L'associazione Pauly Onlus di Monserrato
in collaborazione con La Comunità Palestinese in Sardegna
Sabato 25 Giugno, ore 19:30
Monserrato, Via del Redentore 216
Monserrato
I racconti di Mahmoud Suboh cominciano spesso con una divertente ironia che prende di mira giornalisti televisivi ignoranti, o indotti a raccontare una realtà capovolta, dove la verità rimane schiacciata sotto un cumulo di menzogne e di idiozie. Ma poi il telegiornale dà una notizia e sulla leggerezza del racconto piomba il buio e si fa largo la tragedia. E' il telegiornale che informa l'autore ora dell'uccisione di un amico ora di un altro diventato martire. Affiorano ricordi di dolore e nostalgia. Ritornano le immagini dell'infanzia quando il Medio Oriente era “la terra delle fiabe e della magia”.
Nel racconto “All'ombra del muro” l'autore ritorna ad un infanzia magica quando neppure il mostro incombente dell'occupazione poteva turbare quelle notti gremite di fiabe e di racconti ascoltati con stupore. Ma quando vi ritorna da adulto, il villaggio non gli appare più lo stesso.
“Il mostro è ingrassato” ha fagocitato quasi tutta la terra, nessuno più racconta storie. Il muro si erge davanti alle case come muro di prigione. Eppure i bambini sono pieni di creatività, non si arrendono, allo stupito scrittore spiegano che stanno scavando un buco nel muro, non per una dimostrazione politica, ma per giocare a pallone con i bambini che sono rimasti dall'altra parte. La vita non si può impedire, e il gesto dei bambini appare come un'azione di resistenza a chi vuole cancellare tutto ciò che c'è di bello, di giocoso e di felice nella loro infanzia.
Anche il racconto “Alla ricerca del paradiso nell'inferno di Dante” comincia con leggerezza. Per tutta la sera Mahmoud cova il desiderio di mangiare due trote a cena, naturalmente con vino bianco. Quando dopo diversi impedimenti e ritardi le trote sono in tavola precipita su di loro la notizia dell'uccisione di un amico. Il tono del racconto cambia e si è introdotti in una storia straziante, come purtroppo sono le storie di molti migranti. Dopo tanta sofferenza Hamed che aveva trovato un equilibrio felice nella sua vita, viene ucciso per motivi abietti quanto futili. Il dolore della vedova e degli altri familiari sono raccontati con commossa empatia e destano nel lettore una sorta di rabbia e di triste partecipazione. Ma nel racconto c'è pure una considerazione importante: al di là di culture e usi diversi, le persone sono tutte uguali e hanno le stesse preoccupazioni e gli stessi sogni. La suocera italiana di Hamed ha un figlio che è partito per il Canada come lui è partito per l'Italia e nei suoi discorsi ad Hamed sembra di ascoltare le stesse parole di sua madre. Dopo questi fatti drammatici la stampa non si smentisce e si sofferma con pietà non sulla vittima innocente, ma sugli assassini e sulle loro famiglie, commuovendosi su quelli che erano in fondo “bravi ragazzi”. E ci si chiede come mai gli stupratori e gli assassini sono sempre “bravi ragazzi”.
Mahmoud Suboh sembra muoversi tra due mondi, quello in cui vive e quello che conserva nel cuore. I racconti spaziano da un presente dove c'è la sua professione di medico, la sua famiglia, i suoi amici e un passato pieno di voci, di fiabe, di profumi, di danze e di corse. Ma anche di ricordi dolorosi e di rimorsi. Quando è nel presente il tono della narrazione è ironico e leggero, poi si apre una porta ed entra quella che è la storia vera e propria e lascia senza fiato. Dopo aver letto questi racconti si rimane per 5 minuti in silenzio.
Nel racconto “Gente della terra santa” sarà un vecchietto, arrivato dal medico non per un acciacco dell'età, ma perché non riesce a rintracciare nella memoria il numero esatto degli invitati al suo matrimonio, ad aprire allo scrittore la porta dei ricordi e di un ricordo in particolare. Al conto del vecchietto mancano due persone, questo gli provoca un grande disagio che diventa poi rimorso quando con l'empatico aiuto del suo medico gli viene in mente che i nomi dimenticati erano quelli del suo migliore amico e di sua moglie. Con questo amico aveva diviso tutto, come aveva potuto dimenticarlo? Il paziente guarito decide di andare a trovare la famiglia dell'amico dimenticato. E' a quel punto che riaffiora il ricordo di Adnan. E compaiono immagini: Adnan che a scuola vuole che si parli della Palestina e viene zittito dall'insegnante (ci sono sempre spie in classe). Adnan che apriva un mondo davanti agli occhi degli altri scolari, e spiegava loro la storia della Palestina. E poi la sua visita al campo profughi dove viveva l'amico, il timore di venir interrogato sulla storia, sulla cultura della Palestina, da quella gente così preparata e di fare brutte figure, e infine la scoperta di quanto dolore impregnava le strade del campo. La nonna di Adnan era stata arrestata, in seguito a questo fatto il bambino aveva subito un forte trauma che lo portava ad alzarsi di notte e ancora dormendo aprire la porta e gridare contro gli occupanti. Rattristato dal sapere il dolore che si nascondeva dietro il sorriso di Adnan il piccolo Mahmoud si chiedeva quante persone nel campo erano così traumatizzate.
Durante un'incursione Adnan viene ucciso nel sonno quando apre la porta di casa e comincia a gridare. Non riuscendo a sostenere tanto dolore il giovane Mahmoud preferisce scappare e allontanarsi per concentrarsi sul suo futuro. Ma quel giorno di ferragosto visitando un vecchietto che aveva dimenticato un amico, capisce che ha lasciato qualcosa in sospeso. Non può rivedere Adnan, ma può rivedere la nonna, quell'anziana saggia, solida come una roccia che gli era apparsa da bambino con una statura gigantesca e che troneggiava in un angolo della casa con la chiave dei profughi al collo e raccontava, a loro piccoli, la storia della Palestina e dei suoi poeti.
Quando però raggiunge la Palestina apprende che la nonna è ormai morta. Si reca ugualmente nella casa, ma guardando verso il trono della nonna e credendo di vederlo vuoto ve la trova assisa, con le sue rughe, con la chiave appesa al collo, vestita con il costume tradizionale palestinese. Così come se la ricordava. Non è più la nonna di Adnan, ma sua madre. Ha occupato il posto vuoto perché non mancasse mai una donna anziana detentrice della memoria che istruisse i piccoli e insegnasse la storia della Palestina e raccontasse dei suoi poeti. La mamma di Adnan, ha gli stessi gesti e parla con le stesse parole della nonna. E' come se fossero l'involucro mortale di una figura eterna e archetipale. Generazione dopo generazione la memoria è mantenuta viva. E' il periodo della prima Intifada e il campo profughi trasuda di polvere e sangue e ritratti esposti di martiri. Una cosa sola l'autore non può perdonare a quella donna saggia, alla nonna: non aver rivelato che Adnan, ancora quasi un bambino, non aveva lanciato una bomba incendiaria come dichiarava l'esercito, ma era morto sognando.
Una storia dentro un'altra storia nel racconto “Il vecchio e il passerotto”. Il papà racconta ai bambini di Abu Salem ed Abu Salem racconta di se, sia pure in terza persona. Quando comincia a parlare si alza un perfetto silenzio e tutti si mettono in ascolto, perchè Abu Salem è un grande narratore. Il vecchio racconta di come era diventato un feday, un combattente, dopo l'assassinio della sua famiglia. Aveva cercato di salvare la vita al suo figlio più piccolo, lo aveva nascosto sotto le vesti di una vicina, ma non sapeva cosa ne era stato di lui, né se la vicina fosse riuscita a portarlo in salvo. Questa domanda lo aveva angosciato tutta la vita fino all'arrivo della morte alla quale si rivolge in tono di sfida. La grande mietitrice è messa sotto accusa.
Il vecchio, che non poteva morire senza sapere nulla del suo ultimo figlio, la fronteggia e la combatte. Alla fine la morte se ne va sconfitta. Abu Salem è molto stanco, non riesce nemmeno ad alzarsi da terra dopo il titanico confronto sostenuto. Ma ecco che un piccolo volatile, il più piccolo e tenero degli animali, un passerotto, lo rianima con il suo cinguettio. E' così piccolo eppure così potente, come è potente la speranza e dispiega ali portentose per portare Abu Salem in un viaggio sopra quella che era stata la sua cittadina, lui la vede nel ricordo di com'era e anche nella trasformazione che ha subito. Quando torna a casa si procura un rastrello e con l'aiuto dei ragazzi della casa pulisce tutto, pianta fiori mette a dimora piante, cambia l'aspetto del villaggio che ora splende di luci e di colori. Da tanto entusiasmante amore per la bellezza, prima vengono contagiati gli abitanti del suo villaggio poi degli altri villaggi.
Abu Salem diventa un esempio. Qualcosa è scattato in lui, risollevandolo dalla rabbia custodita da anni. Così scrollandosi di dosso i suoi dolorosi ricordi sceglie la vita e la sua bellezza. I villaggi e i campi profughi si aprono alla luce della speranza e cominciano a progettare il proprio futuro ritrovando la fierezza antica.
Quando poi crede che la morte sia tornata a fargli visita scopre invece che la sagoma nera che si avvicina è quella di un uomo: suo figlio. E questo racconto non poteva finire che così, alla fine della storia pensiamo che Abu Salem se lo è proprio meritato questo finale. Con la sua innata capacità di affabulazione. Mahmoud Suboh ci regala dei racconti che arrivano direttamente al cuore, informano, commuovono, rapiscono il lettore, aprendo una finestra su una realtà e un mondo che l'autore non conosce soltanto ma che porta nell'anima.
Miriam Marino.
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