Quello che ho scritto è
lungo, disordinato, poco rivisto e poco rimesso a posto. Ma dice quello che
penso e soprattutto sento in questi gironi. Lo dedico alle mie amiche e ai
miei amici. Che lo leggano o non lo leggano.
So che le parole a mia
disposizione sono al di sotto di quello che è necessario, di quello che provo.
E so anche che non so dire quello che penso se non con le parole di sempre. Poco
pesano, queste mie parole, lo so bene, contro la virulenza dei nuovi linguaggi
politici che hanno stravinto e avuto la capacità performativa – altamente performativa,
bisognerebbe pensarci su seriamente alla forza trasformativa che il linguaggio
continua ad avere sull’anima umana, sull’insieme di quell’anima, fatta di
cervello, pancia, cuore, nervi, sangue, immaginario, sogni e desideri,
soprattutto nell’epoca selvatica del parlare tutti di tutto, senza capacità di
ascolto né di riflessione, senza riferimenti che non sia oramai il qui e ora
del grido, insulto, sghignazzamento contro chiunque capiti a segno. I neri
oggi,soprattutto, loro.
Quelli che ci invadono,
ci rubano lo spazio, le case, l’assistenza medica, i posti a scuola per i
nostri figli, e via così. Ed è inutile dare i numeri effettivi, ufficiali, che
smentono, dire che non è cosi. Assurdo parlar di invasione. Assurdo non voler
capire come stiano effettivamente le cose. Il linguaggio della ruspa, degli
insulti animaleschi a una ministra della Repubblica, rea di essere nera di
pelle, gli slogan del “prima gli italiani”, del “loro” meglio a casa loro, dei
necessari e sempre “benemeriti” respingimenti, dell’ ”aiutiamoli a caso loro”,
del “non se ne può più dell’invasione”, del “siamo alla sostituzione etnica” e
altre immonde immondezze sul genere. Un crescendo a cui nessuno si è opposto,
nessuno ha messo qualche alt istituzionale, nessuno ha preso di petto i peggiori
caporioni della campagna xenofoba, protetti dall'immunità che il consenso ormai
garantisce, e dal lento egemonico diffondersi del loro blaterare denso di odio
puro. Oggi tutti – fatte salve poche eccezioni – parlano ormai lo stesso
linguaggio, si distinguono qua e là con qualche “ovvio che se cadono in mare
bisogna salvarli” che fa “sinistra” o con qualche residua resistenza sullo ius
soli.
Anche questo fa
sinistra. E il capo della Cei ha benedetto il decreto del ministro relativo
alle Organizzazioni non governative impegnate in questi anni in mare a salvare
vite umane. Trattate all’improvviso come sospette di commercio di schiavi. In
barba a Francesco che dice altro? In barba perché Francesco è il transeunte, la
Chiesa di Roma l’eterno.
Capacità di
automatizzazione dei cervelli in un’unica direzione: questa è stata la forza di
quel linguaggio, esso sì osceno e fuori misura. Acquiescenza complice,
conformismo opportunista – tiriamo a campare , lasciamo fare a chi di dovere –
euforia identitaria sempre più estesa e galvanizzante – “noi” e “loro”,
finalmente lo possiamo dire liberamente – e poi spirito gregario, tipicamente
italico, dietro all’uomo forte, o supposto tale, di turno. E silenzio tombale
da parte della frantumaglia detta ancora, dai buontemponi di oggi,
“centrosinistra”. Ma, dal loro punto di vista, fanno bene a chiamare così
l’oggetto del loro desiderio politico.
Hanno capito che le
parole della politica non vengono più associate da tempo a fatti concreti e
servono solo a definire i campi del gioco elettorale. Questo a me e questo a te. Che volete di più,
ho chiesto in questi giorni a un mio amico che si affannava a spiegarmi la
lungimiranza del nuovo leader nazionale Giuliano Pisapia. Gli ho detto
“lasciamo perdere, davvero”. Non mi piace parlare troppo male di persone con
cui ho avuto rapporti di amicizia.
Sono in questo stato da diverso tempo. Ho pensato più volte di lasciar correre. Di non scrivere nulla su quello che Franco Berardi Bifo, che spesso scrive cose che condivido, ha voluto chiamare Auschwitz on the beach, in preparazione di un incontro a Kassel sui temi dell’immigrazione, se ricordo bene quello che ho letto, ma che a me è parsa soprattutto una modalità comunicativa scelta per lasciare attoniti di fronte al coraggio della provocazione.
So bene che bisogna
fare scandalo – oportet ut scandala eveniant, dice anche il Vangelo che in
certi passaggi è fulminante - in certi momenti è proprio necessario, e si può
fare scandalo spesso con quello che si dice. E’ questo è sicuramente uno di
quei momenti. Ma come, su che cosa squarciare la coltre dell’adattamento? Con
quali parole che sono tutte logorate e rese indifferenziate dall’uso abnorme
che se ne fa? E puntare sul peso della provocazione non significa forse fare
buio sul grigio dei percorsi della coscienza, sui modi del ramificarsi più che
del male dell’indifferenza al male, che è il vero male canceroso del mondo.
Sulla terribile presa che la banalità del male – come ebbe a dire
magistralmente Hannah Arendt nei giorni del processo contro Adolf Echmann, a
Gerusalemme a cui partecipò come inviata del New Yorker, Osservando a fondo
l’uomo reo dell’orrore dello sterminio e scandagliandone il grigiore
burocratico tipico di chi è addetto senza responsabilità a eseguire, vede in lui
il mediocre prototipo dell’uomo che aveva vissuto entro i limiti di quello che
dall’alto gli dicevano di fare, senza porsi problemi, come un topo di
laboratorio che obbedisce passivamente agli stimoli.
La banalità del male
che ritorna di fronte alla morte in mare di nuovo possibile per migliaia di
persone o al respingimento in luoghi di morte del corpo e dell’anima. Mi
sembra il tema su cui saper inventare un linguaggio che sia all’altezza della
sfida.
Tanto tutto è inutile, ho pensato in queste settimane. Qualche post sul ministro, più come segnale politico a quelli del gruppo di SI che spesso non vanno tempestivamente in profondità – o non ci vanno per niente - e tendono a perdersi nei soliti risiko del come andare alle prove elettorali. E scrivendo qua e là quello che mi veniva in mente e che tornata a Roma sono stata tentata di rimettere un po’ in ordine.
Perché rinunciare a
scrivere è per me rinunciare a una spinta dell’anima, a un rapporto col mondo
che amo, più intensamente lo amo quanto più vedo che si accumulano storture,
iniquità, orrori, che tuttavia non lo cancellano, non riescono a cancellarlo,
quel mondo. Che non ha nulla di utopico ma sono vite incarnate, spesso fragili
e vulnerabili, come ci ha insegnato a dire Judy Butler, ma spesso anche eroiche
o ostinate. O semplicemente belle da sapere che ci sono, come certe vicende di
donne di Paesi ancora troppo ostili verso le donne.
Penso al vecchio
archeologo di Palmira, responsabile dei tesori archeologici custoditi in quella
antica città, risalente all’epoca romana, che i forsennati assassini dell’Isis
hanno fatto saltare nei punti più significativi, riducendola a un ammasso di
rovine. Il responsabile di quel tesoro è morto per difendere la trasmissione
della cultura, i reperti del mondo come bene comune, come cultura a
disposizione degli umani. Aveva nascosto centinaia di statue per sottrarle alla
furia iconoclastica dell’Isis. Lo hanno alla fine preso prigioniero e gli hanno
tagliato la gola sulla pubblica piazza. Si chiamava Khaled Asaad e quando lo
hanno ammazzato aveva 82 anni. Penso a quei giovani, ragazze e ragazzi che
ancora si ostinano a pensare al futuro, a immaginare come non soccombere al
presente e inventarsi la vita. E negli Usa si mobilitano alla grande contro lo
sfrenato razzismo dei suprematisti bianchi negli Stati del Sud, dove il Ku Klux
Klan non ha mai cessato di tessere le sue trame razziste.
Neanche il Presidente
nero è riuscito a cambiare le cose in materia di razzismo. Forse – è quello che
tristemente penso – ha stimolato, con la sua sfacciata bellezza prestanza
carisma le ragioni dell’odio di certa marmaglia bianca che oggi cerca le
coperture del tipo insano che ha vinto la Casa Bianca. E mi vengono in mente le
ragazze di Non una di meno, il coraggio intellettuale e pratico di immaginare
uno sciopero globale delle donne.
Cerco di capire come
improvvisamente – così è sembrato anche a me, anche io sono stata colta di
sorpresa - ci siamo ritrovati con un ministro degli Interni che può essere
definito senza esagerazione “di ferro”, e che- come se nulla fosse - ha
sbaragliato il tavolo “immigrazione” , facendo saltare il gioco degli equivoci,
molto democristiani, in cui si erano esercitati in continue performance europee
Renzi da premier e Alfano finché è stato lui ministro degli Interni. L’Europa
deve fare la sua parte, ripetevano, anche quando smaccatamente l’Europa se ne
infischiava e permetteva che si mettessero i sigilli ovunque e gli Stati
dell’Ue si riscoprivano sovranisti e bloccavano ovunque le frontiere,
annullavano Schengen, a Ventimiglia, sul Brennero, con l’Austria che strillava
contro chi sconfinava dal suo lato, e intorno a Como, sul confine con la
Svizzera, e sulla rotta orientale. E l’orrendo patto stipulato con la Turchia
di Erdogan, di cui ci siamo dimenticati e lo mimiamo infinitamente al peggio
nella disastrata Libia. E ovunque morti in mare, in questi anni, nonostante lo
strenuo lavoro di salvataggio. Figuriamoci quando cesserà, perché il tentare
l’altrove è oggi l’esito una spinta vitale troppo forte che non cesserà di
essere tale nei prossimi anni.
Mare Mediterraneo, mare
tra le terre significa il nome, mare nostrum lo chiamavano i Romani che anche
grazie a quel mare costruirono il loro impero e a un certo punto diedero a
tutti la cittadinanza di Roma. Nel 212 dopo Cristo, con la Constitutio
Antoniniana voluta dall'imperatore Caracalla. “Ego civis romanus sum”, pensate
un po’, lo potevano dire da tutti i pizzi dell’impero.
E in Italia per uno “ius
soli” dimezzato, le argomentazioni contro o a favore rasentano l’orrendo
ridicolo: del razzismo xenofobo da una parte, del buonismo d’accatto
dall'altro. Se una creatura nasce in Italia, soprattutto se da una donna, una
coppia, chi volete voi che sia in qualche modo stanziale in questo Paese, ha
diritto a essere riconosciuto nativo italiano. Punto e basta così. Deve sapere
dell’Italia? Certo che deve, e anche da dove vengono i suoi così tutti i
ragazzi italiani sapranno qualcosa in più del mondo. Ma intanto chiedetelo ai
ragazzi made in Italy da sette generazioni – mio padre scherzava sulla sua
sardità in questo modo – quanto sanno dell’Italia. E i politici nostrani? Ma
che significa poi sapere dell’Italia?
Ai sovranisti di destra
e anche di sinistra bisognerebbe chiederlo, e farci capire da loro in nome di
quale Italia costituzionalmente pensata e orientata possano essere d’accordo
col decreto anti Ong del ministro, oltre che su quella legge sulla cittadinanza
ormai dimezzata e pressoché buttata nel dimenticatoio. Decreto anti ong, così
va chiamato, sic et simpliciter, per capire chi e fino a che punto siano
d’accordo sui respingimenti, sull'osceno decreto del ministro, e sui patti
infami con la Libia. Bisogna usare parola di verità. Almeno questo.
Di Elettra Deiana.
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