La
Nuova
Viaggio
nel pianeta Pd poche idee e niente leader. A tre mesi dalla débacle alle
politiche tra i democratici sardi regna ancora il caos. Le dimissioni congelate
del segretario, duelli tra big e correnti sempre lontane, di Alessandro Pirina
Lo stallo in cui è imbrigliato il Pd
sardo è tutto in una immagine. Un frame dell'ultima assemblea di Abbasanta. Da
una parte Soru, a distanza ravvicinata Ganau. Uno scontro plateale tra due
leader, due correnti, due visioni di governo, di futuro, di Sardegna. Un
partito che non riesce a fare sintesi e a guardare avanti neanche dopo la batosta
elettorale. Per il Pd il 4 marzo è stata una disfatta senza eguali. Il partito
si è liquefatto ovunque, soprattutto in quelle che un tempo erano le sue
roccaforti. I collegi sicuri in cui l'accettazione della candidatura equivaleva
all'elezione.
E invece il Nuorese, l'Ogliastra, il
Sulcis, la stessa Sassari non solo hanno premiato i 5 stelle, ma hanno relegato
la sinistra al terzo posto dietro un centrodestra lontano dai vecchi fasti
berlusconiani. Un tracollo che neanche gli analisti più pessimisti avevano
messo in conto. Da allora sono passati tre mesi. 90 lunghi giorni in cui,
seppur non senza difficoltà, l'Italia è riuscita a darsi un governo. Lega e 5
stelle sono stati più veloci del Pd sardo, che non ha ancora fatto i conti con
il disastro elettorale del 4 marzo.
Il caos. Dimissioni congelate,
direzioni, assemblee, autoconvocazioni, autocandidature, rinvii, fino allo
scontro feroce tra l'ex governatore e il presidente del Consiglio regionale.
Insomma, il Pd sardo è fermo a prima del 4 marzo. Ancorato a una situazione che
è stata spazzata via dagli elettori. Prigioniero
delle sue correnti che, stando agli ultimi risultati elettorali, rischiano di
trasformarsi in fan club del singolo leader di riferimento. In Sardegna il Pd
ha fin dalla sua nascita una geografia diversa rispetto al resto d'Italia.
Perché se a livello nazionale i dem sardi si sono schierati in massa col leader
del momento - prima Veltroni poi Bersani, infine Renzi -, a livello locale il
partito si è sempre presentato diviso, litigioso, autore di guerre e paci
interne che hanno prima spiazzato gli elettori e poi li hanno fatti scappare.
Solo ko. Basta pensare a come sono
andate le vicende di questi anni. Gli ultimi successi elettorali del Pd, e del centrosinistra
nel suo insieme, risalgono al 2014. Prima l'affermazione di Pigliaru alla
Regione, favorito anche dall'assenza del M5s dalla corsa elettorale, poi la
vittoria travolgente di Nicola Sanna alle comunali di Sassari negli stessi
giorni del 40 per cento di Renzi alle Europee.
Da quel momento in poi il Pd sardo è
riuscito a collezionare solo sconfitte. Non solo sono ritornate a casa città
che la sinistra era riuscita a strappare alla destra, come Olbia, Tempio e Oristano,
ma a crollare sono state soprattutto roccaforti rosse come Nuoro, Porto Torres
e Carbonia. Ha fatto eccezione solo
Cagliari, dove il fattore Zedda - che va ricordato non è un dem - ha fatto
forse la differenza. E in questo scenario non si può dimenticare il referendum
del 4 dicembre. A favore della riforma Renzi-Boschi c'era tutto lo stato
maggiore del Pd, ma il Sì è stato asfaltato dal No col 72,22 dei voti, la
percentuale più alta d'Italia.
Alleanze forzate. I campanelli d'allarme,
insomma, erano tanti. La sconfitta alle politiche era nell'aria. Ma
ciononostante il Pd non se n'è curato. Ha pensato più all'autoconservazione dei
suoi leader che a quella dei suoi elettori. Pochi mesi dopo il referendum
nell'isola si sono svolte le primarie. A livello nazionale si scontravano Renzi
e Orlando, due linee diverse sulla guida del Pd. In Sardegna invece si
registrava l'ennesima operazione collage, con pezzi di partito accasati con
quelli che erano gli avversari fino al giorno prima. Era già accaduto nel 2014
con Soru vittorioso, sostenuto da Cabras, l'eterno rivale dal 2007.
Tre anni dopo le alleanze si sono
capovolte: i soriani da soli contro la corazzata formata da area Cabras Fadda,
renziani ed ex Ds. Giuseppe Luigi Cucca ha vinto senza problemi, ma anche la
sua elezione si è rivelata la solita alleanza "contro" più che una
alleanza "per".
Il crollo. La prova del 9 si è vista
nella compilazione delle liste per le politiche. Una spartizione di posti
sicuri tra correnti che ha indebolito ulteriormente il già debole Pd. In 10
anni, dalle politiche del 2008 a quelle di quest'anno, in Sardegna i dem sono
passati da 354mila voti a 128mila. Un crollo pari a 226mila voti. Una debacle
che però non ha prodotto nessuna scossa. Le tre correnti continuano a camminare
su tre strade parallele che portano ognuna a un approdo diverso.
Il segretario Cucca, renziano, è
pronto a lasciare ma chiede un Caronte superpartes, Soru pretende primarie
immediate e l'ex senatore Lai, area Cabras Fadda, propone un referendum che
renda autonomo il Pd sardo da Roma. Idee non per forza inconciliabili, ma le tre
correnti da tre mesi non riescono a fare sintesi, a trovare un accordo che
faccia ripartire la macchina. E nel frattempo la quarta corrente, quella
maggioritaria degli elettori, è emigrata verso altri lidi
Macomer,
il sindaco Succu: massimo 100 posti. Deiana, Anci: potere ai Comuni
Migranti,
appello a Salvini «Sì al Cpr, no ai lager»
di Silvia Sanna
SASSARILo attendono alla prova dei
fatti, dopo i tanti slogan urlati
in campagna elettorale. Il ministro
dell'Interno Matteo Salvini dovrà
gestire la realtà di un fenomeno
radicato anche in Sardegna. Isola che
negli anni si è conquistata il
titolo di terra dell'accoglienza: 4166
al momento i migranti ospitati nelle
strutture, la maggior parte nei
Centri della prefettura e una quota
minore - ma in crescita - inserita
nei bandi Sprar. Isola che è pronta
ad affrontare anche un secondo
passaggio da tutti definito
cruciale: l'apertura del Cpr - Centro
permanente per i rimpatri - a
Macomer, destinato a ospitare per brevi
periodi i clandestini (in
particolare gli algerini) da rispedire a
casa.
Proprio sulla necessità dei Cpr-
almeno 1 in ogni regione - il
leghista Salvini viaggia sulla
stessa lunghezza d'onda del
predecessore Minniti: li considera
indispensabili per aumentare e
velocizzare le espulsioni degli
irregolari. Proprio per questo motivo
l'incertezza principale è legata ai
numeri: Salvini manterrà gli
accordi sull'unica struttura o
punterà al rialzo? E poi: il numero
degli ospiti a Macomer resterà
quello stabilito (100) o crescerà? Su
questo punto il sindaco Antonio
Succu fa le barricate: «Abbiamo detto
100, non uno di più.
Non vogliamo che il Cpr diventi un
lager».
D'accordo il presidente dell'Anci
Emiliano Deiana: «L'esperienza ci
insegna che i grandi assembramenti
generano insicurezza e paure.
Evitarli è altamente
consigliato».Gli accordi sul Cpr. Il piano
Minniti prevede l'apertura del Cpr
regionale a Macomer nella struttura
che ospitava il carcere. Nel patto
Ministero-Regione-Comune ci sono
diverse clausole: potenziamento
delle forze dell'ordine, con presìdi
fissi all'interno e intorno alla
struttura, gli ospiti-clandestini
arrivano scortati e vanno via solo
per essere rimpatriati.
Nessuna uscita, nessun contatto con
la popolazione per i 100 ospiti: questo il
numero massimo stabilito. Dice il
sindaco di Macomer Antonio Succu:
«Sono convinto che il Cpr sia
indispensabile, non uno ma forse anche
due. Questo tipo di strutture
rappresenta l'unico deterrente per
frenare gli sbarchi di clandestini
che non hanno diritto allo status
di rifugiato. Nel caso della
Sardegna si tratta prevalentemente di
algerini che sbarcano sulle coste
del Sulcis. L'accordo è chiaro, noi
siamo pronti e la Regione anche.
C'è un patto da rispettare a
prescindere dal ministro che l'ha
firmato, non è possibile
modificarlo. Se il ministro Salvini
chiedesse di aumentare il numero
di posti ci opporremo: il Cpr non
può diventare un lager, il rispetto
della dignità umana non può mai
venire meno. Anche il precedente
carcere - sottolinea il sindaco
Succu - ospitava al massimo 120
detenuti perché un numero superiore
avrebbe generato una situazione
invivibile.
E noi questo non lo vogliamo
assolutamente». Centri
d'accoglienza. Da sempre contrario
ai grandi centri e promotore
dell'accoglienza diffusa «che
allontana la paura e favorisce
l'integrazione». Il presidente
dell'Anci Emiliano Deiana attende le
prossime mosse del ministro leghista
ma nel frattempo gli suggerisce
di moderare i toni: «Chi ricopre
cariche istituzionali deve pesare le
parole su una materia delicata come
l'accoglienza, non si possono
mischiare i delinquenti con chi
scappa dalla guerra e dalla fame. Non
ha senso e non aiuta a gestire il
fenomeno». Che, aggiunge Deiana,
andrà avanti: «Gli sbarchi e gli
arrivi continueranno, perché l'Italia
e la Sardegna non possono chiudere
le porte.
Il ministro Salvini dovrà
decidere se continuare sulla strada
dei grandi centri d'accoglienza o
se accorpare la prima e la seconda
accoglienza, cioè obbligando tutti
i Comuni a fare la propria parte con
piccoli numeri per una
distribuzione più equa dell'attuale.
Questo è senza dubbio quello che
farei io. Perché - aggiunge Deiana -
è importante capire che chi
arriva non può essere espulso il
giorno dopo: è necessario fare tutte
le verifiche per stabilire se ha
diritto di restare o se deve essere
mandato via. Io penso che nella fase
di transizione queste persone
possano essere distribuite nel
territorio: impossibile mandarli nel
Cpr, significherebbe trasformare una
struttura snella - caratterizzata
dal ricambio continuo degli ospiti -
in una galera a tutti gli
effetti».
Molto meglio, secondo il presidente
dell'Anci rivedere il
regolamento di Dublino: le
operazioni di riconoscimento dello status
di rifugiato non debbono accadere
tutte nel paese di sbarco, cioè
l'Italia, ma vanno distribuite tra i
vari Paesi. Un esempio: se in
Italia arrivano 1000 migranti e si
sa già che ne dovranno rimanere
100, allora gli altri 900 siano
accompagnati subito nelle rispettive
destinazioni.
Quando
scatta la dual tax? Leghisti divisi sui tempi
Per
Bagnai ora si comincerà dalle imprese e nel 2020 toccherà alle famiglie
Ma Siri è
di altro avviso: «Il fisco più leggero deve partire per
tutti da
subito»
ROMANiente taglio delle tasse per le
famiglie nel 2019. O forse sì. In
un botta e risposta tutto interno
alla Lega, i contorni della «dual
tax» (le aliquote nel contratto sono
due e non una come presupporrebbe
il termine flat tax) sembrano sempre
meno definiti. Secondo Alberto
Bagnai, parlamentare leghista,
finora da molti identificato come
possibile prossimo sottosegretario
al ministero dell'Economia, le
prime ad usufruire dei tagli saranno
le imprese, seguite l'anno
successivo dalle famiglie.
Non così per Armando Siri, leghista
anche
lui, padrino della flat tax,
convinto che dall'anno prossimo il peso
del fisco comincerà ad essere più
leggero per tutti, famiglie e
imprese, con la riforma che arriverà
a regime nel 2020. Il tema scalda
comunque il dibattito politico e in
particolare il Pd che
dall'opposizione risponde con un
fuoco di fila che rivendica di aver
già attuato una flat tax sulle
imprese con l'Ires e l'Iri al 24% ma
che ironizza anche sul «rinvio per
le famiglie». Il primo a parlare è
il segretario reggente Maurizio
Martina, ma poi intervengono in molti
dagli ex ministri Boschi e Minniti
al capogruppo Ettore Rosato.
La tempistica è certo un punto
dirimente, non solo a livello politico, ma
anche finanziario, visto che le
coperture necessarie per il taglio
dell'Ires (e dell'Iri sulle Pmi) sono
nettamente inferiori a quelle da
recuperare per il taglio dell'Irpef.
Bagnai ha parlato di «accordo»
fatto sull'intervento in due tempi,
con l'idea di «far partire la flat
tax sui redditi di impresa dall'anno
prossimo» e quella sulle famiglie
«dal secondo anno». Parole che hanno
scatenato l'immediata levata di
scudi del Pd, pronto a rivendicare
come le tasse sulle imprese siano
state già tagliate nella scorsa
legislatura e portate tutte proprio ad
unico livello, il 24%. Ma
evidentemente anche di esponenti della
maggioranza.
La precisazione è stata affidata
proprio a Siri, secondo
cui la partenza sarà simultanea sia
per le famiglie che per le
imprese. «Si deve partire con degli
step: il sistema è diverso perché
la flat tax per le imprese c'è già -
ha chiarito, accogliendo in parte
le critiche del Pd - noi la
estendiamo anche a società di persone,
partite Iva etc». L'obiettivo è
quello di trasferire «a 5 milioni di
operatori quello che oggi è solo per
800 mila imprese». Guardando le
carte, il contratto non fa parola
della scansione temporale
dell'intervento fiscale.
Di fronte alla polemica nata nelle
scorse
settimane con Carlo Cottarelli sulla
difficoltà di gestire
finanziariamente il programma
condiviso dalle due forze di
maggioranza, i pentastellati avevano
però chiarito che le misure
sarebbero state attuate nell'arco
della legislatura, non tutte subito.
In ogni caso, stando alle
dichiarazioni di Bagnai, la platea dei
destinatari della dual tax si
abbatterebbe di colpo, così come il
costo. Finora per il taglio
dell'Ires dal 27,5% al 24% deciso dal
governo Renzi sono stati necessari
circa 3 miliardi. La nascita
dell'Iri, sempre al 24%, per le Pmi
ha comportato coperture per altri
2 miliardi. Un eventuale primo
passaggio dal 24% attuale al 20% non
potrebbe quindi costare, a spanne,
meno di 5 miliardi. Ed anche
inserendo la seconda aliquota più
bassa, quella al 15%, non ci si
avvicinerebbe nemmeno ai 50 miliardi
calcolati finora considerando il
taglio dell'Irpef. Non così se si
intervenisse per tutti già nel 2019.
Bagnai ha intanto rettificato anche
il pensiero del nuovo ministro
dell'Economia, Giovanni Tria, che in
un recente articolo non aveva
escluso la possibilità di far
aumentare l'Iva, spostando il peso dalla
imposte dirette a quelle indirette.
Per la Lega, «l'aumento dell'Iva è
assolutamente fuori discussione», ha
ribadito, puntualizzando che
l'articolo venne scritto da Tria
«prima di entrare a far parte della
squadra di governo».
Continuità,
costo dell'energia e accantonamenti in cima alla lista
delle priorità
Il governatore: «Savona conosce bene la regione, capirà le nostre richieste» Pigliaru:
pronto il dossier da presentare a Conte
CAGLIARI
Nella legge sull'urbanistica, si sa,
c'è anche un articolo destinato a
dettare le regole per chi vuole
costruire una casa in campagna.
Finora, secondo il Piano
paesaggistico regionale del 2006, era
necessario essere proprietari di
almeno 3 ettari, tetto conosciuto
come quello del «lotto minimo». Non
sarà o almeno non dovrebbe essere
più cosi: la bozza della nuova legge,
è in discussione nell'aula della
commissione urbanistica del
Consiglio, prevede che per ogni coltura ci
sia un'estensione differenziata.
È una soluzione che va bene, oppure
no agli agronomi? Nei giorni scorsi
Giuseppe Pulina, coordinatore del
gruppo che ha studiato il caso, s'è
detto molto favorevole al
cambiamento. «Finalmente - sono
state le sue parole in commissione -
si discute di campagna come parte
del consorzio civile ed è un fatto
storico». Per quanto riguarda la
nuova definizione di "superficie
minima" (che prenderà il posto
di "lotto minimo") Pulina ha sostenuto:
«È indispensabile che qualunque
tabella su quello che potrebbe essere
o meno costruito sia agganciata ad
alcuni parametri europei come, ad
esempio, la capacità del fondo di
produrre reddito, i lavoratori
agricoli previsti e le colture
prescelte».
L'ipotesi al centro del
confronto fra i commissari prevede,
nel dettaglio, che sia proprio il
tipo di coltura a fare la
differenza. In particolare, la superficie
minima dovrebbe essere di un ettaro
per i vivai di fiori e gli
ortaggi, comprese quelli in serra.
Per poi salire a tre ettari per i
vigneti, le piante aromatiche, gli
agrumeti e i frutteti coltivati
sempre nelle serre. La terza fascia,
che prevede una superficie minima
di tre ettari, comprende invece gli
oliveti per olive da olio o da
tavola, la coltivazione della
barbabietola da zucchero e di altre
piante industriale. Dovrebbe essere
invece fra 15 e 30 ettari per
segale, orzo, colza, soia riso,
frumento, girasole e avena.
La nuova
legge prevede anche una tabella
molto precisa per gli allevamenti ed
eccola. Potranno costruire la casa
gli apicoltori se saranno
proprietari di almeno un ettaro,
mentre dovrà essere di almeno tre per
le aziende che allevano suini e
conigli. Infine, la superficie minima
dovrebbe salire a cinque ettari nel
caso di cavalli, bovini, pecore e
capre. Stando a quanto emerso finora
per costruire in campagna
dovranno essere rispettate altre due
regole. La prima: il proprietario
dovrà essere comunque un coltivatore
diretto seppure «non è
l'agricoltura la sua fonte
principale di reddito». La seconda: il
terreno dovrà essere sempre
produttivo, per evitare - com'è accaduto
in passato - l'assalto dei falsi
agricoltori.
CAGLIARIIl nuovo dossier
Sardegna da consegnare al neonato
governo gialloverde è quasi pronto.
Francesco Pigliaru, in questi
giorni, l'ha riassunto più volte, ora
dovrà prendere carta e penna per
mettere nero su bianco quello che «ci
aspettiamo dal premier Giuseppe
Conte e dai suoi ministri». Chissà se
l'edizione 2.0 sarà uguale o molto
diverso da quella consegnato tre
anni fa, all'aeroporto di Olbia, a
Matteo Renzi prima e qualche tempo
dopo a Paolo Gentiloni? Le tredici
pagine di allora saranno arricchite
per dimostrare ancora meglio qual è
il costo pagato ogni anno dalla
Sardegna (è di oltre un miliardo)
per non avere le stesse opportunità
garantite alle altre Regioni?
Nel frattempo, come sostiene da
sempre
il governatore, c'è stata la firma
del Patto per la Sardegna, nel 2016
a Sassari, e quei 2 miliardi e 650 milioni
andranno soprattutto difesi
dalle sempre possibili sforbiciate
decise in corsa dai nuovi inquilini
di Palazzo Chigi. A proposito:
quanto sarà importante se non decisiva
la presenza di un ministro sardo
dopo dieci anni di vuoto? «Paolo
Savona - ha sottolineato Pigliaru -
è un profondo conoscitore della
realtà sarda. In passato ha
presentato varie proposte per il rilancio
dell'isola, alcune condivisibili e
altre meno, ma di certo è una
personalità competente, stimata e
che conosce molto bene la regione.
Sono certo: capirà al volo il perché
delle soluzioni che noi
proponiamo». Non va neanche
dimenticato che Savona ha la delega per
gli affari europei e oggi i rapporti
fra la Sardegna e Bruxelles sono
al minimo storico soprattutto sulla
continuità territoriale aerea.
Dunque, alla fine, il sostegno di
Savona potrebbe essere determinante,
per far cadere le ultime
resistenze.Le priorità. Di fatto sono sempre
le stesse: continuità territoriale,
costo dell'energia e
accantonamenti, cioè i milioni, sono
quasi 700 ma dovrebbero essere
oltre 800 che lo Stato ogni anno non
trasferisce alla Sardegna per
provare a mettere una pezza
all'enorme debito pubblico nazionale.
«Sono tre partite importantissime e
faranno di sicuro parte del
secondo dossier - ha annunciato Pigliaru
- Su alcune, si sa, abbiamo
cominciato a lavorare con i
precedenti governi e siamo riusciti a
portare a casa le soluzioni che ci
aspettavamo. Su altre invece c'è
ancora molto da fare».Continuità
territoriale. «C'è una discussione
aperta - ha ricordato Pigliaru - con
la Commissione europea sul
diritto alla mobilità dei sardi.
Oggi le regole di Bruxelles non
garantiscano quel diritto
fondamentale».
Per poi fare un passo
indietro e due in avanti: «A Renzi e
Gentiloni avevamo chiesto di
accompagnarci in Europa, l'impegno
lo avevano preso, ma manca ancora
l'atto formale con cui l'Italia
chiede all'Europa di riconoscere alla
Sardegna lo status di regione
ultraperiferica e quindi poter
utilizzare, con minori vincoli, i
soldi che abbiamo a disposizione per
i trasporti».
La stessa richiesta, essere
accompagnati e sostenuti a
Bruxelles, sarà presentata al nuovo
premier. «Vedo - ha aggiunto
Pigliaru - che il governo in carica
ha voglia di contrastare con forza
le regole europee che non condivide.
Bene, gli segnaliamo subito
quella che riguarda i sardi e ci
aspettiamo che sia al nostro fianco
in questa battaglia per noi
decisiva». Lo è fino a tal punto che il
bando è ancora bloccato a
Bruxelles.Costo dell'energia. «Noi - ha
sottolineato il governatore -
abbiamo fatto una grande scommessa sul
metano con i due precedenti premier.
Perché da sempre pensiamo che sia
proprio il metano l'energia per far
diminuire rapidamente i costi e
metterci in condizioni di parità
rispetto agli altri cittadini».
Bene, «ora vediamo quali saranno le
idee del governo Conte anche su questo
punto. Non vorremmo che ci fossero
passi indietro». Potrebbero però
esserci: più volte i Cinque stelle
hanno detto di essere perplessi sul
piano energetico della Regione e
sulla metanizzazione in particolare.
Dunque, la trattativa non sarà
facile.Accantonamenti. «Non possiamo
certo dire di aver vinto su questo
fronte - ha ammesso Pigliaru -
Abbiamo alzato i toni, non è
bastato. Continueremo a farlo, perché le
regole con cui Roma ha definito
l'ammontare del prelievo sono ancora
oscure e questo non va bene».
Quindi, se «con il ministro Padoan è
andata decisamente male, vedremo
cosa accadrà con Tria». Qualche
numero è utile per ricordare quanto
sia importante la partita. Ogni
anno lo Stato nega alla Sardegna 840
milioni di trasferimenti che le
spetterebbero in base all'accordo
sull'Irpef. Poi in realtà si fermano
a 700 milioni dopo una sentenza
della Corte costituzionale, comunque
troppi. Al governo Gentiloni la
Regione aveva chiesto che quel
versamento imposto fosse dimezzato,
o almeno reso molto meno pesante.
Al premier gialloverde sarà
sollecitato di fare altrettanto. (ua)
Unione
Sarda
Oggi
Conte al Senato per la fiducia
Domani si
esprimerà la Camera, dove la maggioranza è ben più robusta
Margine
di soli sei voti per i gialloverdi, ma arrivano già i rinforzi
ROMA L'ultimo tratto di strada verso
il potere pieno per Giuseppe
Conte comincia oggi alle 19,30 in
Senato. Domani alle 17,30 sarà la
Camera a votare la fiducia, ma a
quel punto il passaggio più delicato
sarà già alle spalle.
A Palazzo Madama il governo può
contare su 167 voti certi, 6 in più
rispetto alla maggioranza assoluta:
la Lega ha 58 senatori, il M5S
109. A votare la fiducia però
saranno almeno altri 4 senatori, che
farebbero così salire la maggioranza
a quota 171: Maurizio Buccarella
e Carlo Martelli, senatori ex M5S, e
Ricardo Antonio Merlo e Adriano
Cario, gruppo Maie, eletti
all'estero.
È possibile infine che il
gruppo delle Autonomie alzi la quota
di maggioranza sino a 174-175 sì.
Durante le consultazioni, il gruppo
non aveva chiuso al premier. Al
Senato il gruppo di Fratelli
d'Italia, che conta 18 senatori, si
asterrà. I voti contrari, di
conseguenza, dovrebbero essere 61 da
Forza Italia e 52 dal Pd più alcuni
componenti del Misto, come Emma
Bonino.
Alla Camera, invece, l'esecutivo
giallo-verde ha una maggioranza di
346 voti (222 M5S e 124 leghisti),
con 30 voti di scarto rispetto alla
maggioranza di 316. Anche qui i
consensi potrebbero aumentare, sempre
grazie ad alcuni ex M5S e a
componenti del gruppo Misto. FdI - come al
Senato - dovrebbe astenersi.
All'opposizione, ancora una volta, ci
saranno Forza Italia, Pd e LeU. Oggi
dunque appuntamento alle 12, ora
in cui il premier farà le sue
dichiarazioni programmatiche al Senato.
Alle 13.30 è previsto che si sposti
alla Camera per depositare il suo
intervento. A partire dalle 14.30 si
terrà il dibattito, mentre è
previsto che il voto di fiducia
arrivi entro le 20.
«Flat Tax
alle famiglie?BSì, ma tra due anni» E nel governo si litiga
ROMA Nemmeno il tempo di insediarsi
nei ministeri e già nel governo
Conte parte la prima polemica.
A innescarla sono le dichiarazioni
del leghista Alberto Bagnai, in
lizza per il ruolo di
sottosegretario all'Economia: «Mi sembra che ci
sia un accordo sul fatto di far partire
la Flat tax sui redditi di
impresa a partire dall'anno prossimo
- dice - Il primo anno per le
imprese e poi a partire dal secondo
anno si prevede di applicarla alle
famiglie».
LA SMENTITA Dunque secondo Bagnai
per la “tassa unica” le famiglie
dovrebbero aspettare il 2020.
Un'ipotesi ben diversa da quella
sbandierata in campagna elettorale.
Tanto che a stoppare il
sottosegretario in pectore arriva
direttamente l'ideologo della flat
tax, Armando Siri, anche lui
senatore del Carroccio. «Allo stato
attuale - spiega ad Affaritaliani.it
- posso dire che non è vero dal
prossimo anno la Flat Tax entrerà in
vigore solo per le imprese, ma
che ci sarà anche per le famiglie.
Poi tutto sarà a regime per il
2020. Si deve partire con degli
step», ha spiegato assicurando che
«per le famiglie cominceremo già dal
2019 con dei parametri che
andranno a perfezionarsi nel 2020
fino a completarla».
«BASTA PROPAGANDA» Immediate le
critiche dagli oppositori, a partire
dal segretario reggente Pd Maurizio
Martina: «Continua la presa in
giro degli italiani da parte di Lega
e M5S. Sulle imprese fanno finta
di non sapere che abbiamo già fatto
noi: Ires (dal 27,5 al 24%) e Iri
(al 24% per le Pmi). Basta
propaganda».
All'attacco anche una parte di
Forza Italia, con Renato Brunetta
che accusa: «Le dichiarazioni di
Bagnai sulla flat tax sono
chiacchiere che già disattendono il loro
contratto e il programma del
centrodestra. Stanno già suicidandosi».
Renato Schifani parla di «falsa e
finta partenza della maggioranza
pentaleghista» e «per quanto ci
riguarda saremmo favorevoli a questa
riforma» ma «sarebbe interessante
capire attraverso quali fondi
sarebbe finanziato questo nuovo
taglio». Infine: «Per le famiglie di
flat tax non se ne farà nulla e come
Forza Italia siamo decisamente
critici, di certo non è un
bell'inizio per questo governo e per Forza
Italia un'ulteriore ragione per
votare no alla fiducia».
IL PROBLEMA IVA A fare i conti sulla
flat tax, che in realtà è
diventata una dual tax con due
aliquote, una al 15% per le famiglie
fino a 80mila euro e una al 20% per
quelle superiori, dovrà essere
Giovanni Tria, che ieri si è
insediato al ministero dell'Economia. Ad
accoglierlo c'era il suo
predecessore, Pier Carlo Padoan, che gli ha
illustrato i diversi dossier su cui
sono impegnate le strutture del
ministero.
Il nodo più delicato è quello
relativo alle clausole di salvaguardia
dell'Iva che, se non disinnescate -
e per farlo servono circa 12,5
miliardi nel 2019 e 19,1 miliardi
nel 2020 - faranno aumentare le
aliquote già dal prossimo anno.
Bisognerà vedere quali saranno le
scelte di politica economica del
ministro Tria. Lo scorso 14 maggio in
un articolo su Formiche sottolineava
che «non si vede perché non si
debba far scattare le clausole di
salvaguardia per finanziare parte
consistente dell'operazione» flat
tax.
Viceministri
Lega-M5S, controlli incrociati
Chiusa la lista dei ministri, ora si
apre la seconda trattativa per i
posti di sottogoverno. Lo schema che
il Cinquestelle propone alla Lega
è di nominare sottosegretari di
garanzia. Per essere chiari: se
all'Interno c'è Matteo Salvini,
allora i sottosegretari siano del M5S.
Allo stesso modo, Luigi Di Maio ha
scelto per sé un super-dicastero,
che accorpa circa cinque deleghe di
peso (Sviluppo economico, lavoro e
politiche sociali, che accorpano
anche energia e telecomunicazioni),
dunque il bilanciamento deve essere
a favore del Carroccio.
Da via Bellerio non è arrivato un
nullaosta formale al metodo, ma non
sembrano esserci nemmeno grosse
obiezioni. Le uniche eccezioni
riguardano i ministeri 'tecnici',
come il Mef e la Farnesina, dove ci
dovrebbe essere un sostanziale
equilibrio tra le due forze politiche
che sorreggono la maggioranza.
L'ipotesi è che all'Economia sbarchino
Alberto Bagnai per la Lega e Laura
Castelli per il Movimento 5 Stelle
mentre agli Esteri potrebbero essere
nominati Nicola Molteni ed Emilio
Carelli.
Al Mise, invece, sembra in pole
position Alberto Siri, così
come Vincenzo Spadafora potrebbe
finire al Viminale. Nella partita dei
sottosegretari l'l M5S ha un
problema in più: riequilibrare le nomine
tra deputati e senatori, finora a
vantaggio dei primi. Proprio per
questo appare probabile l'approdo di
Sergio Puglia al ministero del
Lavoro. In quota Lega, infine,
restano forti le candidature di Stefano
Candiani per le Politiche agricole e
forestali, mentre Barbara
Saltamartini potrebbe andare al
ministero dei Beni culturali o al
Miur.
Dissidenti,
dem, civici e M5S Corsa a cinque in Municipio
Mariella Careddu
INVIATA
ASSEMINI Hanno ridotto i ranghi:
rispetto all'ultima consultazione
elettorale, Assemini è passata da 11
a 5 candidati a sindaco. Ma
nonostante questo, più o meno tutti
hanno un amico o un parente -
vicino o lontano - in corsa alle
Comunali. Fattore per nulla
trascurabile, perché molti nel
segreto dell'urna potrebbero scegliere
di favorire le relazioni personali
alle convinzioni politiche rendendo
difficile fare previsioni in base ai
dati del 4 marzo scorso quando il
48 per cento ha votato per mandare i
grillini al governo.
Sono 216 i
candidati per uno dei 24 posti in
Consiglio ai quali si aggiungono gli
aspiranti sindaci. Dunque, i giochi
sono talmente aperti che l'unica
cosa fin qui certa è che la poltrona
rossa del Municipio dall'11
giugno non sarà più di Mario Puddu,
uomo forte del Movimento 5 Stelle
in Sardegna e prossimo candidato
alle Regionali.
CENTRODESTRA In corsa per la sua
successione sono in cinque. Antonio
Scano è leader di una coalizione
trasversale che va dai civici ai
salviniani con 120 sostenitori
incasellati in cinque liste: Fratelli
d'Italia, Riformatori, Lega e
Psd'Az, Forza Italia e Proposta civica
Assemini. L'obiettivo dichiarato dal
capofila, 48 anni e un doppio
lavoro come consulente e
imprenditore della ristorazione, è
trasformare Assemini in un centro di
riferimento per l'assistenza agli
anziani e ai disabili oltre al
rilancio dei grandi eventi. A questa
squadra appartiene il più giovane
candidato dell'intera tornata
elettorale: Emanuele Siddu compirà
vent'anni il 30 dicembre.
PROGRESSISTI Nel polo opposto c'è
Salvatore Marras, classe 1939,
l'aspirante consigliere più vecchio
che sostiene il candidato
Francesco Consalvo, ingegnere di 42
anni ed ex segretario del Pd,
leader della lista dell'ultima ora
Democratici progressisti per
Assemini: una civica che riunisce -
tra gli altri - i dissidenti dem e
i componenti di Campo progressista.
Nell'elenco delle priorità c'è la
necessità di dotare il Comune di un
sistema di trasporto pubblico che
riduca il traffico, l'assegnazione
dell'appalto per la raccolta dei
rifiuti (giunto all'ottava proroga)
e la riorganizzazione della
viabilità, piste ciclabili comprese.
LISTA PD Candidato ufficiale del
Partito democratico è Francesco
Lecis, che nonostante i 52 anni è un
veterano della politica locale.
Lo si può trovare nel punto vendita
di via Sardegna dove gestisce
parte delle sue attività da
imprenditore. Attento alle necessità del
mondo dell'edilizia e dei servizi al
cittadino vorrebbe sbloccare
subito il Puc, che è stato approvato
ma per il quale non sono state
adottate le linee programmatiche che
ne consentano l'applicazione.
E poi, ispirandosi alla vicina Sestu
che ha risposto ai bisogni
commerciali del territorio, pensa
che Assemini potrebbe colmare il
vuoto lasciato in altri settori, a
cominciare dal sociale.
L'EX GRILLINA Dopo la rottura con il
sindaco e l'espulsione dal
Movimento, Irene Piras, 51 anni
dietista, ha ricominciato dall'Aula.
Qui ha stretto nuovi legami con
componenti del centrosinistra ed ex
Sel che ora la sostengono nella
corsa elettorale. Anche lei mette al
primo posto il problema dei rifiuti
reso difficile da un bando che non
riesce a vedere la luce. E poi c'è
la questione della sicurezza
stradale e delle piste ciclabili che
lei vorrebbe non cancellare, ma
ridisegnare.
L'EREDE È invece nel segno della
continuità l'impegno di Sabrina
Licheri, 47 anni, presidente del
Consiglio comunale, candidata del
Movimento 5 Stelle. La consulente
del lavoro intende proseguire le
opere avviate in questi cinque anni:
tra strade da asfaltare,
sportelli di consulenza per
facilitare l'accesso dei cittadini ai
bandi europei e rivendica l'attività
a favore dell'edilizia con
l'approvazione del Puc che non esita
a definire “storica”.
LA CITTÀ A fare due passi per
strada, sembra che Assemini abbia più
auto di quante ne servirebbero ai
suoi 27mila abitanti. Il traffico è
intenso e ogni spazio sembra buono
per ricavare un parcheggio: strisce
pedonali e passi carrabili compresi.
Delusa dall'industria e dalla
pesca e archiviati i tempi d'oro
delle discoteche (al posto di quelle
più famose ora ci sono due
supermercati), la città spera di risalire
la china con l'artigianato e il
turismo. L'aeroporto dista solo dieci
chilometri ma per ora più che
portare turisti è servito a chi negli
ultimi anni ha preso un volo per
cercare fortuna altrove.
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Federico
Marini
skype:
federico1970ca
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