Nell'assemblea di
Liberi e Uguali Pietro Grasso ha proposto l'università gratuita innescando un
gran dibattito. E meno male. Da anni l'Università è stata usata dalla politica
come un bancomat per reperire risorse da spendere altrove, oppure oggetto di
strampalati anatemi, spessissimo colpevole di non preparare al mondo del
lavoro, altre volte ancora considerata come un'accolita di lagnosi, colpevoli
di chiedere (ma che pretese!) reclutamento dei precari e adeguamento delle
retribuzioni dei docenti. Stavolta si parla del diritto di tutti di poterci
andare all'Università, una rivendicazione storica dei movimenti studenteschi:
significa ribaltare l'ordine del discorso e non mi pare poco. Fatta la premessa
però serve entrare dentro alla questione. Cominciamo con il descriverla.
DA DOVE VIENE: La proposta della gratuità dell'istruzione universitaria affonda le
sue radici nella storia del welfare universalistico, matura nei movimenti
studenteschi e, in anni recenti, trova nuova linfa dalle battaglie contro il
progressivo innalzamento dei costi dell'università. Con Sinistra Italiana
lavoriamo da tempo a uno studio e una proposta sul tema, discussa anche nella
conferenza programmatica di Liberi e Uguali del 16 Dicembre a Roma.
COME FUNZIONA: garantire la gratuità dell'istruzione significa intervenire in modo
coordinato su due piani che devono procedere parallelamente: la graduale abolizione
della contribuzione studentesca con una contemporanea rimodulazione in base al
reddito della tassa regionale per il diritto allo studio; il potenziamento del
diritto allo studio che deve almeno raddoppiare la sua capacità di copertura.
QUANTO COSTA: l'abolizione della contribuzione studentesca costa meno di 1,6
miliardi con una stima per eccesso che corrisponde alle entrate da tasse
universitarie secondo il bilancio previsionale 2016 dell'Ufficio di Statistica
del Miur. Il potenziamento del diritto allo studio costa circa altri 600
milioni. Per fare un paragone sull'entità della spesa: i famosi 80 € di Renzi costavano 9 miliardi. Gli sgravi
fiscali alle imprese collegati al Jobs Act quasi 20 miliardi.
CHI
PAGA: Pagano
i più ricchi attraverso la fiscalità generale in un sistema da rendere
fortemente progressivo. Su questo non devono esserci ambiguità. In un paese in
cui l'indice di Gini cresce continuativamente da un decennio contrastare le
diseguaglianze è un dovere civile. Qualsiasi intervento, soprattutto quelli di
natura universalistica, deve essere finanziato con misure fortemente progressive.
Bisogna cioè combinare interventi re-distributivi (che agiscono a valle del
processo di formazione del reddito) e pre-distributivi (che intervengono sui
meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari). In questo caso
significa prevedere un contributo più elevato da parte di coloro che hanno più
redditi e patrimoni per finanziare la gratuità dell'università.
Aggiungo che un'interessante ipotesi di finanziamento sarebbe
l'attivazione di una tassa sulle grandi ricchezze finanziarie,
sull'impostazione di quella avanzata qualche anno fa dalla CGIL per sostenere
quota parte del Piano del Lavoro. Una tassa che riguarderebbe il 5% delle
famiglie più ricche e interverrebbe sui soli patrimoni finanziari con
un'aliquota progressiva.
PERCHÈ
È GIUSTO. I padri e le madri costituenti scrivevano che l'istruzione è obbligatoria
e gratuita per almeno otto anni. Perché lo scrivevano? Perché pensavano
l'istruzione come un diritto fondamentale e l'aumento dei livelli di
scolarizzazione come un obiettivo strategico del paese. Settant'anni dopo,
estendere questo principio all'università mi sembra sacrosanto.
Non è vero ancora più che in passato che la conoscenza rende liberi? E che
per districarsi nella sempre maggiore complessità del reale sono necessari
sofisticati strument i critici
di comprensione e rielaborazione? Non è vero ancora più che in passato che la
produzione di valore è inestricabilmente connessa alla conoscenza e alla
capacità di innovazione? E che aumentare i livelli di istruzione è una leva per
qualificare il sistema produttivo? Se non è vero, se non abbiamo accresciuto il
nostro bisogno individuale e collettivo di sapere di cosa parlavate,
esattamente, nell'ultimo ventennio, voi che parlavate di società della
conoscenza?
Concepire l'università (e la formazione tutta) come un diritto e non come
un "servizio a domanda individuale" è anche un modo per chiarire da
che parte stiamo: stiamo dalla parte di intende la cultura un bene in sé, non
necessariamente legato all'incontro tra offerta e domanda nel mercato del lavoro;
di chi ha sempre considerato l'istruzione come un potente mezzo di
emancipazione, personale e collettiva; di chi rifiuta l'epiteto di bamboccioni
perché intorno a noi vediamo tante aspirazioni costantemente frustrate da un
sistema immobile e classista.
Insomma, l'Università va considerata un diritto fondamentale e rappresenta
un investimento strategico per il benessere collettivo, per questo, così come
per la scuola, è giusto che sia accessibile a tutti e finanziata attraverso la
fiscalità generale. Una fiscalità generale molto più progressiva perché in un
sistema equo chi ha di più deve contribuire di più.
PERCHE'
FA SCANDALO. Qui, secondo me, bisogna prenderla un po' alla larga. Il '900 è stato
anche il secolo della scuola e l'università di massa o, meglio, che ambivano a
diventarlo. Non potremmo immaginarlo senza l'innalzamento dei livelli di
istruzione. Sembrava, quella dell'istruzione di massa, una traiettoria
progressiva e inarrestabile. Eppure questa traiettoria ha subìto, negli ultimi
decenni, una brusca interruzione. Ne abbiamo diverse prove, ne cito due:
1. Nell'ultimo
decennio, con un'inversione di tendenza di portata storica sono calati drasticamente gli studenti che
si iscrivono all'università (quest'anno -40.000 rispetto al
2004-2005);
2. abbiamo assistito
alla riduzione, di fatto, dell'obbligo scolastico: l'effetto combinato di jobs
act e legge 107 ha
determinato la possibilità di assolverlo in apprendistato che significa,
appunto, abbassare -di fatto- l'obbligo. Già un ottimo motivo per abrogare per
direttissima entrambe queste leggi.
Perché è successo? Perché in questi anni si è affermata un'idea opposta a
quella che ha animato il '900: quella dell'istruzione, e in particolare
dell'Università, per pochi "eccellenti". Le retoriche meritocratiche,
insieme alla campagna denigratoria contro l'università, servivano a sostenere
l'idea di un'università ridotta a pochi poli di eccellenza, per pochi studenti
eccellenti. Un'idea sbagliata, oltre che iniqua, che scommette sulla
restrizione della conoscenza invece che sulla sua diffusione. Per pochi e non
per molti, insomma. Pochi territori, pochi studenti, pochi ricercatori, poche
ricerche. Solo quelli eccellenti.
Contemporaneamente si è radicata un'altra, deleteria, idea, che ha invaso
i servizi pubblici: quella che ciascuno se li paga. Un modo per iniettare la
logica del servizio a domanda individuale dentro tutti i servizi pubblici, uno
dei volti dei processi di privatizzazione. Tramonta qui l'idea dell'interesse
collettivo e che il Pubblico ne sia garante. E insieme tramonta l'idea della
responsabilità collettiva.
PER
SMENTIRE LE FAKE NEWS SUL TEMA: A chi dice che non ci sono i soldi
bisogna ricordare che l'Italia spende il 4,1% del Pil in
istruzione a fronte di una media europea del 4,9% (Eurostat). A
chi dice che abbiamo troppi laureati va spiegato che abbiamo un numero di
laureati ben inferiore alla media europea: il 26% di chi ha tra 30 e 34 anni a
fronte di una media europea del 40%. A chi sostiene che le tasse universitarie
in Italia sono basse bisogna far leggere l'ultimo rapporto Eurydice, il quale
rileva che le tasse universitarie in Italia non sono alte, sono molto alte. Le più
alte in Europa dopo Inghilterra e Olanda. Corrispondono a 1400 Euro medie
all'anno.
A chi dice che
l'accesso all'università non dipende da fattori economici va ricordato che il
nostro sistema è uno dei più iniqui in Europa perchè combina alte tasse
universitarie con poche risorse per il diritto allo studio: le borse di studio
in italia sono poche, pochissime, e non coprono neanche tutti gli aventi
diritto. Per dare un ordine di grandezza: in Italia beneficia di borsa di
studio il 9% degli studenti universitari, in Francia il 39%, in
Spagna il 30% e in Germania il 25%.
A chi sostiene che si tratta di una boutade populista bisogna suggerire di
guardare fuori dai confini nazionali: scoprirebbe che In Germania, in Scozia,
in Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia, per citare alcuni paesi, non sono
previste tasse universitarie. E che questa proposta ha trovato inoltre un posto
di rilievo nel programma elettorale di Jeremy Corbyn nel Regno Unito e di
Bernie Sanders negli Usa.
Infine: a chi dice che si tratta di una misura di destra perché i poveri
pagheranno l'università al figlio di Marchionne bisogna chiarire che è vero
esattamente il contrario. Chi ha redditi alti pagherà di più e, se frequenta
l'università o ha figli che la frequentano, pagherà due volte. Pagherà di più
attraverso una fiscalità generale fortemente progressiva ; e pagherà due volte perché oltre che attraverso la
fiscalità generale contribuirà anche attraverso la tassa regionale per il
diritto allo studio.
In questo modo i super ricchi, anche se non hanno figli, o se i loro figli
frequentano università private, sosterranno comunque a pieno l'università
pubblica per consentire a tutte e tutti di potervi accedere. Secondo il
principio che l'università è un diritto fondamentale di cui si deve far carico
la fiscalità generale secondo il sacrosanto assunto che chi ha di più deve
pagare di più.
Quelle che chiamiamo tasse universitarie, infatti, sono
"contributi" una compartecipazione -sempre più onerosa- al costo del
servizio da parte di chi ne fruisce. Si tratta perciò una cosa ben diversa
dalle imposte, per esempio l'Irpef, che costituiscono alla fiscalità generale.
Non è quindi corretto dire "i ricchi non pagheranno più le tasse per
andare all'università": ne pagheranno di più, attraverso le imposte che
concorrono alla fiscalità generale.
L'università gratuita è una proposta potente, visionaria e molto concreta,
e proprio per questo non può bastare a se stessa. Necessariamente si colloca in
un progetto di rifinanziamento del sistema universitario che ha subito tagli
feroci nell'ultimo decennio; di reclutamento straordinario di ricercatori e
professori per recuperare il crollo dovuto al blocco del turn over e al
definanziamento, ma poi affidato a una programmazione ordinata; di riforma del
preruolo che spazzi via la palude di precariato che è un brutale sistema di
sfruttamento; di abolizione dell'anvur e ripensamento radicale della funzione,
del senso e dei modi della valutazione; di democratizzazione del sistema di
governo.
E insieme si colloca in un progetto di accessibilità dell'istruzione lungo
tutto il suo percorso: dagli asili nido -in Italia pochissimi e costosi- alla
scuola, costellata di costi nascosti, all'Università. E respingo l'idea, in un
paese che ha tagliato sempre sull'istruzione, che non si possa intervenire
congiuntamente su questi capitoli. Costa? Si, sono scelte di allocazione delle
risorse.
Anche per la capacità di assumere un significato ulteriore rispetto a ciò
che indica, in questa proposta c'è una traccia di una politica alternativa.
Perché gioca in attacco e non in difesa: non si tratta di correggere le
storture del neoliberismo, ma di ribaltare il tavolo e avanzare una proposta di
emancipazione collettiva. Perché riguarda i molti e non i pochi e scommette su
nuove alleanze, costruendo un orizzonte di lotta e desideri comune.
È solo con proposte radicali e concrete che Liberi e Uguali può rivolgersi
a chi oggi si sente radicalmente distante dalla politica, a chi non va a
votare, a chi è stato tradito dalla sinistra. È guardando oltre alle miserie
del presente che può essere utile. Utile a comporre un progetto di
trasformazione radicale dell'esistente: quello di cui abbiamo maledettamente
bisogno.
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