La Nuova Sardegna
Il senatore
difende l’assessore all’Istruzione. A marzo il ministro Fedeli a Ghilarza Altolà
di Uras: Firino resti in giunta. CAGLIARI
«La Firino non si tocca». Il senatore Luciano Uras
risponde ai consiglieri regionali del gruppo ex Sel che avevano chiesto la sua testa.
«Claudia è assessore alla Pubblica istruzione perché noi abbiamo contribuito
molto, e non poco, all'elezione di Francesco Pigliaru. Eppure la sua permanenza in giunta è oggetto
puntuale di indiscrezioni offensive. Se fossi il presidente
della Regione direi a tutti di smetterla, perché non c'è discussione su
quest'argomento».
Uras, senatore ex Sel ora esponente del Campo
progressista lanciato da Giuliano Pisapia, stronca sul nascere le spinte che
arrivano anche da esponenti del suo ex partito e blinda l'assessore di
riferimento. «A inizio legislatura – spiega Uras – Pigliaru ha
ritenuto di avere una squadra di sua fiducia molto più ampia di quanto fosse
rappresentativa sul piano politico elettorale, noi abbiamo accettato questa
cosa perché c'è un patto di fiducia reciproco che non vorrei fosse messo in discussione».
A proposito di istruzione, il 6 marzo, annuncia
Uras, sarà a Ghilarza il ministro Valeria Fedeli per la promozione di un progetto
scolastico sul tema dell'accoglienza. Quanto alla modifica della legge
elettorale, il senatore ha ribadito la sua posizione. «Io mi aspetto che il
governatore esca anche su questi temi: la questione di genere deve essere una
sua questione perché lui è presidente della Regione di uno schieramento
politico democratico e progressista, e questo si deve vedere». Sull’argomento,
si discuterà il 13 ottobre davanti al tribunale civile di Cagliari il ricorso
contro la legge elettorale della Sardegna presentato da Uras insieme
all’assessore Claudia Firino e a quello all’Urbanistica del Comune di Cagliari Francesca
Ghirra. La legge è stata impugnata perché «non consente una equilibrata
rappresentanza di genere».
I ricorrenti, tutti ex Sel che guardano con
interesse al Campo progressista dell’ex sindaco di Milano, mirano
all’introduzione della doppia preferenza di genere per garantire un’adeguata
rappresentanza femminile nella massima assemblea sarda.
Unione
Sarda
E
in Sardegna invece lo scontro può slittare
Primarie
insieme al nazionale? Intanto gli ex Sel frenano il rimpasto
Legge elettorale con doppia
preferenza di genere, congresso del Pd,
rimpasto in Giunta: ecco i temi più
caldi per la politica sarda. Nel
primo caso i tempi per una soluzione
potrebbero allungarsi: il 13
ottobre approderà in tribunale la
battaglia sul mancato rispetto della
rappresentanza di genere alle ultime
elezioni, promossa contro il
Consiglio regionale dagli ex
esponenti di Sel Luciano Uras (senatore),
Francesca Ghirra (assessora
all'Urbanistica del comune di Cagliari),
Claudia Firino (assessora alla
Cultura della Regione) e Ignazio Tolu
(sub commissario della provincia del
sud Sardegna).
Lo stesso vale per il congresso del
Pd: se a livello nazionale si va a
congresso anticipato, quello sardo
potrebbe slittare per sincronizzare
le date delle primarie. Saranno
sufficienti, invece, pochi giorni per
venire a capo della questione
rimpasto. È stato lo stesso Francesco
Pigliaru a imprimere una svolta:
appena rientrato al lavoro avrebbe
manifestato l'intenzione di chiudere
subito la partita.
Le condizioni ci sono. Le tre grandi
correnti del Pd hanno raggiunto
un accordo. L'area Cabras-Fadda
conferma i due assessori di
riferimento: Massimo Deiana
(Trasporti) e Cristiano Erriu (Enti
locali). L'ex minoranza occupa già
la casella del Lavoro, con Virginia
Mura, e ora i renziani della prima
ora potranno riempirne un'altra con
l'ex consigliere regionale olbiese
Pierluigi Caria, che approderebbe
all'Agricoltura lasciata libera da
Elisabetta Falchi.
Filippo Spanu, attuale capo di
gabinetto di Pigliaru, andrebbe (in quota
presidenziale) agli Affari generali
al posto di Gianmario Demuro.
I soriani prenderebbero “in carico”
l'assessore alla Sanità Luigi
Arru, ferma però la possibilità di
esprimere un altro nome. L'ex
assessora alle Attività produttive
del Comune di Cagliari, Barbara
Argiolas? E al posto di chi?
Difficile che lasci la titolare
dell'Istruzione, Claudia Firino.
Ieri il senatore ex Sel Luciano Uras
è stato chiaro: «Lei è in Giunta
perché noi abbiamo contribuito, e non
poco, all'elezione del presidente
della Regione. Eppure la sua
permanenza è oggetto puntuale di
indiscrezioni offensive. Se fossi il
governatore direi a tutti di
smetterla, perché non c'è discussione su
quest'argomento».
Tradotto: Firino non si tocca.
Potrebbero essere
“toccabili”, invece, il titolare del
Turismo, Francesco Morandi (area
Cd), oppure l'assessora
all'Industria Maria Grazia Piras (area Upc).
Sempre a condizione che, alla fine,
anche nel secondo esecutivo
Pigliaru le donne siano almeno
quattro come la legge stabilisce.
Non esiste, invece, una legge
elettorale che preveda un'adeguata
rappresentanza di donne in Consiglio
regionale: secondo gli esponenti
ex Sel che hanno citato in giudizio
il Consiglio regionale, alle
ultime consultazioni regionali «il
diritto di voto è stato esercitato
in mancanza del rispetto delle
garanzie costituzionali in tema di
rappresentanza di genere».
Roberto Murgia
Renzi
corre, congresso subito Bersani: «Scissione? Vedremo»
Ok
in direzione all'anticipo chiesto dal leader. No al documento pro-Gentiloni
ROMA «È finito un ciclo», annuncia
Matteo Renzi in Direzione. E sembra
che parli di Gentiloni più che di
sé.
Certo, il segretario apre al
congresso in tempi rapidi e all'Assemblea
del partito si presenterà
presumibilmente dimissionario, per
accelerare la nascita del nuovo
vertice democrat. Ma è a sé che pensa
come segretario e quindi come
candidato premier, e questo non allunga
la vita al governo. Che senso
avrebbero altrimenti i visi lunghissimi
della minoranza interna, Bersani in
primis, che si vede bocciare -
anzi, neppure mettere in votazione -
il documento di sostegno al
presidente del Consiglio in carica?
MARE APERTO E suona come una
richiesta di pieni poteri, o almeno pieno
sostegno alla riconquista di Palazzo
Chigi, il monito renziano:
«Preferisco il mare aperto della
sfida che la palude. Facciamo il
congresso e chi perde il giorno dopo
dia una mano, non scappi con il
pallone, non lasci da solo chi vince
le primarie, non faccia quanto
avvenuto a Roma».
Oppure, più esplicito: «Io non dico
“vattene”, io dico “venite,
confrontiamoci, vediamo chi ha più
popolo, rendiamo contendibile la
leadership”, dico “venite” anche a
chi sta fuori del Pd, è aperto il
tesseramento». E se non hanno un
sapore pre-elettorale, la
rivendicazione del 40% alle Europee,
le bacchettate all'Europa
«maestrina», le indicazioni a Padoan
su come riassestare i conti senza
aumentare le accise sono tutti
capitoli di un rilancio in piena regola.
«SMS SBAGLIATO» A chi voleva un
supplemento di autocritica dopo il ko
referendario del 4 dicembre, il
segretario concede una marginalissima
soddisfazione, citando «la reazione
tra i parlamentari su un sms che
avrei potuto risparmiarmi. Spero ci
sia la stessa forza quando dovremo
spiegare perché è stata allungata
una legislatura che tre anni fa
sembrava bloccata». Il messaggino
sarebbe quello sui vitalizi da
evitare a tutti i costi, cioè
andando al voto prima del giro di boa
della legislatura. Ma detto questo,
Renzi non ha molto da
rimproverarsi. E non sarà
prospettando la scissione che lo si farà
tornare a più miti consigli.
I toni sono sereni - «Agli amici e
compagni della minoranza dico: mi
spiace se costituisco il vostro
incubo, ma voi non sarete mai i
nostri avversari, per noi gli
avversari sono fuori da questa
stanza» - ma il leader non terrà unito
il Pd a costo di passi indietro e
compromessi. Quella è roba del
passato: «Dal giorno dopo del
referendum la politica italiana ha messo
le lancette indietro a riti e metodi
dimenticati negli ultimi anni.
Abbiamo riniziato con le discussioni
interne dure, spesso
autoreferenziali, sono tornati i
caminetti. Invece di chiederci dove
va l'Italia, tutto il dibattito è
stato imperniato su quanto dura la
legislatura, quando si fa il
congresso».
LA MINORANZA Insomma, nessuno pensi
di condizionare il segretario e se
davvero si vuole fare la scissione,
la si faccia «sulle idee, non sugli alibi».
Ma se voleva essere un disinvolto
esorcismo della spaccatura, non pare
aver funzionato moltissimo. A fine
direzione le tante anime della
minoranza interna non escludono la
scissione: al contrario. Uno dei
critici più puntuali e affilati di
Renzi, il lettiano Francesco
Boccia, va via spiegando che «siamo
alle solite: nonostante un primo
tentativo di confronto con numerosi
buoni spunti sia da chi è in
maggioranza che da chi è in
minoranza, alla fine ha prevalso, ancora
una volta, la sindrome di Forrest
Gump. Abbiamo un segretario che
pretende di fare un congresso lampo
di qualche settimana, mandando a
casa l'ennesimo governo targato Pd e
non assumendosi la responsabilità
politica del Pd verso la
legislatura».
BERSANI Non è più bonario Bersani,
che sulle scissione non elargisce
nulla di più rassicurante di un
«adesso vedremo» e al segretario
notifica il suo no «a un congresso
cotto e mangiato con una spada di
Damocle sul nostro governo mentre
dobbiamo fare la legge elettorale e
mentre dobbiamo fare le elezioni
amministrative. Non è il messaggio
giusto da dare al Paese. Siamo il
partito che governa, dobbiamo
garantire che la legislatura abbia
il suo compimento normale e che il
governo governi correggendo qualcosa
che abbiamo fatto e che il
congresso si faccia nel suo tempo
ordinario, cioè da statuto parte a
giugno e si conclude a ottobre,
sarebbe questa la cosa più normale.
Non ho sentito dire se vogliamo
accompagnare il governo fino alla fine
della legislatura».
«CONFRONTO VERO Michele Emiliano
ufficializza la propria candidatura e
inserisce un congresso ad aprile
«senza conoscere la legge elettorale,
senza sapere quante sezioni sono
commissariate e con la Pasqua in
mezzo» tra le cose che «fanno
rischiare la scissione». Orlando invece
tenta la mediazione e propone una
conferenza programmatica, invitando
il partito a non fare delle primarie
«la sagra dell'antipolitica».
«Quando in un partito ci sono linee
diverse, la strada giusta è un
Congresso. E un confronto vero può
essere anzi il modo per evitare
scissioni», twitta sibillino Dario
Franceschini.
La Nuova Sardegna
La direzione approva a maggioranza
la relazione di Renzi, ora le dimissioni
Non messa ai voti la mozione di
Bersani sul sostegno al governo fino al 2018
Pd a congresso subito Resta l’idea
scissione. di Maria Berlinguer wROMA
Congresso lampo entro aprile e nuova
investitura popolare. Matteo Renzi
stravince il primo match con la
minoranza che in direzione chiede di
celebrare il congresso nei tempi
stabili dallo statuto e di impegnare
tutto il Pd a votare una mozione
che garantisca al governo Gentiloni
il sostegno del partito fino a
scadenza naturale, il 2018. Alla
fine la direzione ha approvato con
107 sì, 12 contrari e 5 astenuti la
mozione presentata dai renziani.
E non ha messo ai voti la proposta
di Bersani. «È annullata, visto che è
passata la prima» spiega Matteo
Orfini. È Piero Fassino (area
Franceschini) a insistere. È un punto
pericoloso, «questa assemblea si
prepara a votare la fiducia al
governo Gentiloni», avverte prima della
conta finale l’ex segretario Ds. Ma
per la minoranza l’esclusione dal
voto del loro documento «svela il
giochetto di Renzi» che ancora punta
a elezioni anticipate. «Da oggi è
chiaro: Paolo stai sereno», dice il
bersaniano Davide Zoggia. Quanto
alla scissione nulla è escluso.
«Vedremo», dice dopo la direzione
Pier Luigi Bersani. Mentre Gianni
Cuperlo aggiunge: «Oggi il Pd è
seriamente a rischio». Il primo vero
confronto tra le varie anime del
partito dopo la batosta del
referendum si è trasformato in un
redde rationem.
Camicia e maglione stile Marchionne,
Renzi parla per più di un’ora. In platea, in un
centro congressi a due passi da
piazza di Spagna, oltre ai
parlamentari, ci sono D’Alema,
Gentiloni e anche il ministro Padoan.
«Oggi si è chiuso un ciclo che è
iniziato il 15 dicembre del 2013, ho
preso un partito che aveva il 25% e
lo abbiamo portato al 40,8%
nell’unica consultazione politica e
gli ho dato una casa», sottolinea.
Agli oppositori interni che lo
accusano di non aver analizzato i
motivi della sconfitta del 4
dicembre Renzi ricorda di essersi
dimesso. L’ex premier parte dallo
scenario internazionale. L’avvento
di Trump, la minaccia populista in
Europa con la Le Pen e in Italia
con Grillo. In questo quadro noi
dobbiamo rappresentare la speranza,
dice. La minoranza (e anche a Prodi)
chiede una presa di posizione sul
no a elezioni anticipate. «Viene
prima il Paese» dice Bersani. «Non
sono io a decidere, non spetta a me,
sarà una valutazione di altri, il
modo più serio di sostenere il
governo è quello di lavorare», dice.
In un momento di grandi cambiamenti
«il più grande partito della sinistra
europea che fa? Discute sulla
scissione e su quali basi? Se il
segretario non fa il congresso prima
delle elezioni, sarà scissione.
Messa così è un ricatto». «Io non
dico andatevene, dico venite e
discutiamo, vediamo chi ha più
popolo con sé», dice invitando però
tutti a darsi una «regolata». Se
deve essere scissione deve essere
fatta senza cercare alibi, aggiunge
il segretario dem. «Potete
prendere in giro me non la nostra
gente», aggiunge. Davanti a Padoan e
Gentiloni rivendica tutti i successi
dei suoi mille giorni a Palazzo
Chigi. «È vero o no che una parte di
popolo non ci sopporta?», incalza
Bersani che chiede di riconnettersi
con quella parte della sinistra
che non vota più il Pd.
Bisogna cambiare sulla scuola e sul
lavoro,
correggere gli errori, chiede, per
questo il governo deve continuare a
lavorare e il congresso deve
svolgersi dando il tempo di una
riflessione vera perché le cose
«cotte e mangiate non porteranno nulla
di buono», avverte. E dubbi sul
congresso immediato li esterna anche
il ministro Andrea Orlando. Il Guardasigilli
prova a proporre una
conferenza programmatica. «Il
congresso per fare una discussione vera
è come fare le tagliatelle con la
macchina da scrivere perché in base
al nostro statuto serve solo a
legittimare il leader», spiega Orlando,
sospettato di poter diventare il
candidato della sinistra. Poi tocca a
Emiliano e Enrico Rossi. Entrambi
candidati alla segreteria. Rossi
insiste sulla necessità di tornare a
sinistra. È il momento della
conta. Orlando si astiene, rompe con
la maggioranza. Ma il timing è
deciso. Sabato assemblea e
dimissioni. Poi via al congresso.
Nel
2013 l’iter durò quasi tre mesi, i candidati stabiliti
dall’assemblea
nazionale Lo statuto scandisce tempi e tappe
ROMA L’articolo 9 dello statuto del
Pd indica i principi fondamentali
in base ai quali si svolge il
congresso che si articola in due fasi:
prima la Convenzione in cui votano
gli iscritti del partito e poi le
primarie. Ma la road map viene
disciplinata da un regolamento che di
volta in volta deve essere approvato
dalla direzione nazionale con il
voto favorevole della maggioranza
assoluta dei suoi componenti.
Secondo lo statuto del Pd (art.5),
il congresso e le primarie si
svolgono ogni quattro anni, il che
implica che il prossimo dovrebbe
tenersi in autunno, dato che il
precedente ha avuto luogo tra
settembre e dicembre 2013.
Ma sono previsti diversi casi in cui
congresso e primarie possono essere
anticipati, tra i quali le
dimissioni del segretario.
Occorrerebbero dunque le dimissioni di
Renzi da segretario, o una sfiducia
nei suoi confronti da parte
dell’assemblea nazionale, per aprire
subito il congresso dem che
sarebbe indetto, in base
all’articolo 5 comma 2 dello statuto, dal
presidente del Pd, in questo caso
Orfini. Per essere ammesse alla
prima fase del procedimento
elettorale, le candidature a segretario
devono essere sottoscritte da almeno
il 10% dei componenti
dell’assemblea nazionale uscente o
da un numero di iscritti compreso
tra i 1.500 e duemila, distribuiti
in non meno di cinque regioni.
Risultano ammessi all’elezione del
segretario nazionale i tre
candidati che abbiano ottenuto il
consenso del maggior numero di
iscritti purché abbiano ottenuto
almeno il 5% dei voti e, in ogni
caso, quelli che abbiano ottenuto
almeno il 15% dei voti in almeno
cinque regioni o province autonome.
Fin qui i principi inderogabili,
mentre i tempi dei vari passaggi
sono stabiliti dal regolamento: nel
2013 si discusse per quasi un mese
sulle regole e poi la direzione del
27 settembre approvò la road map che
si concluse l’8 dicembre con le
primarie. Entro l’11 ottobre si
fissò il termine per depositare alla
commissione nazionale le candidature
alla segreteria con relative
liste programmatiche. Si decise che
in ciascun collegio poteva essere
presentata una lista collegata a
ciascun candidato da presentare entro
il 25 novembre. La Convenzione
nazionale si riunì il 24 novembre e
determinò i 3 candidati da ammettere
alle primarie. Alle primarie
votarono i tesserati e gli elettori
che si dichiarano di riconoscere
nella proposta politica del Pd e
danno un contributo di 2 euro.
-----------------
Federico Marini
skype: federico1970ca
Nessun commento:
Posta un commento