Alla fine, arrivati ad una certa età, è nelle cose umane che
un cristiano (ma anche un musulmano, un buddista, un animista e così via...)
rivolga porzioni significative della sua immaginazione a porzioni temporali che
poggiano il culo nel Passato o, viceversa, nel Futuro. Il Presente, può
aspettare, proprio perché presente, come un rapace svolazzante che disegna
cerchi di immanenza sulla testa di ognuno di noi.
La finestra della fantasia la si può aprire da soli, ma è
cosa bella e pura che - ogni tanto - sia spalancata da un amico. Ed è quello
che è successo a me, con il fraterno Elio Turno Arthemalle, stupendo essere
impastato di sogno e concretezza. L'orizzonte è una preoccupazione che riguarda
la struttura demografica del nostro paese. Meglio, l'estetica di determinate
coorti della ipotetica popolazione a venire, per dirla in pallosissimo gergo
accademico.
Per farla breve, secondo le proiezioni
del nostro Istituto nazionale di Statistica, nel 2065 la popolazione residente
in Italia attesa potrebbe essere pari a 61,3 milioni. Cumulando gli eventi demografici
relativi al periodo 2011-2065, l’evoluzione della popolazione attesa è il
risultato congiunto di una dinamica naturale negativa per 11,5 milioni (28,5
milioni di nascite contro 40 milioni di decessi) e di una dinamica migratoria positiva
per 12 milioni.
Insomma, se un po' ci salviamo il culo - demograficamente
parlando - lo dobbiamo agli "sporchi negri", ai "cinesi che
mangiano i cani" e via discorrendo... Entro i prossimi
trenta anni sarà particolarmente accentuato l’aumento del numero di anziani: l’età media della popolazione
passerà dagli attuali 43,5 ai 49,7 anni del 2065 e gli ultra 65enni, oggi pari
al 20,3% del totale, saranno il 32-33% della popolazione, con un massimo del
33,2% nel 2056. Un paese di anziani.
A differenza di ciò che hanno magistralmente raccontanto nel
loro film Joel and Ethan Coe, non sarà un "No Country for Old Men"
ma, viceversa, un No Country for Young Man. Con una simile struttura
demografica si pone il problema, serissimo, della sostenibilità di lungo
termine del Paese, normalmente misurato attraverso l’evoluzione dell’indice di
dipendenza degli anziani. Per quest’indicatore, oggi pari a 31 individui di 65
anni e più ogni 100 di età compresa tra i 15 e i 64 anni, si può evidenziare
una crescita lineare pari fino al livello del 61% nel 2055.
Un dramma: pochissimi giovani in grado di
sostenere un volume notevole di pensionati. Ora, se avete avuto la pazienza di arrivare nella vostra
lettura fino a questo punto, sappiate che sono molto contento, ma che ciò ha
solo parzialmente a che fare con la bistecca dello scenario di cui tratta
l'incipit di questo fesso post. Il punto serio, infatti, riguarda i giovani di
oggi. Ovvero come i giovani di oggi, futuri anziani di domani, trattano il loro
corpo. Come segnano il loro corpo. Come marchiano i propri bicipiti, il proprio
petto, il loro collo, le gambe e tanti altri innominabili sacri spazi, con il
tatoo.
Questa umana pratica dalle lontanissimi origini - il tau-tau
-raccontata in Occidente nel 1769 grazie allo sguardo di James Cook nelle sue
esperienze tahitiane, si è talmente diffuso tra la gioventù italica da
diventare moda, nel senso più profondo di ciò che raccontava l'inarrivabile
Simmel: "un'imitazione di un modello dato che appaga il bisogno di
appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un
universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno
appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al
cambiamento, al distinguersi".
La faccenda è però complicata non solo dal meccanismo
imitativo e dal bisogno di identificazione in un gruppo e differenziazione
rispetto ad altri gruppi, ma anche dallo stravolgimento della struttura di
classe nel nostro paese: con lo schiacciamento della classe media e lo
scivolare di porzioni intere della popolazione verso i bassi gradini della
gerarchia sociale, il tatuarsi diventa una delle "forme di vita con le
quali la tendenza all'uguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale
e alla variazione si congiungono in un fare unitario".
Milioni di giovani tatuati, sempre più tatuati in segmenti
esposti e meno esposti del proprio corpo. Questa è la realtà. Ed è anche realtà
estetica esteticamente esposta in pubbliche spiagge, in pubblici spazi, momenti
in cui lo sguardo di compiacenza di chi guarda è atto di conferma di porzioni
di identità del tatuato. Che senso ha tatuarsi se non l'esporsi? Ma la bella realtà di oggi -
l'eccitante mondo che stuzzica eros e curiosità - nasconde il dramma di domani
e di dopodomani.
Quell'universo di turgide natiche, bicipiti, tricipiti,
pettorali, cosce e tanto altro di umano tessuto che forma la tela accogliente
di farfalle, farfalline, cuori e cuoricini, demoni e corna, tori e tao, gnocche
e croci più o meno celtiche, teschi e leoni, fate e draghi... cosa
sarà domani e dopodomani, quando i giorni, le settimane, gli anni, i lustri e i
decenni si saranno depositati come polvere sul gonfio muscolo?
Un universo di flosci uomini e debosciate donne dai debosciati
muscoli che accolgono farfalle stanche e cuori rotti, teschi spezzati e fate
raggrinzite, draghi dimentichi del fuoco e bisognosi d'ombra, gnocche in sedia
a rotelle e leoni sdentati. Tutto un universo cromatico e di segni, prima
splendete e gonfio di amor proprio e giovanile orgoglio, si staglierà agli
occhi di chi - come me e il mio amico Elio - non ha corso la competizione al
marchio, come un girone dantesco mai disegnato da Gustave Doré. Un inferno
prodotto dalla contingente e gioiosa umana imitazione di cui pochi, purtroppo,
sono consapevoli del nascosto, immane pericolo.
Di Marco Zurru
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