Lo spopolamento è un
impoverimento strutturale di un territorio, è la forma presente di un futuro senza
speranza, è un’ombra che si proietta lunga nei prossimi decenni ed è per ciò
che, chi oggi colpevolmente ne sta ignorando la portata, sta producendo un
danno imperdonabile e incalcolabile.
Sono molte le immagini che, a colpo d’occhio, potrebbero
rappresentare l’emorragia di presenza umana che colpisce le zone interne di
questa terra. Le strade e le piazze deserte, le case disabitate con le finestre
chiuse, l’assenza di negozi e vertine, ma l’immagine che a me, più di tutte,
rappresenta la tragedia, sono i campi di calcio coperti di erba alta.
Le porte
che emergono, sommerse a metà dall’erba che è cresciuta indisturbata, come
quando la natura si riappropria di luoghi prima umanizzati. Se fossi il
presidente Pigliaru, se fossi il responsabile della programmazione assessore
Paci, se fossi uno qualunque dei consiglieri regionali eletti in questo
territorio o in altri, io non ci dormirei la notte davanti ad un campo di
calcio così.
Quando ci penso non riesco a ricordare un intervento che è
uno, pensato e realizzato riconoscendo la straordinarietà del dramma che ci
colpisce nelle aree interne della Sardegna. Nessuno, anzi, viceversa ulteriori
sottrazioni. Non esistono in Sardegna politiche di contrasto allo spopolamento.
Non è che ci siano ma non si rivelano efficaci, peggio, proprio non esistono.
Lo spopolamento, come ogni esclusione, non esiste agli occhi dei mediocri e
così, silenziosamente, si condanna un territorio e si decretano diseguaglianze.
Di Lucia Chessa
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