La palazzina color rosa antico ha incorporato quasi tutto di ciò che io ricordo. Son rimasti tale e quale, solamente la parete principale, in mattoni rossi e il portico d’ingresso. La porta, ora è un portone raffinato e non ha nulla a che vedere con quella sempre aperta, da cui non si poteva uscire senza aver terminato i compiti e mai e poi mai, senza aver prima chiesto il permesso. Quel borgo che mi ha tenuta a battesimo, è stravolto ora dall’attualità che costruisce tutto uguale, privandoci dell’identità. Ogni luogo pare gemello di un altro.
Anch’io, come quel frammento del
muro, mi sento assorbita da qualcosa di gigantesco. Un piccolo mattone e basta.
Nonostante ogni mattone sia necessario, è pur sempre solamente un misero
mattone. Un nulla fondamentale. Comunque mi sento orgogliosa di quel pezzo
ritrovato, è come esserci ancora. Una traccia di ciò che ero e ciò che sono
diventata. Non completamente dispersa ecco! Ops... scusatemi, non mi sono
ancora presentata.
Il mio nome è Marianna, Marianna
Torres e in quella bellissima aiuola straripante di roselline che abbiamo alla
sinistra, vi era uno spiazzo in terra battuta dove io e le mie amichette
provviste di un bastoncino rigido, ricalcavamo la campana ogni santo giorno,
prima di giocare. I mozziconi dei gessetti rubati dalla lavagna, erano troppo
scarsi per disegnare la campana nel cemento della piazza principale e
d’altronde, chi li aveva dieci lire per comprarli all’edicola?
Un denso e attraente profumo di
lasagna mi fa sentire ancora più straniera in quel piccolo borgo. Non
fraintendetemi, la lasagna la conosco bene, ma non era un odore usuale allora.
Dalle finestre aperte usciva l’odore penetrante dello strutto che accompagna
gran parte dei piatti invernali, oppure il minestrone di fagioli condito con la
pelle di maiale. Sì, la gran parte dei piatti era condito con maiale centellinato
che durava tutto l’Inverno. In verità io ricordo con più piacere le rondelle di
zucchine fritte nell’olio d’oliva o le melanzane e i peperoni ripieni, ma
sempre con l’olio dell’anno precedente, tenuto con cura nelle giare di
terraglia. Quello nuovo solo a crudo nell’insalata o riservato a qualche
occasionale pranzo con ospiti improvvisi.
Quanti sculaccioni avrò preso perché
io volevo sempre quello nuovo, profumatissimo! A occhio e croce almeno un
migliaio, naturalmente escludendo quelli che poi ho imparato bene a evitare. Li
percepivo come se li avessi comunque buscati,
perfino dopo che mi ero fatta scaltra.
“Oh mio Dio, cosa ci son venuta a
fare qui?”
Padrona nostalgia si era fatta
tiranna fino a che non mi ero arresa, ed eccomi qui. Non mi sono accorta, nel
divagare dei ricordi di essere arrivata là, davanti al cancello sbiadito che
conserva solo minuscole chiazze del bel verde fresco di allora. Mi si strizza
improvvisamente il petto, e sento d’impallidire.
“E’ ancora qui, come se non fossero passati
trent’anni”
Era già anziana allora. Lei anziana e io bambina. I lineamenti sono rimasti uguali, tranne la pelle increspata come carta straccia.
“Siede sempre là, nel secondo gradino della scala che dal cortile porta al ballatoio”. Una gonna lunga a fiori piccolissimi, pende dal fil di ferro arrugginito che stride al venticello primaverile. Le trombe di Paradiso son sempre rigogliose e il verde delle loro foglie a cuore è uguale a quello della mantella che signora Cecilia tiene sulle spalle. Fili di capelli bianchi svolazzano con la mantella, ricadendo sulla pavimentazione.
Era già anziana allora. Lei anziana e io bambina. I lineamenti sono rimasti uguali, tranne la pelle increspata come carta straccia.
“Siede sempre là, nel secondo gradino della scala che dal cortile porta al ballatoio”. Una gonna lunga a fiori piccolissimi, pende dal fil di ferro arrugginito che stride al venticello primaverile. Le trombe di Paradiso son sempre rigogliose e il verde delle loro foglie a cuore è uguale a quello della mantella che signora Cecilia tiene sulle spalle. Fili di capelli bianchi svolazzano con la mantella, ricadendo sulla pavimentazione.
“ Scivola scivolascivola”.
Ricordo i sandali di cuoio, la
rincorsa e gli scivoloni in quel meraviglioso pavimento di cemento liscissimo. E
non solo! Signora Cecilia tiene alte le braccia cingendo qualcosa o qualcuno
che a quanto pare, solo lei riesce a vedere. Solleva da terra i calcagni e
puntando a terra le dita dei piedi fa ballare le ginocchia su e giù.
“La vispa Teresa, avea tra l’erbetta
Al volo sorpresa gentil farfalletta…”
“Com’erano calde quelle
braccia!”
“ E tutta giuliva, stringendola viva
gridava, gridava
-L’ho presa l’ho presa-
Annaspa nell’aria davanti a sè,
muovendo scomposte le maniche della blusa, appese alle braccia ossute che mi
hanno stretta affettuose. Nel mentre si volta verso il cancello, mettendomi
alle strette. Non avrei voluto disturbarla come spesso succedeva da bambina. Ma
forse neppure allora la disturbavo. Le ciglia brune sono le stesse, socchiuse
in uno sguardo tenero. Eppure non siamo neppure parenti! Mi sbraccio a
salutarla, ma lei si gira dall’altra parte cingendo ancora una volta il nulla
tra le braccia.
Mia madre mi portava spesso da
lei e io ci andavo volentieri. Mentre loro bisbigliavano con una grande intesa
io attendevo tranquillissima guardando la televisione che, se non ricordo male,
aveva solo due canali. Non mi è dato di sapere di cosa parlassero signora
Cecilia con mia madre, ma una cosa è certa, io ero felice così. Quando venivamo
via, la morsa con cui mia mamma mi teneva per mano era più lieve, quasi
carezzevole e il suo viso diventava meno duro, pure se non mi sorrideva mai. Io
ero contenta pure così e quando non lo ero, sapevo dove andare a cercarlo.
“Son figlia di Dio, confusa e pentita.
Teresa arrossì.
Dischiuse le dita
E quella fuggì”
Distende le mani in alto, lasciando andare ciò che prima non aveva tra le braccia, per inseguire la farfalletta.
“Ti è piaciuta Marianna? Lo so che ti
piace. Quando vuoi vieni che te la canto ancora”
Per un attimo ho creduto che mi avesse riconosciuta... Guarda ancora verso il cancello aggiustandosi il crine lentamente. Passa la punta delle dita nodose sulla scriminatura alla destra del capo e poi cerca di raccogliere quel rimasuglio di crine che le copre qui e là sul capo per farne una crocchia. Ma il tutto si scompone al mio richiamo
.
“Signora! Signora Cecilia, mi riconoscete, sono io. Non potevo restare senza avervi mai rivisto signora Cecilia.”
“Signora! Signora Cecilia, mi riconoscete, sono io. Non potevo restare senza avervi mai rivisto signora Cecilia.”
Scosto il passante che blocca il
cancello dal di dentro e mi avvicino abbassandomi verso di lei. Mi accarezza i
capelli che porto sempre corti, come allora. E mi stringe con le braccia
ossute. Mi sorride.
“Mi ha riconosciuta?”
“Sei già tornata? Brava. Vieni qui e
siedi sul mio grembo gioia che ti canto una bella canzoncina”
“La vispa Teresa
avéa tra l’erbetta
a volo sorpresa
gentil farfalletta,
e tutta giuliva
stringendola viva
gridava a distesa:
“L’ho presa, l’ho presa!”
A lei, supplicando,
l’afflitta gridò:
“Vivendo volando
che male ti fò?
Tu si mi fai male
stringendomi l’ale.
Dhe, lasciami! Anch’io
son figlia di Dio”!
Confusa, pentita,
Teresa arrossì,
dischiuse le dita
e quella fuggì!
Racconto di Mirella Maria Manca, autrice de
“Oltre il Vento, solo
silenzio”. “Sa Babbaiola edizioni”
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