Domani parlerò a questo convegno. E siccome avremo davanti una platea
d’insegnanti in formazione, non tratterò di metano ed enti locali (come da
invito degli organizzatori), ma di educazione ambientale e testi scolastici.
Per raccontare una cosa molto semplice.
Nonostante ciò che si potrebbe
credere, negli ultimi quindici anni lo spazio dedicato alle questioni
ambientali nei testi di geografica ed educazione civica di medie e superiori è
rimasto pressoché invariato. Alcuni argomenti sono spariti: ad esempio, il Protocollo di Kyoto (morto
con tutte le sue promesse). Altri sono sempre lì: dalla definizione di
“sviluppo sostenibile”, in auge fin dai primi anni Novanta, all’elenco dei
comportamenti virtuosi che ciascuno di noi dovrebbe praticare perché la specie non
soccomba.
Altri ancora sono nuovi di zecca:
di recente, va forte parlare dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e dell’Earth
Overshoot Day. Sono molto cresciuti gli strumenti multimediali e la didattica:
compiti di realtà, classe capovolta, alternanza scuola/lavoro e altro. Ma
insomma, la sostanza è quella. Era già tutto scritto molti anni fa.
La domanda che porrò agli insegnanti,
allora, è la seguente: quanto serve fare educazione ambientale a scuola? I
risultati sono proporzionati allo sforzo? Verrebbe da rispondere di sì, pensando alla fiammata
protestataria innescata dai ragazzi nell’ultimo anno. Ma io sarei prudente. Perché
la domanda è in realtà più ampia: la scuola sta davvero dando un contributo a
fare di questi ragazzi degli adulti più responsabili in campo ambientale di
quanto siamo stati noi?
Di
Maurizio Onnis
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