Sto considerando i numeri degli ‘exit poll’ e quindi il
presente commento lo scrivo sulla carta velina e non sul granito. Tuttavia le
tendenze delle elezioni presidenziali ucraine di domenica 31 marzo 2019 sono
abbastanza nette: al ballottaggio del 21 aprile andrà il comico Volodymyr
Zelensky, in testa con il 30% del suffragio, mentre Petro Poroshenko, il
presidente in carica, insegue con il 17%.
Mi colpisce innanzitutto
quest’ultimo dato: se venisse confermato, sarebbe stato ridotto a poca cosa un
politico spregiudicato che per anni ha imposto al suo paese (e all’Europa
tutta) un insieme di decisioni che solo un leader profondamente legittimato
avrebbe potuto osare: ha dato una risposta
prevalentemente militare alla crisi con le regioni orientali del suo Stato, ha
sfidato la Russia e ha voluto la NATO in casa, ha riempito gli apparati
repressivi di personale di ispirazione ideologica nazista, ha legato la sua
economia ai dettami “austeritari” del Fondo Monetario Internazionale
accompagnando un dimezzamento del PIL del suo paese, ha
insomma sottoposto l’Ucraina a un trauma epocale come se avesse tutti quanti
dalla sua parte, e invece ora tutto
quel che raccoglierebbe in termini di voti non corrisponde nemmeno a un quinto
dell’elettorato.
Al ballottaggio può certo succedere ancora di tutto e
Poroshenko potrebbe perfino essere rieletto, ma la prima risposta degli
elettori esibisce un giudizio severissimo. E allora, negli anni che hanno dato
esito al golpe di Euromajdan, a cosa si era connesso Poroshenko? Non certo al
suo popolo. Il comico Zelensky conferma invece una tendenza generale di tanti
paesi, presso i quali la crisi delle vecchie “narrazioni” politiche viene
travolta da narrazioni che usano i meccanismi dello show politicamente
scorretto.
Sappiamo quanto questa rottura sia stata importante in
Italia con Beppe Grillo, ma non è affatto l’unico caso. Lo stesso Trump, prima
di sbaragliare gli avversari in politica, è stato a lungo un divo della TV
popolare con colpi teatrali clowneschi ben padroneggiati. Nel 1980, in vista
delle presidenziali francesi dell’anno successivo, tutti i sondaggi davano in
fortissima ascesa il comico Coluche, che però si ritirò dopo pressioni e
minacce di morte molto concrete.
Sono stati dei comici di
successo anche l’attuale primo ministro della Slovenia, Marjan Šarec, e il
presidente in carica del Guatemala, Jimmy Morales. Pure la crisi finanziaria
dell’Islanda qualche anno fa produsse il successo politico del comico Jón Gnarr, il quale divenne sindaco della
capitale, che propose scherzosamente di ribattezzare Gnarremburgo.
Non so se Kiev diventerà Zelenskyburgo. So però le
sofferenze dei popoli europei risultano ancora più assurde alla luce dello
sbiaditissimo consenso residuale dei loro vecchi tormentatori. Il grande
musicista Frank Zappa diceva che “la politica è la sezione di intrattenimento
dell’apparato militare-industriale”.
Quell’intrattenimento parla ormai una “langue de bois”, una
lingua di legno che pronuncia parole vaghe, ambivalenti, incorporee o
inutilmente solenni per distogliere l'attenzione popolare dai veri problemi,
spesso molto gravi (in Ucraina disastrosi). La vecchia compagnia di
giro della politica è ovunque in manifesta crisi, il re è nudo, mentre i popoli
cercano strade nuove, ancora insufficienti ma già capaci di porre l’urgenza del
cambiamento.
[nella foto: Coluche e
Beppe Grillo sul set del film "Scemo di guerra"]
Di
Pino Cabras
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