martedì 5 giugno 2018

Rassegna stampa 05 Giugno 2018


La Nuova

Viaggio nel pianeta Pd poche idee e niente leader. A tre mesi dalla débacle alle politiche tra i democratici sardi regna ancora il caos. Le dimissioni congelate del segretario, duelli tra big e correnti sempre lontane, di Alessandro Pirina

Lo stallo in cui è imbrigliato il Pd sardo è tutto in una immagine. Un frame dell'ultima assemblea di Abbasanta. Da una parte Soru, a distanza ravvicinata Ganau. Uno scontro plateale tra due leader, due correnti, due visioni di governo, di futuro, di Sardegna. Un partito che non riesce a fare sintesi e a guardare avanti neanche dopo la batosta elettorale. Per il Pd il 4 marzo è stata una disfatta senza eguali. Il partito si è liquefatto ovunque, soprattutto in quelle che un tempo erano le sue roccaforti. I collegi sicuri in cui l'accettazione della candidatura equivaleva all'elezione.

E invece il Nuorese, l'Ogliastra, il Sulcis, la stessa Sassari non solo hanno premiato i 5 stelle, ma hanno relegato la sinistra al terzo posto dietro un centrodestra lontano dai vecchi fasti berlusconiani. Un tracollo che neanche gli analisti più pessimisti avevano messo in conto. Da allora sono passati tre mesi. 90 lunghi giorni in cui, seppur non senza difficoltà, l'Italia è riuscita a darsi un governo. Lega e 5 stelle sono stati più veloci del Pd sardo, che non ha ancora fatto i conti con il disastro elettorale del 4 marzo.

Il caos. Dimissioni congelate, direzioni, assemblee, autoconvocazioni, autocandidature, rinvii, fino allo scontro feroce tra l'ex governatore e il presidente del Consiglio regionale. Insomma, il Pd sardo è fermo a prima del 4 marzo. Ancorato a una situazione che è stata spazzata via dagli elettori. Prigioniero delle sue correnti che, stando agli ultimi risultati elettorali, rischiano di trasformarsi in fan club del singolo leader di riferimento. In Sardegna il Pd ha fin dalla sua nascita una geografia diversa rispetto al resto d'Italia. Perché se a livello nazionale i dem sardi si sono schierati in massa col leader del momento - prima Veltroni poi Bersani, infine Renzi -, a livello locale il partito si è sempre presentato diviso, litigioso, autore di guerre e paci interne che hanno prima spiazzato gli elettori e poi li hanno fatti scappare.

Solo ko. Basta pensare a come sono andate le vicende di questi anni. Gli ultimi successi elettorali del Pd, e del centrosinistra nel suo insieme, risalgono al 2014. Prima l'affermazione di Pigliaru alla Regione, favorito anche dall'assenza del M5s dalla corsa elettorale, poi la vittoria travolgente di Nicola Sanna alle comunali di Sassari negli stessi giorni del 40 per cento di Renzi alle Europee.

Da quel momento in poi il Pd sardo è riuscito a collezionare solo sconfitte. Non solo sono ritornate a casa città che la sinistra era riuscita a strappare alla destra, come Olbia, Tempio e Oristano, ma a crollare sono state soprattutto roccaforti rosse come Nuoro, Porto Torres e Carbonia.  Ha fatto eccezione solo Cagliari, dove il fattore Zedda - che va ricordato non è un dem - ha fatto forse la differenza. E in questo scenario non si può dimenticare il referendum del 4 dicembre. A favore della riforma Renzi-Boschi c'era tutto lo stato maggiore del Pd, ma il Sì è stato asfaltato dal No col 72,22 dei voti, la percentuale più alta d'Italia.

Alleanze forzate. I campanelli d'allarme, insomma, erano tanti. La sconfitta alle politiche era nell'aria. Ma ciononostante il Pd non se n'è curato. Ha pensato più all'autoconservazione dei suoi leader che a quella dei suoi elettori. Pochi mesi dopo il referendum nell'isola si sono svolte le primarie. A livello nazionale si scontravano Renzi e Orlando, due linee diverse sulla guida del Pd. In Sardegna invece si registrava l'ennesima operazione collage, con pezzi di partito accasati con quelli che erano gli avversari fino al giorno prima. Era già accaduto nel 2014 con Soru vittorioso, sostenuto da Cabras, l'eterno rivale dal 2007.

Tre anni dopo le alleanze si sono capovolte: i soriani da soli contro la corazzata formata da area Cabras Fadda, renziani ed ex Ds. Giuseppe Luigi Cucca ha vinto senza problemi, ma anche la sua elezione si è rivelata la solita alleanza "contro" più che una alleanza "per".

Il crollo. La prova del 9 si è vista nella compilazione delle liste per le politiche. Una spartizione di posti sicuri tra correnti che ha indebolito ulteriormente il già debole Pd. In 10 anni, dalle politiche del 2008 a quelle di quest'anno, in Sardegna i dem sono passati da 354mila voti a 128mila. Un crollo pari a 226mila voti. Una debacle che però non ha prodotto nessuna scossa. Le tre correnti continuano a camminare su tre strade parallele che portano ognuna a un approdo diverso.

Il segretario Cucca, renziano, è pronto a lasciare ma chiede un Caronte superpartes, Soru pretende primarie immediate e l'ex senatore Lai, area Cabras Fadda, propone un referendum che renda autonomo il Pd sardo da Roma. Idee non per forza inconciliabili, ma le tre correnti da tre mesi non riescono a fare sintesi, a trovare un accordo che faccia ripartire la macchina. E nel frattempo la quarta corrente, quella maggioritaria degli elettori, è emigrata verso altri lidi

Macomer, il sindaco Succu: massimo 100 posti. Deiana, Anci: potere ai Comuni
Migranti, appello a Salvini «Sì al Cpr, no ai lager»

di Silvia Sanna
SASSARILo attendono alla prova dei fatti, dopo i tanti slogan urlati
in campagna elettorale. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini dovrà
gestire la realtà di un fenomeno radicato anche in Sardegna. Isola che
negli anni si è conquistata il titolo di terra dell'accoglienza: 4166
al momento i migranti ospitati nelle strutture, la maggior parte nei
Centri della prefettura e una quota minore - ma in crescita - inserita
nei bandi Sprar. Isola che è pronta ad affrontare anche un secondo
passaggio da tutti definito cruciale: l'apertura del Cpr - Centro
permanente per i rimpatri - a Macomer, destinato a ospitare per brevi
periodi i clandestini (in particolare gli algerini) da rispedire a
casa.

Proprio sulla necessità dei Cpr- almeno 1 in ogni regione - il
leghista Salvini viaggia sulla stessa lunghezza d'onda del
predecessore Minniti: li considera indispensabili per aumentare e
velocizzare le espulsioni degli irregolari. Proprio per questo motivo
l'incertezza principale è legata ai numeri: Salvini manterrà gli
accordi sull'unica struttura o punterà al rialzo? E poi: il numero
degli ospiti a Macomer resterà quello stabilito (100) o crescerà? Su
questo punto il sindaco Antonio Succu fa le barricate: «Abbiamo detto
100, non uno di più.

Non vogliamo che il Cpr diventi un lager».
D'accordo il presidente dell'Anci Emiliano Deiana: «L'esperienza ci
insegna che i grandi assembramenti generano insicurezza e paure.
Evitarli è altamente consigliato».Gli accordi sul Cpr. Il piano
Minniti prevede l'apertura del Cpr regionale a Macomer nella struttura
che ospitava il carcere. Nel patto Ministero-Regione-Comune ci sono
diverse clausole: potenziamento delle forze dell'ordine, con presìdi
fissi all'interno e intorno alla struttura, gli ospiti-clandestini
arrivano scortati e vanno via solo per essere rimpatriati.

Nessuna uscita, nessun contatto con la popolazione per i 100 ospiti: questo il
numero massimo stabilito. Dice il sindaco di Macomer Antonio Succu:
«Sono convinto che il Cpr sia indispensabile, non uno ma forse anche
due. Questo tipo di strutture rappresenta l'unico deterrente per
frenare gli sbarchi di clandestini che non hanno diritto allo status
di rifugiato. Nel caso della Sardegna si tratta prevalentemente di
algerini che sbarcano sulle coste del Sulcis. L'accordo è chiaro, noi
siamo pronti e la Regione anche.

C'è un patto da rispettare a
prescindere dal ministro che l'ha firmato, non è possibile
modificarlo. Se il ministro Salvini chiedesse di aumentare il numero
di posti ci opporremo: il Cpr non può diventare un lager, il rispetto
della dignità umana non può mai venire meno. Anche il precedente
carcere - sottolinea il sindaco Succu - ospitava al massimo 120
detenuti perché un numero superiore avrebbe generato una situazione
invivibile.

E noi questo non lo vogliamo assolutamente». Centri
d'accoglienza. Da sempre contrario ai grandi centri e promotore
dell'accoglienza diffusa «che allontana la paura e favorisce
l'integrazione». Il presidente dell'Anci Emiliano Deiana attende le
prossime mosse del ministro leghista ma nel frattempo gli suggerisce
di moderare i toni: «Chi ricopre cariche istituzionali deve pesare le
parole su una materia delicata come l'accoglienza, non si possono
mischiare i delinquenti con chi scappa dalla guerra e dalla fame. Non
ha senso e non aiuta a gestire il fenomeno». Che, aggiunge Deiana,
andrà avanti: «Gli sbarchi e gli arrivi continueranno, perché l'Italia
e la Sardegna non possono chiudere le porte.

Il ministro Salvini dovrà
decidere se continuare sulla strada dei grandi centri d'accoglienza o
se accorpare la prima e la seconda accoglienza, cioè obbligando tutti
i Comuni a fare la propria parte con piccoli numeri per una
distribuzione più equa dell'attuale. Questo è senza dubbio quello che
farei io. Perché - aggiunge Deiana - è importante capire che chi
arriva non può essere espulso il giorno dopo: è necessario fare tutte
le verifiche per stabilire se ha diritto di restare o se deve essere
mandato via. Io penso che nella fase di transizione queste persone
possano essere distribuite nel territorio: impossibile mandarli nel
Cpr, significherebbe trasformare una struttura snella - caratterizzata
dal ricambio continuo degli ospiti - in una galera a tutti gli
effetti».

Molto meglio, secondo il presidente dell'Anci rivedere il
regolamento di Dublino: le operazioni di riconoscimento dello status
di rifugiato non debbono accadere tutte nel paese di sbarco, cioè
l'Italia, ma vanno distribuite tra i vari Paesi. Un esempio: se in
Italia arrivano 1000 migranti e si sa già che ne dovranno rimanere
100, allora gli altri 900 siano accompagnati subito nelle rispettive
destinazioni.

Quando scatta la dual tax? Leghisti divisi sui tempi
Per Bagnai ora si comincerà dalle imprese e nel 2020 toccherà alle famiglie
Ma Siri è di altro avviso: «Il fisco più leggero deve partire per
tutti da subito»

ROMANiente taglio delle tasse per le famiglie nel 2019. O forse sì. In
un botta e risposta tutto interno alla Lega, i contorni della «dual
tax» (le aliquote nel contratto sono due e non una come presupporrebbe
il termine flat tax) sembrano sempre meno definiti. Secondo Alberto
Bagnai, parlamentare leghista, finora da molti identificato come
possibile prossimo sottosegretario al ministero dell'Economia, le
prime ad usufruire dei tagli saranno le imprese, seguite l'anno
successivo dalle famiglie.

Non così per Armando Siri, leghista anche
lui, padrino della flat tax, convinto che dall'anno prossimo il peso
del fisco comincerà ad essere più leggero per tutti, famiglie e
imprese, con la riforma che arriverà a regime nel 2020. Il tema scalda
comunque il dibattito politico e in particolare il Pd che
dall'opposizione risponde con un fuoco di fila che rivendica di aver
già attuato una flat tax sulle imprese con l'Ires e l'Iri al 24% ma
che ironizza anche sul «rinvio per le famiglie». Il primo a parlare è
il segretario reggente Maurizio Martina, ma poi intervengono in molti
dagli ex ministri Boschi e Minniti al capogruppo Ettore Rosato.

La tempistica è certo un punto dirimente, non solo a livello politico, ma
anche finanziario, visto che le coperture necessarie per il taglio
dell'Ires (e dell'Iri sulle Pmi) sono nettamente inferiori a quelle da
recuperare per il taglio dell'Irpef. Bagnai ha parlato di «accordo»
fatto sull'intervento in due tempi, con l'idea di «far partire la flat
tax sui redditi di impresa dall'anno prossimo» e quella sulle famiglie
«dal secondo anno». Parole che hanno scatenato l'immediata levata di
scudi del Pd, pronto a rivendicare come le tasse sulle imprese siano
state già tagliate nella scorsa legislatura e portate tutte proprio ad
unico livello, il 24%. Ma evidentemente anche di esponenti della
maggioranza.

La precisazione è stata affidata proprio a Siri, secondo
cui la partenza sarà simultanea sia per le famiglie che per le
imprese. «Si deve partire con degli step: il sistema è diverso perché
la flat tax per le imprese c'è già - ha chiarito, accogliendo in parte
le critiche del Pd - noi la estendiamo anche a società di persone,
partite Iva etc». L'obiettivo è quello di trasferire «a 5 milioni di
operatori quello che oggi è solo per 800 mila imprese». Guardando le
carte, il contratto non fa parola della scansione temporale
dell'intervento fiscale.

Di fronte alla polemica nata nelle scorse
settimane con Carlo Cottarelli sulla difficoltà di gestire
finanziariamente il programma condiviso dalle due forze di
maggioranza, i pentastellati avevano però chiarito che le misure
sarebbero state attuate nell'arco della legislatura, non tutte subito.
In ogni caso, stando alle dichiarazioni di Bagnai, la platea dei
destinatari della dual tax si abbatterebbe di colpo, così come il
costo. Finora per il taglio dell'Ires dal 27,5% al 24% deciso dal
governo Renzi sono stati necessari circa 3 miliardi. La nascita
dell'Iri, sempre al 24%, per le Pmi ha comportato coperture per altri
2 miliardi. Un eventuale primo passaggio dal 24% attuale al 20% non
potrebbe quindi costare, a spanne, meno di 5 miliardi. Ed anche
inserendo la seconda aliquota più bassa, quella al 15%, non ci si
avvicinerebbe nemmeno ai 50 miliardi calcolati finora considerando il
taglio dell'Irpef. Non così se si intervenisse per tutti già nel 2019.

Bagnai ha intanto rettificato anche il pensiero del nuovo ministro
dell'Economia, Giovanni Tria, che in un recente articolo non aveva
escluso la possibilità di far aumentare l'Iva, spostando il peso dalla
imposte dirette a quelle indirette. Per la Lega, «l'aumento dell'Iva è
assolutamente fuori discussione», ha ribadito, puntualizzando che
l'articolo venne scritto da Tria «prima di entrare a far parte della
squadra di governo».

Continuità, costo dell'energia e accantonamenti in cima alla lista
delle priorità Il governatore: «Savona conosce bene la regione, capirà le nostre richieste» Pigliaru: pronto il dossier da presentare a Conte
CAGLIARI

Nella legge sull'urbanistica, si sa, c'è anche un articolo destinato a
dettare le regole per chi vuole costruire una casa in campagna.
Finora, secondo il Piano paesaggistico regionale del 2006, era
necessario essere proprietari di almeno 3 ettari, tetto conosciuto
come quello del «lotto minimo». Non sarà o almeno non dovrebbe essere
più cosi: la bozza della nuova legge, è in discussione nell'aula della
commissione urbanistica del Consiglio, prevede che per ogni coltura ci
sia un'estensione differenziata.

È una soluzione che va bene, oppure
no agli agronomi? Nei giorni scorsi Giuseppe Pulina, coordinatore del
gruppo che ha studiato il caso, s'è detto molto favorevole al
cambiamento. «Finalmente - sono state le sue parole in commissione -
si discute di campagna come parte del consorzio civile ed è un fatto
storico». Per quanto riguarda la nuova definizione di "superficie
minima" (che prenderà il posto di "lotto minimo") Pulina ha sostenuto:
«È indispensabile che qualunque tabella su quello che potrebbe essere
o meno costruito sia agganciata ad alcuni parametri europei come, ad
esempio, la capacità del fondo di produrre reddito, i lavoratori
agricoli previsti e le colture prescelte».

L'ipotesi al centro del
confronto fra i commissari prevede, nel dettaglio, che sia proprio il
tipo di coltura a fare la differenza. In particolare, la superficie
minima dovrebbe essere di un ettaro per i vivai di fiori e gli
ortaggi, comprese quelli in serra. Per poi salire a tre ettari per i
vigneti, le piante aromatiche, gli agrumeti e i frutteti coltivati
sempre nelle serre. La terza fascia, che prevede una superficie minima
di tre ettari, comprende invece gli oliveti per olive da olio o da
tavola, la coltivazione della barbabietola da zucchero e di altre
piante industriale. Dovrebbe essere invece fra 15 e 30 ettari per
segale, orzo, colza, soia riso, frumento, girasole e avena.

La nuova
legge prevede anche una tabella molto precisa per gli allevamenti ed
eccola. Potranno costruire la casa gli apicoltori se saranno
proprietari di almeno un ettaro, mentre dovrà essere di almeno tre per
le aziende che allevano suini e conigli. Infine, la superficie minima
dovrebbe salire a cinque ettari nel caso di cavalli, bovini, pecore e
capre. Stando a quanto emerso finora per costruire in campagna
dovranno essere rispettate altre due regole. La prima: il proprietario
dovrà essere comunque un coltivatore diretto seppure «non è
l'agricoltura la sua fonte principale di reddito». La seconda: il
terreno dovrà essere sempre produttivo, per evitare - com'è accaduto
in passato - l'assalto dei falsi agricoltori.

CAGLIARIIl nuovo dossier
Sardegna da consegnare al neonato governo gialloverde è quasi pronto.
Francesco Pigliaru, in questi giorni, l'ha riassunto più volte, ora
dovrà prendere carta e penna per mettere nero su bianco quello che «ci
aspettiamo dal premier Giuseppe Conte e dai suoi ministri». Chissà se
l'edizione 2.0 sarà uguale o molto diverso da quella consegnato tre
anni fa, all'aeroporto di Olbia, a Matteo Renzi prima e qualche tempo
dopo a Paolo Gentiloni? Le tredici pagine di allora saranno arricchite
per dimostrare ancora meglio qual è il costo pagato ogni anno dalla
Sardegna (è di oltre un miliardo) per non avere le stesse opportunità
garantite alle altre Regioni?

Nel frattempo, come sostiene da sempre
il governatore, c'è stata la firma del Patto per la Sardegna, nel 2016
a Sassari, e quei 2 miliardi e 650 milioni andranno soprattutto difesi
dalle sempre possibili sforbiciate decise in corsa dai nuovi inquilini
di Palazzo Chigi. A proposito: quanto sarà importante se non decisiva
la presenza di un ministro sardo dopo dieci anni di vuoto? «Paolo
Savona - ha sottolineato Pigliaru - è un profondo conoscitore della
realtà sarda. In passato ha presentato varie proposte per il rilancio
dell'isola, alcune condivisibili e altre meno, ma di certo è una
personalità competente, stimata e che conosce molto bene la regione.

Sono certo: capirà al volo il perché delle soluzioni che noi
proponiamo». Non va neanche dimenticato che Savona ha la delega per
gli affari europei e oggi i rapporti fra la Sardegna e Bruxelles sono
al minimo storico soprattutto sulla continuità territoriale aerea.
Dunque, alla fine, il sostegno di Savona potrebbe essere determinante,
per far cadere le ultime resistenze.Le priorità. Di fatto sono sempre
le stesse: continuità territoriale, costo dell'energia e
accantonamenti, cioè i milioni, sono quasi 700 ma dovrebbero essere
oltre 800 che lo Stato ogni anno non trasferisce alla Sardegna per
provare a mettere una pezza all'enorme debito pubblico nazionale.

«Sono tre partite importantissime e faranno di sicuro parte del
secondo dossier - ha annunciato Pigliaru - Su alcune, si sa, abbiamo
cominciato a lavorare con i precedenti governi e siamo riusciti a
portare a casa le soluzioni che ci aspettavamo. Su altre invece c'è
ancora molto da fare».Continuità territoriale. «C'è una discussione
aperta - ha ricordato Pigliaru - con la Commissione europea sul
diritto alla mobilità dei sardi. Oggi le regole di Bruxelles non
garantiscano quel diritto fondamentale».

Per poi fare un passo
indietro e due in avanti: «A Renzi e Gentiloni avevamo chiesto di
accompagnarci in Europa, l'impegno lo avevano preso, ma manca ancora
l'atto formale con cui l'Italia chiede all'Europa di riconoscere alla
Sardegna lo status di regione ultraperiferica e quindi poter
utilizzare, con minori vincoli, i soldi che abbiamo a disposizione per
i trasporti».

La stessa richiesta, essere accompagnati e sostenuti a
Bruxelles, sarà presentata al nuovo premier. «Vedo - ha aggiunto
Pigliaru - che il governo in carica ha voglia di contrastare con forza
le regole europee che non condivide. Bene, gli segnaliamo subito
quella che riguarda i sardi e ci aspettiamo che sia al nostro fianco
in questa battaglia per noi decisiva». Lo è fino a tal punto che il
bando è ancora bloccato a Bruxelles.Costo dell'energia. «Noi - ha
sottolineato il governatore - abbiamo fatto una grande scommessa sul
metano con i due precedenti premier. Perché da sempre pensiamo che sia
proprio il metano l'energia per far diminuire rapidamente i costi e
metterci in condizioni di parità rispetto agli altri cittadini».

Bene, «ora vediamo quali saranno le idee del governo Conte anche su questo
punto. Non vorremmo che ci fossero passi indietro». Potrebbero però
esserci: più volte i Cinque stelle hanno detto di essere perplessi sul
piano energetico della Regione e sulla metanizzazione in particolare.
Dunque, la trattativa non sarà facile.Accantonamenti. «Non possiamo
certo dire di aver vinto su questo fronte - ha ammesso Pigliaru -
Abbiamo alzato i toni, non è bastato. Continueremo a farlo, perché le
regole con cui Roma ha definito l'ammontare del prelievo sono ancora
oscure e questo non va bene».

Quindi, se «con il ministro Padoan è
andata decisamente male, vedremo cosa accadrà con Tria». Qualche
numero è utile per ricordare quanto sia importante la partita. Ogni
anno lo Stato nega alla Sardegna 840 milioni di trasferimenti che le
spetterebbero in base all'accordo sull'Irpef. Poi in realtà si fermano
a 700 milioni dopo una sentenza della Corte costituzionale, comunque
troppi. Al governo Gentiloni la Regione aveva chiesto che quel
versamento imposto fosse dimezzato, o almeno reso molto meno pesante.
Al premier gialloverde sarà sollecitato di fare altrettanto. (ua)

Unione Sarda


Oggi Conte al Senato per la fiducia
Domani si esprimerà la Camera, dove la maggioranza è ben più robusta
Margine di soli sei voti per i gialloverdi, ma arrivano già i rinforzi

ROMA L'ultimo tratto di strada verso il potere pieno per Giuseppe
Conte comincia oggi alle 19,30 in Senato. Domani alle 17,30 sarà la
Camera a votare la fiducia, ma a quel punto il passaggio più delicato
sarà già alle spalle.

A Palazzo Madama il governo può contare su 167 voti certi, 6 in più
rispetto alla maggioranza assoluta: la Lega ha 58 senatori, il M5S
109. A votare la fiducia però saranno almeno altri 4 senatori, che
farebbero così salire la maggioranza a quota 171: Maurizio Buccarella
e Carlo Martelli, senatori ex M5S, e Ricardo Antonio Merlo e Adriano
Cario, gruppo Maie, eletti all'estero.

È possibile infine che il
gruppo delle Autonomie alzi la quota di maggioranza sino a 174-175 sì.
Durante le consultazioni, il gruppo non aveva chiuso al premier. Al
Senato il gruppo di Fratelli d'Italia, che conta 18 senatori, si
asterrà. I voti contrari, di conseguenza, dovrebbero essere 61 da
Forza Italia e 52 dal Pd più alcuni componenti del Misto, come Emma
Bonino.

Alla Camera, invece, l'esecutivo giallo-verde ha una maggioranza di
346 voti (222 M5S e 124 leghisti), con 30 voti di scarto rispetto alla
maggioranza di 316. Anche qui i consensi potrebbero aumentare, sempre
grazie ad alcuni ex M5S e a componenti del gruppo Misto. FdI - come al
Senato - dovrebbe astenersi. All'opposizione, ancora una volta, ci
saranno Forza Italia, Pd e LeU. Oggi dunque appuntamento alle 12, ora
in cui il premier farà le sue dichiarazioni programmatiche al Senato.
Alle 13.30 è previsto che si sposti alla Camera per depositare il suo
intervento. A partire dalle 14.30 si terrà il dibattito, mentre è
previsto che il voto di fiducia arrivi entro le 20.

«Flat Tax alle famiglie?BSì, ma tra due anni» E nel governo si litiga

ROMA Nemmeno il tempo di insediarsi nei ministeri e già nel governo
Conte parte la prima polemica.
A innescarla sono le dichiarazioni del leghista Alberto Bagnai, in
lizza per il ruolo di sottosegretario all'Economia: «Mi sembra che ci
sia un accordo sul fatto di far partire la Flat tax sui redditi di
impresa a partire dall'anno prossimo - dice - Il primo anno per le
imprese e poi a partire dal secondo anno si prevede di applicarla alle
famiglie».

LA SMENTITA Dunque secondo Bagnai per la “tassa unica” le famiglie
dovrebbero aspettare il 2020. Un'ipotesi ben diversa da quella
sbandierata in campagna elettorale. Tanto che a stoppare il
sottosegretario in pectore arriva direttamente l'ideologo della flat
tax, Armando Siri, anche lui senatore del Carroccio. «Allo stato
attuale - spiega ad Affaritaliani.it - posso dire che non è vero dal
prossimo anno la Flat Tax entrerà in vigore solo per le imprese, ma
che ci sarà anche per le famiglie.

Poi tutto sarà a regime per il
2020. Si deve partire con degli step», ha spiegato assicurando che
«per le famiglie cominceremo già dal 2019 con dei parametri che
andranno a perfezionarsi nel 2020 fino a completarla».

«BASTA PROPAGANDA» Immediate le critiche dagli oppositori, a partire
dal segretario reggente Pd Maurizio Martina: «Continua la presa in
giro degli italiani da parte di Lega e M5S. Sulle imprese fanno finta
di non sapere che abbiamo già fatto noi: Ires (dal 27,5 al 24%) e Iri
(al 24% per le Pmi). Basta propaganda».

All'attacco anche una parte di
Forza Italia, con Renato Brunetta che accusa: «Le dichiarazioni di
Bagnai sulla flat tax sono chiacchiere che già disattendono il loro
contratto e il programma del centrodestra. Stanno già suicidandosi».
Renato Schifani parla di «falsa e finta partenza della maggioranza
pentaleghista» e «per quanto ci riguarda saremmo favorevoli a questa
riforma» ma «sarebbe interessante capire attraverso quali fondi
sarebbe finanziato questo nuovo taglio». Infine: «Per le famiglie di
flat tax non se ne farà nulla e come Forza Italia siamo decisamente
critici, di certo non è un bell'inizio per questo governo e per Forza
Italia un'ulteriore ragione per votare no alla fiducia».

IL PROBLEMA IVA A fare i conti sulla flat tax, che in realtà è
diventata una dual tax con due aliquote, una al 15% per le famiglie
fino a 80mila euro e una al 20% per quelle superiori, dovrà essere
Giovanni Tria, che ieri si è insediato al ministero dell'Economia. Ad
accoglierlo c'era il suo predecessore, Pier Carlo Padoan, che gli ha
illustrato i diversi dossier su cui sono impegnate le strutture del
ministero.

Il nodo più delicato è quello relativo alle clausole di salvaguardia
dell'Iva che, se non disinnescate - e per farlo servono circa 12,5
miliardi nel 2019 e 19,1 miliardi nel 2020 - faranno aumentare le
aliquote già dal prossimo anno. Bisognerà vedere quali saranno le
scelte di politica economica del ministro Tria. Lo scorso 14 maggio in
un articolo su Formiche sottolineava che «non si vede perché non si
debba far scattare le clausole di salvaguardia per finanziare parte
consistente dell'operazione» flat tax.

Viceministri Lega-M5S, controlli incrociati

Chiusa la lista dei ministri, ora si apre la seconda trattativa per i
posti di sottogoverno. Lo schema che il Cinquestelle propone alla Lega
è di nominare sottosegretari di garanzia. Per essere chiari: se
all'Interno c'è Matteo Salvini, allora i sottosegretari siano del M5S.
Allo stesso modo, Luigi Di Maio ha scelto per sé un super-dicastero,
che accorpa circa cinque deleghe di peso (Sviluppo economico, lavoro e
politiche sociali, che accorpano anche energia e telecomunicazioni),
dunque il bilanciamento deve essere a favore del Carroccio.

Da via Bellerio non è arrivato un nullaosta formale al metodo, ma non
sembrano esserci nemmeno grosse obiezioni. Le uniche eccezioni
riguardano i ministeri 'tecnici', come il Mef e la Farnesina, dove ci
dovrebbe essere un sostanziale equilibrio tra le due forze politiche
che sorreggono la maggioranza. L'ipotesi è che all'Economia sbarchino
Alberto Bagnai per la Lega e Laura Castelli per il Movimento 5 Stelle
mentre agli Esteri potrebbero essere nominati Nicola Molteni ed Emilio
Carelli.

Al Mise, invece, sembra in pole position Alberto Siri, così
come Vincenzo Spadafora potrebbe finire al Viminale. Nella partita dei
sottosegretari l'l M5S ha un problema in più: riequilibrare le nomine
tra deputati e senatori, finora a vantaggio dei primi. Proprio per
questo appare probabile l'approdo di Sergio Puglia al ministero del
Lavoro. In quota Lega, infine, restano forti le candidature di Stefano
Candiani per le Politiche agricole e forestali, mentre Barbara
Saltamartini potrebbe andare al ministero dei Beni culturali o al
Miur.


Dissidenti, dem, civici e M5S Corsa a cinque in Municipio

Mariella Careddu
INVIATA
ASSEMINI Hanno ridotto i ranghi: rispetto all'ultima consultazione
elettorale, Assemini è passata da 11 a 5 candidati a sindaco. Ma
nonostante questo, più o meno tutti hanno un amico o un parente -
vicino o lontano - in corsa alle Comunali. Fattore per nulla
trascurabile, perché molti nel segreto dell'urna potrebbero scegliere
di favorire le relazioni personali alle convinzioni politiche rendendo
difficile fare previsioni in base ai dati del 4 marzo scorso quando il
48 per cento ha votato per mandare i grillini al governo.

 Sono 216 i
candidati per uno dei 24 posti in Consiglio ai quali si aggiungono gli
aspiranti sindaci. Dunque, i giochi sono talmente aperti che l'unica
cosa fin qui certa è che la poltrona rossa del Municipio dall'11
giugno non sarà più di Mario Puddu, uomo forte del Movimento 5 Stelle
in Sardegna e prossimo candidato alle Regionali.

CENTRODESTRA In corsa per la sua successione sono in cinque. Antonio
Scano è leader di una coalizione trasversale che va dai civici ai
salviniani con 120 sostenitori incasellati in cinque liste: Fratelli
d'Italia, Riformatori, Lega e Psd'Az, Forza Italia e Proposta civica
Assemini. L'obiettivo dichiarato dal capofila, 48 anni e un doppio
lavoro come consulente e imprenditore della ristorazione, è
trasformare Assemini in un centro di riferimento per l'assistenza agli
anziani e ai disabili oltre al rilancio dei grandi eventi. A questa
squadra appartiene il più giovane candidato dell'intera tornata
elettorale: Emanuele Siddu compirà vent'anni il 30 dicembre.

PROGRESSISTI Nel polo opposto c'è Salvatore Marras, classe 1939,
l'aspirante consigliere più vecchio che sostiene il candidato
Francesco Consalvo, ingegnere di 42 anni ed ex segretario del Pd,
leader della lista dell'ultima ora Democratici progressisti per
Assemini: una civica che riunisce - tra gli altri - i dissidenti dem e
i componenti di Campo progressista. Nell'elenco delle priorità c'è la
necessità di dotare il Comune di un sistema di trasporto pubblico che
riduca il traffico, l'assegnazione dell'appalto per la raccolta dei
rifiuti (giunto all'ottava proroga) e la riorganizzazione della
viabilità, piste ciclabili comprese.

LISTA PD Candidato ufficiale del Partito democratico è Francesco
Lecis, che nonostante i 52 anni è un veterano della politica locale.
Lo si può trovare nel punto vendita di via Sardegna dove gestisce
parte delle sue attività da imprenditore. Attento alle necessità del
mondo dell'edilizia e dei servizi al cittadino vorrebbe sbloccare
subito il Puc, che è stato approvato ma per il quale non sono state
adottate le linee programmatiche che ne consentano l'applicazione.

E poi, ispirandosi alla vicina Sestu che ha risposto ai bisogni
commerciali del territorio, pensa che Assemini potrebbe colmare il
vuoto lasciato in altri settori, a cominciare dal sociale.
L'EX GRILLINA Dopo la rottura con il sindaco e l'espulsione dal
Movimento, Irene Piras, 51 anni dietista, ha ricominciato dall'Aula.
Qui ha stretto nuovi legami con componenti del centrosinistra ed ex
Sel che ora la sostengono nella corsa elettorale. Anche lei mette al
primo posto il problema dei rifiuti reso difficile da un bando che non
riesce a vedere la luce. E poi c'è la questione della sicurezza
stradale e delle piste ciclabili che lei vorrebbe non cancellare, ma
ridisegnare.

L'EREDE È invece nel segno della continuità l'impegno di Sabrina
Licheri, 47 anni, presidente del Consiglio comunale, candidata del
Movimento 5 Stelle. La consulente del lavoro intende proseguire le
opere avviate in questi cinque anni: tra strade da asfaltare,
sportelli di consulenza per facilitare l'accesso dei cittadini ai
bandi europei e rivendica l'attività a favore dell'edilizia con
l'approvazione del Puc che non esita a definire “storica”.

LA CITTÀ A fare due passi per strada, sembra che Assemini abbia più
auto di quante ne servirebbero ai suoi 27mila abitanti. Il traffico è
intenso e ogni spazio sembra buono per ricavare un parcheggio: strisce
pedonali e passi carrabili compresi. Delusa dall'industria e dalla
pesca e archiviati i tempi d'oro delle discoteche (al posto di quelle
più famose ora ci sono due supermercati), la città spera di risalire
la china con l'artigianato e il turismo. L'aeroporto dista solo dieci
chilometri ma per ora più che portare turisti è servito a chi negli
ultimi anni ha preso un volo per cercare fortuna altrove.

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Federico Marini
skype: federico1970ca


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