì al referendum, metti che poi si vada a
formare a Palazzo Madama quella che sarà un'inedita camera delle autonomie
locali. Quel giorno sarà interessante anche per i sardi capire se saranno
rappresentati nel secondo ramo del Parlamento.
IL NODO Ma oggi non è facile dare una
risposta netta al dubbio aperto da un presunto “buco” normativo nella riforma
della Costituzione. Si può sintetizzare così: se il 4 dicembre vince il Sì, i
cento senatori saranno (quasi tutti) consiglieri regionali e sindaci. Alla
Sardegna spetterebbero due consiglieri e un sindaco. Ma il nostro Statuto speciale,
all'articolo 17, stabilisce che «l'ufficio di consigliere regionale è
incompatibile con quello di membro di una delle Camere». O fai una cosa o fai
l'altra. Una regola simile vale anche nelle altre regioni speciali. Tutte
escluse dal Senato, quindi (o presenti solo coi sindaci)? Sarebbe un'assurdità.
Il caso era stato sollevato qualche
settimana fa da alcuni esponenti politici delle regioni speciali, schierati per
il No (in Sardegna, per esempio, ne aveva parlato Thomas Castangia, di
“Possibile”). Nei giorni scorsi ne hanno riparlato, al Senato, il leghista
Roberto Calderoli e Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali. Soprattutto le cose dette
dalla senatrice del Pd sono state rilanciate dal deputato di Unidos Mauro Pili,
che sul tema ha presentato un'interrogazione alla presidenza del Consiglio, e segnalato
la questione anche al capo dello Stato e alla Corte costituzionale.
I TIMORI Secondo Pili (e non solo lui) il
rebus dell'incompatibilità può essere il cavallo di Troia che costringerà
l'autonomia speciale a capitolare. Ecco perché: la riforma
costituzionale limita le competenze delle regioni ordinarie, ma questa parte
non si applica alle regioni speciali «fino alla revisione
dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime regioni». Quindi la
necessità che la Regione sarda dia «l'intesa» metterebbe al riparo da revisioni
in senso peggiorativo dello Statuto speciale.
Finocchiaro però dice che si dovranno
adeguare gli statuti per cancellare le incompatibilità consigliere-senatore. Ma
allora si rischia che anche altre parti della carta dell'autonomia sarda
vengano riviste, in un clima politico decisamente sfavorevole alle autonomie speciali.
Pure un minimo ritocco, poi, farebbe scattare la “clausola di supremazia” che
consente allo Stato di legiferare in materie di competenza regionale, se c'è da
tutelare «l'interesse nazionale».
LA REPLICA Problema inesistente per il
deputato Pd Francesco Sanna, che è anche un avvocato e presiede la
commissione paritetica Stato-Regione per l'attuazione dello Statuto sardo. «Per
il nuovo Senato - sostiene - non vale il divieto di doppio mandato previsto dall'articolo
17, che fa riferimento a “una delle Camere” come le conosciamo adesso». Il
Senato disegnato dalla riforma è «completamente diverso», perché «rappresenterà
le istituzioni territoriali. Non deve ingannare il fatto che mantenga lo stesso
nome. Cambia funzione, competenza, composizione».
E proprio perché rappresenterà le regioni,
quell'incompatibilità «per il nuovo Senato non varrà», continua Sanna. Si potrà
correggere l'articolo 17, conclude, ma in ogni caso quella norma «non sarebbe
più applicabile a una norma che non c'è più». Con argomenti in parte diversi,
basati sulla prevalenza della legge nuova (la riforma) sulla vecchia (lo
Statuto), esclude la necessità di adeguamenti statutari anche l'ex giudice
costituzionale Giovanni Maria Flick, citato dall'Huffington Post, che pure voterà No
alla riforma.
L'OBIEZIONE Ma altri esperti giuristi
ritengono invece molto più serio il pericolo che la Sardegna resti, in mancanza
di un ritocco di quella norma, in parte esclusa dal Senato. Omar
Chessa, docente di Diritto costituzionale dell'Università di Sassari (e a sua
volta contrario alla riforma), esclude che l'articolo 17 possa essere
serenamente disapplicato. «Non è incostituzionale e non contrasta con il
diritto europeo», ragiona lo studioso, citando due casi di disapplicazione di una norma. Quanto all'abrogazione tacita
per effetto di leggi successive, «pure questo è da escludere. Le disposizioni
del nostro Statuto possono essere abrogate o modificate solo con leggi costituzionali
di revisione statutaria», attraverso l'iter dettato dallo Statuto stesso,
all'articolo 54.
Insomma, l'incompatibilità resta e
resterà: «Non si può essere allo stesso tempo consigliere regionale e
parlamentare, quale che sia la camera di appartenenza», ripete Chessa. «La
conclusione è che si rischia davvero di rimanere fuori dal Senato, salvo che
non intervenga una revisione statutaria».
Giuseppe Meloni
FIRENZE. Ieri giornata conclusiva della
Leopolda. «Il referendum cambierà il Paese» «Quel No è voglia di governo» Renzi
pizzica la minoranza Dem: cercano solo la rivincita
FIRENZE «Dicono no perché hanno l'ultima occasione
per tornare in pista. Lo hanno capito anche i bambini che vogliono restare in
campo, al loro posto, senza cambiare nulla». Una stoccata al variegato fronte del
No al referendum costituzionale. Il premier Matteo Renzi, nel suo intervento
dal palco della Leopolda, nella giornata conclusiva della kermesse del Pd,
attacca «la vecchia politica». Cita D'Alema, «lui dice: noi l'avremmo fatta, la
riforma. E perché allora non l'hai fatta?». Cita Berlusconi: «Ha detto che
questa riforma rischia di portare un uomo solo al comando. Loro avevano fatto
una riforma in cui il premier poteva sciogliere le Camere».
FRONTI DEL SÌ E DEL NO Ha chiuso così, il
premier, la tre giorni di tavola rotonda che ha segnato la divisione
all'interno della minoranza dem, con la firma di Gianni Cuperlo al documento
per la modifica all'Italicum. «Il referendum del 4 dicembre non è quello tra
due Italie, c'è una Italia sola, il popolo italiano non è diviso. Ci sono quelli del Sì che hanno un'idea e un
orizzonte comune; quelli del No se li chiudi in una stanza dicendo loro uscite
con un'idea comune, non escono più». Poi l'allusione a Pier Luigi Bersani. «C'è
chi ha votato tre volte la riforma costituzionale e poi diventa il capo del
comitato del No del proprio partito. Ogni riferimento a Renato Schifani che ha fatto
la stessa cosa in Forza Italia».
CAMBIAMENTO CULTURALE Ha ripercorso la
propria storia. «Se oggi c'è una guida al governo di quarantenni è
perchè, qui, in questa stazione di Firenze, degli inguaribili sognatori hanno
rifiutato la logica del “No, non si può fare”, del “Ciccio rispetta la fila”. È
un cambiamento culturale». In sette anni, ha sottolineato, «abbiamo affrontato
tante sfide. Stiamo restituendo all'Italia solo quello che merita e per farlo
abbiamo dovuto rottamare un gruppo dirigente che ci aveva ridotto in quelle
condizioni».
Brunetta (Fi): «Propaganda» D'Attorre
(SI): i valori del Pd sono stati distrutti
Dopo il sì di Gianni Cuperlo, che ha
firmato l'intesa con la maggioranza per le modifiche all'Italicum, la minoranza
dem è rimasta spiazzata. Da Bersani a Speranza, la linea più intransigente. E proprio
a Bersani alludeva il premier quando ha evocato “la ditta”: «Bernie Sanders
sostiene Hillary Clinton alle primarie. Parlo ai teorici della ditta quando ci
sono loro e dell'anarchia quando ci sono gli altri».
La replica è arrivata subito da Alfredo
D'Attorre, esponente dell'esecutivo nazionale di Sinistra italiana: «Peccato
che il Pd sia stato già distrutto nella sua base sociale e nei suoi valori da
chi in questi tre anni ha utilizzato i voti presi da Bersani per realizzare con
l'appoggio determinante di Alfano e Verdini buona parte del programma della
destra». Sempre dal fronte del No, il segretario della
Lega Nord Matteo Salvini: «Se tu devi
bloccare il Paese per tre giorni per trovare un accordo con Cuperlo
sull'Italicum lo puoi fare a casa tua e risparmi tempo e soldi». E Renato
Brunetta, Forza Italia: «Renzi fa solo propaganda».
La vera sfida per il premier Ora il gioco
si fa duro: indecisi da convincere
Passata la Leopolda, il gioco si fa duro e
comincia il rush finale per Matteo Renzi con un traguardo politico da tagliare
il 4 dicembre prossimo: che i sì vincano il referendum costituzionale.
Qualcosa, nel campo del Partito democratico avverso a
Renzi, la cosiddetta minoranza dem, in queste ore si è mosso. Gianni Cuperlo,
ad esempio, ha messo il suo ok sulla modifica dell'Italicum avanzata dai
renziani, chiedendo lealtà ed annunciando il proprio sì al referendum.
Politicamente si tratta per Renzi e per i suoi
di un risultato importante, visto che mette una zeppa all'interno del fronte
del no dei Democratici, con Bersani e D'Alema che non sembrano gradire affatto
la scelta di Cuperlo. Questo sul piano politico.
Altro discorso è il versante pratico,
quello dei numeri necessari a far vincere i sì nelle urne. Senza bisogno di
citare Stalin e la sua celebre battuta su «quante divisioni ha il Papa?» in
risposta a chi gli faceva presente le sollecitazioni di Pio XII durante il
vertice di Jalta a fine seconda Guerra Mondiale, la domanda concreta è –
davvero senza ironia -: quante divisioni ha Gianni Cuperlo? Basterà il suo passaggio
con il sì a far vincere a Renzi il referendum?
Con tutto il rispetto per Cuperlo,
l'impressione è che no, non è sufficiente questa piccola svolta politica
interna al Pd a far prevalere i sì nel voto di dicembre. Per questo la sfida
per Matteo Renzi comincia adesso e sarà tutta una partita con la opinione pubblica
italiana, o meglio con quel pezzo di opinione pubblica di indecisi, ancora
ampissima stando ai sondaggi, da convincere due volte: la prima per andare a
votare e la seconda per scegliere il sì.
Questa parte di elettorato incerto, in
gran parte moderato e non militante, infatti aspetta alla finestra in attesa di
capire cosa cambierà per la sua vita quotidiana. Burocrazia, costi, sprechi, se
e in che modo votare al referendum potrà alleviare questi eterni mali italiani mai riformati a dovere. Più che
Cuperlo, dunque, è a questo mondo eclettico e non del Pd che il
premier dovrà guardare da qui al 4 di dicembre. Non farlo sarebbe un errore,
prima ancora che politico, di prospettiva.
Pensare infatti che la partita decisiva
per vincere il referendum si giochi tutta internamente al Pd appartiene ad un
modo superato e novecentesco di leggere la politica. In un'epoca dove le
ideologie sono in archivio e le scelte si compiono sull'onda emotiva, persino
la unità del partito diventa un aspetto laterale.
La stessa parabola verso la leadership di
Matteo Renzi, prima nella vittoria delle primarie per candidarsi a sindaco di
Firenze, poi in quella a segretario del Pd, infine nell'ascesa a Palazzo Chigi,
si è realizzata in antagonismo col partito e non dietro la spinta di esso e di
una sua posizione unitaria. Conquistato Cuperlo, dunque, restano da conquistare
gli italiani (indecisi).
Massimiliano Lenzi
Bersani: «Devono mandare l’esercito». Gotor: «La dice lunga che non abbia zittito chi ci vuol cacciare» La minoranza dem: «Nessuna scissione»
FIRENZE Dopo i fischi di sabato
indirizzati a Massimo D’Alema, ieri la platea della Leopolda è esplosa con un
“fuori, fuori” quando Matteo Renzi ha chiamato alle armi contro «i teorici
della ditta quando ci sono loro e teorici dell’anarchia quando ci sono gli
altri». Ma la minoranza dem, nonostante il sì di Gianni Cuperlo al documento
sulla nuova legge elettorale, non ha alcuna intenzione di farsi cacciare: Pier
Luigi Bersani ribadisce ai suoi che devono andarlo a «prendere con l’esercito» per
fargli lasciare il Pd.
Ma il partito, secondo gli stessi
bersaniani, è a rischio rottura proprio per la mancata volontà unitaria del
leader. A meno di un mese dal referendum e con sondaggi difficili da
interpretare, nel Pd si fanno strada diversi scenari in caso di vittoria del
No.
I conti, sostengono i fedelissimi di
Renzi, si faranno al congresso dove il premier sembra avere intenzione di candidarsi
comunque. Il presidente del Consiglio non sarebbe invece un uomo da
“governicchi tecnici”. Dall’altra parte c’è la minoranza dem, secondo cui il
governo dovrebbe andare avanti. «Non credo che la stabilità del nostro Paese
sia in questione», dice Massimo D’Alema.
Anche per Bersani il premier deve
continuare a governare mentre dovrebbe lasciare la guida del partito e rimanda
lo scontro alla battaglia congressuale, amareggiato da chi, a suo avviso, vuole
alimentare la scissione. «Che il segretario di un partito – sostiene Miguel
Gotor - non avverta l’esigenza di placare il grido “fuori fuori” dei suoi
supporter vecchi e nuovi, la dice lunga sulle sue effettive capacità di
direzione politica». Altro che volontà di distruggere il Pd dopo aver distrutto
l’Ulivo, come ha attaccato il premier. Lo slogan dell’Ulivo, ricordano i
bersaniani, «era “uniti per unire”, quello del Pd di Renzi invece è diventato nell’inconsapevolezza
della sua curva di aficionados “divisi per dividere”».
Davide Zoggia, della minoranza dem,
aggiunge: «Non ci spaventano i cori. Non è nelle nostre intenzioni accontentare
chi ha urlato e vorrebbe metterci alla porta. Alla Leopolda si è tenuto un appuntamento
di corrente, maggioritaria, ma di corrente. Non mi pare che il vero Pd sia
quello della Leopolda». Stando così le cose l’unità del partito appare sempre
più difficile e la resa dei conti è rimandata al 5 dicembre, dopo il
referendum.
di Gabriella Cerami
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