9 settembre 1943: la fuga ingloriosa di Vittorio Emanuele
III (più noto come Sciaboletta) si macchiò, indelebilmente e ignominiosamente
di ben 5 infamie, con conseguenze devastanti per la Sardegna e l’Italia intera.
1. La partecipazione alla 1° Guerra mondiale, caldeggiata dal suddetto
tiranno sabaudo. La Sardegna, alla
fine del conflitto, avrebbe contato ben 13.602 morti. Una media di 138,6 caduti
ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
2. Il fascismo: fu lui a nominare
capo del Governo Mussolini.
3. La firma delle leggi razziali.
4. La seconda Guerra mondiale.
5. L’Olocausto: ad iniziare da quello
sardo. Persa ormai la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del
conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello
della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina
nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo
l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge
prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati.
L’ignominiosa fuga avrà
conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa
fuga: 12.000 mila i soldati
sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi
dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti. Per spiegare un numero
così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si
trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8
settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, – non esistendo
più una unità di comando e di direzione – essi furono posti di fronte
all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare
prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager.
Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e
dunque il loro destino fu segnato. Ne ricordo alcuni, tre che ebbero la fortuna
di rientrare dopo la tragedia dei lager:
GIUSEPPE SASSU, di Bolotana. Padre dell’amico
Damiano Sassu. Nato il 6 aprile del 1919 verrà chiamato al servizio militare
nel 1939 proprio il giorno del suo ventesimo compleanno. Nel 1943 (si trovava
nel fronte greco) verrà internato nei campi di concentramento. Fortunatamente,
finita la guerra, dopo due anni e mezzo di internamento nei campi di
concentramento nazisti, ritornerà in Sardegna e nella sua Bolotana dai lager di
Norimberga, alla fine del 1945: pesava 38 kg , quando partì pesava 60. Nel
novembre del 1946 si arruolò in Polizia e rimase fino all’età di 58 anni.
Morirà a Cagliari il 13 agosto del 1989.
MODESTO MELIS, di Gairo, trasferitosi nel 1938
nella nascente Carbonia, per fare l’operaio, finirà a Mauthausen. La sua
esperienza sarà raccontata in un libro: “Da Carbonia a Mauthausen e ritorno”.
Muore a 97 anni il 9 gennaio del 1987.
SALVATORE CORRIAS, di San Nicolò Gerrei, della Guardia
di Finanza, partigiano, deportato a Dachau e poi fucilato a Moltrasio (Como)
dai fascisti della RSI. Medaglia d’oro al merito civile alla memoria. E’
riuscito a salvare, muovendosi nella Guardia di Finanza fra la frontiera
italo-svizzera, centinaia di ebrei e di perseguitati politici. Uno che invece
morì in un campo di concentramento dell’attuale Repubblica Ceca: si tratta di COSIMO
ORRU’ di San Vero Milis.
medaglia d’oro della resistenza, morto nei campi nazisti tra il 1944 e il 1945,
il cui ricordo resisteva nella famiglia, nei conoscenti e nel nome di una via
del suo paese.
Da anni il suo Comune ha portato avanti una ricerca sulla
sua storia, in collaborazione con l’Istituto Sardo per la Storia della
Resistenza e dell’Autonomia (ISSRA), tanto da ricostruirne in modo ancora
incompleto il viaggio dal suo lavoro, magistrato a Busto Arsizio e membro del
CLN, sino al campo di Flossemburg in Germania, quindi in quello di Litoměřice nell’attuale
Repubblica Ceca dove poi è morto
Francesco
Casula
Saggista e
storico della letteratura sarda
Autore (tra
gli altri) dell’opera “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”
"Carlo
Felice ed i Tiranni Sabaudi"
Il libro di
Casula risponde a una domanda semplice: dopo che i
Savoia ricevettero, controvoglia, la Sardegna nel 1720, e divennero
re, come si comportarono verso quella importante parte del loro
regno? La risposta al quesito è semplice, lineare, durissima: la Sardegna venne
trattata come un territorio altro rispetto al Piemonte, abitato da uomini
che avevano meno diritti rispetto agli altri, culturalmente
e socialmente inferiori, i quali dovevano essere trattati in modo tale
da mantenere questa inferiorità. Questo pensavano i tiranni sabaudi, e le
loro modalità di governo, o meglio di spoliazione, sono la diretta
conseguenza della visione ideologica appena tratteggiata.
Girolamo
Sotgiu, probabilmente il più grande storico del periodo sabaudo in Sardegna, pur
essendo un oppositore della “diversità” dei sardi rispetto agli
italiani, non poté non constatare il carattere coloniale dei rapporti
tra Piemonte e Sardegna. Di quei rapporti non sono colpevoli coloro
che allora abitavano il Piemonte (per carità) bensì i governanti,
cioè i Savoia e, successivamente, gran parte della classe
dirigente post-1861.
Nel 2011,
durante le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, si è
persa l’occasione di riflettere criticamente sul Paese e sul processo
di “unificazione”. Però si può sempre (ri)cominciare, anche in assenza di
una ricorrenza. Se un turista, un italiano o uno straniero, viene in
Sardegna, scoprirà che la strada più importante, la SS131, è
la “Carlo Felice”. Carlo Felice, detto anche “Carlo feroce” è
stato uno dei peggiori, più sanguinari e pigri vice-re di Sardegna.
Un amico
studioso ama ripetere che è come se gli israeliani, nel 2200 dedicassero la
loro strada più importante a un nazista, magari a Hitler in persona.
Certo, questo sarebbe potuto succedere se i nazisti avessero vinto. Dato però
che non è giusto che la storia la facciano i vincitori, le persone dotate di
senno o almeno di amor proprio che abitano in Sardegna, perché non mettono mai
in discussione la memoria che si reifica nei nomi delle strade e
delle vie di Sardegna?
A Cagliari,
nella piazza più frequentata, svetta la statua di Carlo Felice. Più di sei
anni fa proposi, per molti provocatoriamente,
di sostituirlo con Giovanni Maria Angioy, il quale “fu il capo
[…] del movimento anti-feudale sardo. Angioy fece proprie le rivendicazioni
delle popolazioni della campagna vessate dai feudatari, e propugnò
l’eliminazione delle arcaiche strutture di potere”. Da tempo, un movimento di
opinione, che ha presentato anche una petizione, chiede che la statua
venga spostata.
In questa
fase storica, di disfacimento di un progetto politico (l’Italia), ragionare
sulla sua storia secolare e i suoi governanti, ragionare sul suo carattere
plurinazionale (l’Italia è insieme alla Francia uno dei paesi europei a
non aver ratificato la Carta Europea delle Lingua Minoritarie), fa sicuramente
bene ai popoli in cerca di una libertà che Roma non ha fornito, ma anche a
Roma stessa.
Il libro di
Francesco Casula, che rifiuta ogni razzismo anti-italiano, è un valido
contributo per riscrivere veramente la storia, andando contro i tanti
tradimenti dei presunti chierici.
Autore
dell’articolo Enrico Lobina, da “Il fatto quotidiano”
Nessun commento:
Posta un commento