Per quanto violento, il cambiamento
nell’occidente post-industriale è stato in buon parte attutito da quel che
ancora rimane in piedi del vecchio Stato sociale, sebbene pezzi sempre più
consistenti stiano andando in frantumi; e, soprattutto, dal fatto che buona
parte dei precarizzati occidentali sono figli dei vecchi proletari e del
vecchio ceto impiegatizio, e quindi godono ancora, sia pure indirettamente,
tramite le famiglie, delle vecchie garanzie.
Ma sarà sufficiente lasciar passare ancora una generazione (ma bisogna ammettere
che già quelle presenti, come per esempio la mia, se la passano di merda) e la
precarietà divamperà, imponendosi come la condizione sociale prevalente. È così che noi, figli e nipoti del vecchio mondo
industriale, ci ritroveremo ad essere inutili, sempre più inutili, affiancati
nei fatti alle schiere degli “indesiderabili” che approdano oggi sulle nostre
coste.
E’ molto probabile che col il
trascorrere degli anni e con lo stabilizzarsi di questa invidiabile situazione
perderanno di significato persino quei movimenti che tentano ancora, tra mille
difficoltà, di dare un sostegno dall'esterno ad una parte circoscritta degli
sfruttati (immigrati, disoccupati, precari, ecc ecc.). Le condizioni di sfruttamento finiranno con l’essere simili
per tutti, spalancando così le porte per lotte realmente, oggettivamente,
comuni.
Allora, e solo allora, forse,
scopriremo il filo che ci lega tutti, sfruttati di mille paesi, eredi di storie
tanto differenti eppure così simili: il
capitale stesso ha riunificato nella miseria le famiglie perdute della specie
umana. La vita che si profila all'orizzonte
sarà vissuta comunemente sotto il marchio della precarietà, ossia della povertà
(magari col “uaifai”, ma pur sempre poveri).
Apparecchiate
con cura dall'evolversi dello sfruttamento, ecco allora le moderne basi
materiali per gli antichi sogni di libertà. Ecco il luogo delle prossime
rivolte - sapremo essere all’altezza di cotanta disperazione?
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