E dire che qualche neo sabaudo, sostiene ancora le
magnifiche e progressive sorti di quell’evento! Si avvicina il 29 novembre, ricorre
il 172° Anniversario di una data infausta per la Sardegna e i Sardi: la
Fusione perfetta della Sardegna con gli stati sabaudi di terraferma. Con essa l’Isola veniva
deprivata del suo Parlamento e con essa finiva il Regnum Sardiniae.
Si è scritto che siano stati i Sardi stessi a rinunciarvi.
Si tratta di una grossa balla: non è assolutamente vero. A chiedere la Fusione,
che verrà decretata da Carlo Alberto, furono membri degli Stamenti di Cagliari
e di Sassari, senza alcuna delega né rappresentatività né stamentaria né, tanto
meno, popolare. Il Parlamento neppure si riunì. Tanto che Sergio Salvi, lo
scrittore e storico fiorentino gran conoscitore di “cose sarde” ha parlato di
“rapina giuridica”.
Mi si potrà obiettare: e le manifestazioni pubbliche che si
svolsero a Cagliari (dal 19 al 24 novembre) e a Sassari nel 1947 non servono
come titolo di rappresentanza e rappresentatività popolare? Non sono esse segno
e testimonianza che la popolazione sarda voleva e richiedeva la Fusione? Per
intanto occorre chiarire che quelle pubbliche manifestazioni, erano poco
rappresentative della popolazione sarde in quanto i partecipanti appartenevano
quasi sostanzialmente ai ceti urbani. Ma soprattutto esse rispondevano esclusivamente agli interessi della
nobiltà ex feudale, illecitamente arricchitasi, con la cessione dei feudi in
cambio di esorbitanti compensi, che riteneva più garantite le proprie rendite dalle finanze piemontesi
piuttosto che da quelle sarde.
Nella fusione inoltre vedevano una possibile fonte di
arricchimento la borghesia impiegatizia e i ceti mercantili. Dentro la cortina
fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano inoltre anche in Sardegna,
spinte ideologiche e patriottarde – rappresentate soprattutto dalla borghesia
intellettuale (avvocati, letterati, professionisti in cerca di lustrini) e
dagli studenti universitari – che vedevano nella Fusione la possibilità che
venissero estese anche alla Sardegna riforme liberali quali l’attenuazione
della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi e qualche
libertà commerciale e persino un primo passo verso l’unificazione degli Stati
italiani.
“Per la ex nobiltà
feudale – scrive Girolamo Sotgiu – la conservazione delle vecchie istituzioni
non aveva alcun interesse. La possibilità di conservare un peso politico era
ormai data soltanto dalle posizioni da conquistare nelle istituzioni militari e
civili del regno sabaudo e dalla conservazione
di una forza economica fondata non più tanto sul possesso della terra, quanto
delle cartelle del debito pubblico, e « le cedole di Sardegna – come afferma il
Baudi di Vesme – colla riunione delle due finanze [avrebbero acquistato] il
dieci e più per cento di valore commerciale, ed il capitale che dava cinque
lire di entrata, e [che si vendeva ] a lire 108 sarebbe immediatamente salito
alle 120 e più»
1. Comunque se le stesse
Manifestazioni contengono una serie di ambiguità, specie rispetto agli
obiettivi che si proponevano, in ogni caso ben altre e diverse erano le
aspirazioni delle masse popolari, urbane come quelle dei pastori e contadini e difforme
l’atteggiamento verso il Piemonte. Scrive ancora Girolamo Sotgiu: ”Che gli orientamenti
più largamente diffusi fossero diversi è dimostrato da molti fatti. L’ostilità
contro i piemontesi era forte come non mai, e le riforme erano viste anche come
strumento per alleggerire il peso di un regime di sopraffazione politica che
era tanto più odioso in quanto esercitato dai cittadini di un’altra nazione;
per ottenere cioè non una fusione ma quanto più possibile di separazione”.
3 Tanto che lo storico piemontese Carlo Baudi di Vesme
scrive che “correvano libelli sediziosi forieri della tempesta e quasi ad alta
voce si minacciava un rinnovamento del novantaquattro”.
4 Ovvero una nuova
cacciata dei piemontesi, considerati i responsabili principali della drammatica
situazione economica aggravata dalla crisi delle campagne ( fallimento dei raccolti) e
dall’esosità del fisco. Lo stesso Vesme ricorda ancora che “un sarto, per nome
Manneddu, sollevò il grido di Morte ai Piemontesi in teatro, nel colmo delle
manifestazioni di esultanza per la concessione delle riforme”.
5 E sulla Torre
dell’Elefante, a Cagliari, il giorno della partenza per Torino di alcuni membri
degli Stamenti, il 24 novembre, per chiedere la sciagurata fusione, apparve un
manifesto con la scritta:Viva la lega italiana/e le nuove riforme/Morte ai
Gesuiti e ai piemontesi/Concittadini: ecco il momento disiato/della sarda
rigenerazione. Giovanni Siotto Pintor
inoltre scrive che nei giorni delle dimostrazioni “Moltissimi contadini di
Teulada traevano a Cagliari credendo a una rivolta” per sostenerla e
rafforzarla e che “cinquecento armati del vicino paese di Selargius stavano
pronti a venire al primo avviso” e che “v’erano uomini di Aritzo, d’Orgosolo,
di Fonni mandati per sapere se [c’era] mestieri d’aiuto nel qual caso
[sarebbero venuti] otto centinaia di uomini armati”.
6 Con la Fusione Perfetta
con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di
sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più
grande e il cui centro degli interessi risultava naturalmente radicato sul
continente. L'Unione Perfetta non
apportò alcun vantaggio all'Isola, né dal punto di vista economico, né da
quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare, fu ben chiaro
sin dai primi anni con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che
sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo – sia con
Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852)
Gli stessi sostenitori
della Fusione, ad iniziare da Giovanni Siotto-Pintor, scrissero “fummo presi da
una follia collettiva,” riconoscendo l’errore. Errammo tutti e ci pentimmo
amaramente, ebbe a dire Pintor. Visti anche i risultati fallimentari di quella scelta, due immediati: il
servizio militare obbligatorio, guarda caso proprio in occasione della
cosiddetta Prima Guerra di Indipendenza, con i giovani sardi mandati al
massacro: E il “sequestro” di tutte le risorse del sottosuolo sardo da parte
del Piemonte. Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la Fusione “La Sardegna era
diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata di un governo senza
cuore e senza cervello”.
Ad esemplificare
l’estraneità della Sardegna al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di
quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato
perché si raggiungesse l'obiettivo della fusione con il Piemonte, all’ingresso
di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento ( si era
presentato con il costume caratteristico dei sardi , con sa berritta, orbace e
cerchietto d'oro all'orecchio) contrastava con l'eleganza e severità dei suoi
colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia. Per
questo si dice che entrò nell'aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza
le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a
riconoscere in lui un Senatore.
Il secondo episodio venne
denunciato con una lettera al Presidente della Camera dal deputato di Sassari
Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con
i colleghi delle altre province, rimarcò l'assenza dell’emblema della Sardegna
nell'aula dove, invece, erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle
altre province del Regno.
Note Bibliografiche 1. Girolamo Sotgiu, Storia della
Sardegna sabauda, Edizioni Laterza, Roma.Bari, 1984, pagina 306. 2. Ibidem,
pagina 306 3. Ibidem, pagina 307-308 4. Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni
politiche ed economiche sulla Sardegna, Stamperia reale, Torino 1848 pag.181.
5. Ibidem, pagina 189. 6. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi
dal 1798 al 1848, Casanova, Torino, 1877, pagina 518.
Francesco
Casula
Storico
e Saggista
Autore de “I Savoia e i tiranni Sabaudi
tristissima scelta di asservimento,ancora oggi le conseguenze.
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