Mi piace ricordarlo dando una mia "lettura" del GIORNO DEL
GIUDIZIO, un capolavoro di valenza europea. La morte è effimera e insieme
eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin
dall’incipit, per poi essere ripreso in alcuni punti fondamentali della
narrazione e anche nella pagina conclusiva. Con due dei suoi icastici,
lapidari e fulminanti aforismi, “Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero
della morte” e “La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini
ma anche per le cose” Satta entra subito, per così dire, in medias res.
Sono parole che colpiscono per la
loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente
antitetici, per gli ossimori che formano. Il romanzo è pervaso dunque dal senso
della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per
Satta, uomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e
fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa
tragica connotazione.
C’è di più: il morire di un individuo
è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una
sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi.
La non presenza del defunto comporta
e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente la sua non ricordanza
da parte dei superstiti. E l’autore cita come esempio, la sorte delle sue
nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro
notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un
ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che era
esistente.
Nell’aforisma “la morte è eterna ed
effimera…” sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro:
neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo
significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un
tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: ”Donna Vincenza era una donna senza
speranza”.
L’autore impiega il discorso
indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l’esclusione di alcune
iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per
rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento
divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi.
Nel Giorno non c’è dunque che la voce
del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi
assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di
sovrapporsi di due stili. L’io narrante volontariamente si sostituisce alle
voci degli altri.
In questo romanzo infatti
l’interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà.
Allegoricamente, in un’operazione metalinguistica all’interno del testo,
troviamo esemplificato quest’atto repressivo come una pratica comune nella vita
dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita
ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della
voce della moglie.
La caratteristica dominante del suo
linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l’asciuttezza – tacitiana,
verrebbe da dire – dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi,
proferiti con l’assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.
Prof.re Francesco Casula
Nessun commento:
Posta un commento