giovedì 16 maggio 2019

La scissione autore/opera talvolta non è compresa, o accettata. Di Valentina Durante.



Scrivo questo post consapevole dei rischi per me: editoriali, sociali, professionali. Ma dopo essermi rigirata e rivoltata le frasi nella mente per ore ho detto sì: vado. Nelle ultime due settimane, da quando il libro mio è trovabile (perché alla fine è successo, si è fatto trovare), tre persone con le quali avevo non un rapporto di vera e propria amicizia, ma di cordiale e distesa conoscenza, mi hanno tolto il saluto. 

Hanno prima cominciato a evitarmi con manifesto imbarazzo, poi mi hanno cancellata qui (e se non altro mi sento serena nello scrivere questo, dato che non potranno in ogni caso vederlo). Avevano letto il libro e ci avevano trovato cose non opportune, non lecite a dirsi. Tutte e tre donne, madri.

Io le ho capite, completamente. Sono donna e madre anch’io.
So che nel romanzo c’è qualcosa di cui è difficile parlare, su cui è difficile immaginare, e quando parola e immaginazione accadono l’effetto può essere disturbante. Io stessa, nello scrivere, assecondando l’immaginazione, in diversi punti mi sono chiesta se non fosse il caso di fare un passo indietro, di voltare le spalle alla direzione nella quale la storia voleva condurmi. Non l’ho fatto.

Da quando ho iniziato a scrivere narrativa, il concetto di eticità dell’opera è un mio centro d’interesse. Parlo qui di concetto in senso non metafisico, ma molto pratico: un qualcosa che ti permette di articolare dei pensieri.
E il mio pensiero è che lo scrittore è etico quando fa il meglio possibile per la sua opera, non quando distoglie lo sguardo dal suo proprio inventare nel tentativo di proteggere qualcuno – i parenti, gli amici, i conoscenti, se stesso, la sua propria rispettabilità o un’idea astratta di morale. L’opera morale è un fatto artistico. La propaganda è un’altra cosa.

Ho riflettuto a lungo, in questi ultimi quattro cinque giorni, sul disagio che può arrecare il mio testo. Ne ho parlato con amici – sia scrittori/lettori che lettori puri. Ho scritto mail e ricevuto mail, ho fatto lunghe telefonate, ho ricevuto telefonate da chi non mi sarei aspettata mai e ci ho pianto anche sopra, a essere sincera, e con un senso di impotenza: perché il libro è fatto, sta lì, e ora debbo farci i conti. Mi sono anche chiesta se non fosse più comodo, per me, rinnegarlo.

Il mio non è un testo violento né pornografico. Non ci sono liquidi organici sulle pareti, istigazioni al fascismo, orge, stupri di gruppo, a dire il vero non c’è manco un rapporto sessuale compiutamente descritto. Però c’è un desiderio. Ed è il desiderio – carnale, sessuale – di una madre per suo figlio. Non c’è incesto ed è questo il problema: perché se incesto ci fosse, la madre verrebbe agevolmente rubricata come mostro e questo metterebbe subito a posto le tassonomie consuete: l’abominio da una parte, la normalità dall’altra.

Ma questa madre non abusa del figlio, semplicemente, crescendo lui, comincia ad amarlo e a desiderarlo come una donna può amare e desiderare un uomo. Tenta di soffocare il desiderio, ma il desiderio resta ed è un desiderio che per alcuni può risultare (ed è risultato) inaccettabile. Il desiderare in sé, forse, è inaccettabile.

Il mio romanzo è un’inezia nel cosmo, ma questo pensiero sul desiderare non lo è. A ragionarci bene il desiderare corrisponde, a livello sociale, alla capacità di avere un’idea politica. L’idea politica nasce da un desiderio sull’esterno, proiettato all’esterno, c’è sempre una visione desiderante sul mondo, che portata agli estremi sfocia in utopia (uno stress test della tonicità della visione – I have a dream).

Il fulcro dei programmi (o non-programmi) nella politica (o non-politica) dell’oggi è dato non da idee politiche, ma da generiche buone intenzioni: l’onestà, la competenza. O viceversa da paure gonfiate e manipolate allo scopo. Siamo così dimentichi del desiderare che quando una ragazzina di quindici anni ci guarda negli occhi dicendo: Desidero un mondo migliore, ecco che cavilliamo sull’onestà (mancata, di chi presumibilmente la sta indottrinando), oppure sulla competenza (che data l’età non può che farle difetto).

Ora sto divagando ma tutti questi pensieri, gonfiati da altri pensieri, sono ciò che mi ha tenuto compagnia mentre soppesavo la reazione di quelle tre persone e della possibile, analoga, reazione di altri che verranno (andandosene, poi).
Che fare? Ignorare? Tacere? Incrociare le dita di mani e piedi nella speranza che non capiti più? Vergognarmi dello scritto e sotterrare la testa nel tempo che, accumulandosi, seppellisce tutto? 

C’è una cosa che so, che mi hanno insegnato e che spesse volte ho detto e ripetuto anch’io: l’opera non è traslazione della vita e quel che diciamo nell’opera non necessariamente corrisponde alla nostra idea della vita. L’opera è finzione e come tale va trattata. È esplorazione, e io credo che esplorare i limiti morali, sottoporli a tensione immaginando, abbia un’utilità. Dunque, se un autore viene attaccato per ciò che il suo narratore fa o dice nell’opera, è legittimo diritto dell’autore distogliersi dall’attacco. Ma un autore non può, non deve, distogliersi dalla sua opera.

Non può fingere di non averla fatta, né può fingere di non credere che quello era il modo migliore per farla, il modo coincidente con la sua istanza di comunicazione. 

Allora oggi dico questo: c’è questo libro. Chi parla nel libro non sono io. Ma il libro sì, quello l’ho fatto io. A chi verrà a chiedermi di rendere conto, o mi negherà un saluto, o mi negherà un lavoro (potrebbe succedere, lo so: campo di scrittura) io non potrò opporre che queste due frasi: Non sono io. L’ho fatto io. Nient’altro.

Di Valentina durante

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