(16 Settembre 1982) Periferia
di Beirut. Uomini delle le milizie cristiano-falangiste entrano nei campi
profughi palestinesi di Sabra e Shatila per vendicare l'assassinio del loro
neoeletto presidente Bashir Gemayel. E inizia così un massacro della popolazione palestinese
che durerà due giorni. Con gli israeliani, installati a 200 metri da Shatila, a
creare una cinta intorno ai campi e a fornire i mezzi necessari all'operazione.
Il bilancio, secondo stime difficilmente verificabili, sarà di circa 3.000
vittime. Una grande
manifestazione di protesta in Israele porta alla creazione di
una commissione d’inchiesta che attribuisce ad Ariel Sharonla responsabilità
del massacro, costringendolo a dimettersi da ministro della Difesa. Il 16 dicembre dello stesso anno,
l’Assemblea generale delle Nazioni Uniti, nel condannare nel modo più assoluto
il massacro, conclude “che il massacro è stato un atto di genocidio’’.
L’esercito israeliano aveva iniziato ad assediare la
capitale libanese (Beirut) nel giugno del 1982, accerchiando i Fedayyin
palestinesi ed i suoi alleati. I primi giorni di luglio del 1982 iniziarono i
negoziati per porre fine all’assedio. Firmati il 19 agosto sotto il presidio
degli Stati Uniti d’America, garantivano che l’esercito israeliano non sarebbe
entrato nei quartieri occidentali di Beirut, in cui erano asserragliati civili
e miliziani palestinesi. Questi ultimi avrebbero, quindi, lasciato la città
sotto il controllo di un contingente armato statunitense, mentre i civili sarebbero
potuti rimanere a Beirut sottostando alle leggi libanesi.
L’11 settembre il ministro israeliano Sharon ribadì però che
tra i profughi dei campi di Sabra e di Shatila “si nascondevano oltre duemila
terroristi”, annunciando di fatto la strage che sarebbe avvenuta pochi giorni
dopo. Il 14 settembre un ordigno esplose davanti alla sede del partito
falangista libanese uccidendo il suo leader Bashir Gemayel. L’esercito
israeliano, in risposta, invase la zona occidentale di Beirut, rompendo il
patto precedentemente stretto. Le falangi, in accordo con le forze
israeliane, utilizzarono l’assassinio del proprio leader come pretesto per
attaccare i profughi palestinesi. Dopo l’evacuazione da Beirut dell’Olp e dei Fedayyin agli ordini del presidente
Arafat – prevista dagli accordi di cessate il fuoco mediati dagli Usa – i
profughi palestinesi erano rimasti senza alcuna protezione. In effetti, quando
le falgi cristiane libanesi entrarono neì campi, non ci fu nessuna reazione
poiché, al contrario di quanto sosteneva Ariel Sharon, non vi era nessun
guerrigliero ma soltanto civili disarmati che non opposero (e non potevano
opporre9 alcuna resistenza a quello che fu uno dei più feroci massacri del
conflitto arabo israeliano.
“Ce lo dissero le mosche” è l’attacco
del reportage del giornalista inglese Robert Fisk, tra i primi a entrare su Sabra
e Shatila, riferendosi agli insetti che assediavano il campo profughi con
i corpi delle vittime in putrefazione. Loren Jankins scrive sul
quotidiano “Washington Post” del 20 settembre 1982:
« La scena nel campo di Shatila, quando gli osservatori
stranieri vi entrarono il sabato mattina, era come un incubo. In un giardino, i
corpi di due donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa di
un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa di un bambino. Oltre
l'angolo, in un'altra strada, due ragazze, forse di 10 o 12 anni, giacevano sul
dorso, con la testa forata e le gambe lanciate lontano. Pochi metri più avanti,
otto uomini erano stati mitragliati contro una casa. Ogni viuzza sporca attraverso
gli edifici vuoti - dove i palestinesi avevano vissuto dalla fuga dalla
Palestina alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 - raccontava la
propria storia di orrori. In una di esse sedici uomini erano sovrapposti uno
sull'altro, mummificati in posizioni contorte e grottesche. »Ogni
anno la strage viene commemorata sul luogo del massacro. Commissione Kahan.
Il 16 dicembre 1982, come detto, l'Assemblea generale delle Nazioni
Unite condannò il massacro, definendolo "un atto di
genocidio" (risoluzione 37/123, sezione D). L'8 febbraio
1983, la Commissione Kahan giunse
alla conclusione che i diretti responsabili dei massacri erano state le Falangi libanesi, sotto la guida di Elie Hobeika. La stessa Commissione ammise
anche la "responsabilità indiretta" del Primo Ministro israeliano Menachem Begin (per aver ignorato quanto accadeva
e non aver esercitato la dovuta pressione sul Ministro della Difesa e sul Capo
di Stato Maggiore affinché intervenissero a fermare il massacro), del
Ministro della Difesa Ariel Sharon (per aver gravemente sottovalutato le conseguenze di un eventuale
intervento falangista all'interno dei campi profughi e per non aver ordinato le
misure per prevenire il massacro), del Capo di Stato
Maggiore Rafael Eitan (per non aver ordinato le adeguate misure per prevenire o
ridimensionare il massacro) e di altri ufficiali. La Commissione suggerì
inoltre le dimissioni di Sharon (che furono presentate ed accettate), la non
riconferma del Direttore dei servizi segreti dell'esercito Yehoshua Saguy e la rimozione di tutti gli altri
ufficiali.
Nel giugno del 2001, 40
parenti delle vittime del massacro denunciarono Sharon in una corte belga
per crimini di guerra. Il caso portò a dure ripercussioni
nelle relazioni fra Belgio e Israele e fu fra le ragioni che portò alla
revisione della cosiddetta "legge sul genocidio" in senso
restrittivo. Il 24 settembre 2003, la Corte di Cassazione del Belgio dichiarò
il non luogo a procedere perché nessuno dei ricorrenti aveva la nazionalità
belga (condizione richiesta dalla nuova versione della legge).
Elie Hobeika non fu mai processato e lungo
gli anni novanta fu più volte deputato e
anche ministro in vari Governi libanesi, avvicinandosi sempre più alla Siria. Morì il 24 gennaio 2002 in un attentato, dopo essersi
dichiarato disponibile a deporre nel processo belga a Sharon e a chiarire le proprie
responsabilità nel massacro: "Per 19 anni ho portato il peso di accuse mai
dimostrate senza aver l'opportunità di provare la mia innocenza".
Vincenzo Maria D'Ascanio
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