giovedì 8 marzo 2018

Rassegna stampa 08 Marzo 2018


Il crollo di Leu, Piras: «Sinistra di nuovo all'anno zero» Il parlamentare uscente di Art.1-Mdp rilancia la costruzione di un campo progressista

Non solo aveva messo in conto la sconfitta, ma anche la disfatta. «È stata una vera catastrofe ma sapevamo che sarebbe andata così», dice. Lo aveva previsto in tempi non sospetti Michele Piras, deputato uscente di Art.1-Mdp, quando il 26 gennaio aveva deciso di non candidarsi nelle file di Leu. «Non sono un veggente, ma quando il gruppo dirigente ha fatto quella scelta scellerata di riprodurre se stesso senza proporre una valida alternativa, era inevitabile che sarebbe finita in questo modo», dice.

UNA PUNIZIONE ATTESA Il voto dei sardi ha punito Liberi e Uguali, più che nel resto del Paese. Cominciamo dal risultato: 3,1% alla Camera, meno quindi del 3,3% ottenuto a livello nazionale, sì appena sopra la soglia di salvezza che, però, non è stata sufficiente a portare a Montecitorio neanche un sardo. «Candidare nel collegio plurinominale alla Camera un dirigente nazionale, slegato dal territorio, e neppure neanche così noto come Claudio Grassi, è stato un errore», dice. Giura che non si tratta di una questione di “etnia”.

«Se al posto di Grassi avessimo candidato un non sardo che, però, vive in Sardegna da tempo e conosce i problemi dell'Isola, non sarebbe stato un errore. Il problema, invece, è che il gruppo dirigente ha scelto di candidare persone da riposizionare in Parlamento, producendo il disastro che è uscito dalle urne».

AUTOCRITICA E' andata male, malissimo. Per questo motivo non assolve nessuno, Michele Piras. Né Piero Grasso, «mi è parso inadeguato e poco efficace sul piano comunicativo», né Massimo D'Alema, «uno che ha avuto coraggio nel candidarsi nel collegio uninominale, ma non si può riproporre la solita minestra riscaldata». Non considera immune da colpe neanche se stesso. «Non mi assolvo, certo, ma chi ha provocato questo disastro si deve assumere la responsabilità e fare un passo indietro».

UN DEJA-VU A botta fredda, il deputato isolano ricorda che «lo stesso disastro l'abbiamo vissuto nel 2008 con la Sinistra Arcobaleno, un progetto fallimentare che partiva con l'obiettivo di ottenere almeno il 10% dei consensi e chiuse con il 3%, tenendo la sinistra addirittura fuori dal Parlamento», quando lo sbarramento era al 4%.

IL FUTURO Ora si riparte. Ma da dove? «Dal dialogo con le persone, riaggregando e ricostruendo la sinistra, riappropiandosi di temi come il lavoro, i diritti, etc. Obiettivo: «Evitare che si ripeta lo stesso scenario alle elezioni regionali del prossimo anno».

Ma. Mad.


La Nuova

Il Pd sempre più nel caos tra rimpasto e segretario
Oggi in segreteria Cucca a rischio sfiducia. E c'è chi chiede cambi in giunta

di Umberto Aime
CAGLIARIÈ tutto nelle mani del Pd. Dal futuro della segreteria
regionale, è ovvio, all'improbabile o poco probabile, secondo i punti
di vista, rimpasto in giunta. Rimpasto oggi voluto più dagli alleati,
molto meno dal governatore Pigliaru, per lui è irricevibile, e da gran
parte dello stesso Pd. Sembra assurdo, ma è così: chi domenica, nei
seggi, ha preso una batosta senza precedenti, continua ad aver in mano
le carte del mazzo. La prima è questa: il segretario regionale
Giuseppe Luigi Cucca deve dimettersi subito, senza nessun'altra
sollecitazione, o essere sfiduciato dalla maggioranza che lo ha eletto
nove mesi fa?

Poi la seconda: in quest'ultimo anno di legislatura, chi
dovrà governare, gli assessori tecnici, o quelli politici? Sono
interrogativi difficili e pesanti su cui il Pd, sotto choc, ha chiesto
due o tre giorni prima di dare le risposte. Così è saltato
l'annunciato vertice di maggioranza, col Pd che ha scelto invece di
riunirsi in gruppi e gruppetti. Non poteva essere diversamente vista
l'aria: il rientro in Consiglio degli sconfitti è stato mesto e di
molti anche a testa china. Ci vorrà ancora del tempo prima che la
sconfitta sia metabolizzata e decise soprattutto le contromisure,
almeno quelle più urgenti.

Fior di pelle. I nervi tesi nella prima
giornata post elezioni si sono materializzati sin dall'inizio della
seduta del Consiglio. E non solo perché una decina di
consiglieri-candidati sono usciti con le ossa rotte dalle Politiche,
appena in quattro ce l'hanno fatta, e non solo perché una delle
battute più pepate raccolte nei corridoi è stata questa: «Altro che
Roma, sono rimasti inchiodati in via Roma», la strada cagliaritana
dove si affacciano le finestre dell'Assemblea. Perché c'è stato anche
dell'altro seppure sotto traccia. Per ben due volte, in poco più di
un'ora, in aula è mancato il numero legale. È vero che all'ordine del
giorno c'era la legge sugli appalti, che parte della maggioranza pare
aver subito dopo la recente e giusta levata di scudi del Partito dei
sardi: era ferma da troppo tempo.

 È vero anche che gli auguri, ai
pochi eletti, e le pacche compassionevoli sulle spalle dei molti
sconfitti hanno riempito più il bar interno che l'aula dimezzata. A
mezzogiorno è stata una votazione elettronica a certificare il
disinteresse: solo ventotto presenti su sessanta. Con la maggioranza
dei consiglieri, a quel punto, impegnata in tutt'altro. In che cosa?
Nelle annunciate e interminabili riflessioni elettorali. La giornata è
andata avanti così fino alle 20.30, ora d'inizio della diretta di
Champions Tottenham-Juventus, col Consiglio che per fare ancora più in
fretta ha calciato la palla in tribuna e s'è sciolto in un
battibaleno. Dopo aver svolto però quanto richiesto: il via libera
alla legge sugli appalti e salvato una trentina di dipendenti dell'ex
Hydroncontrol, che rischiavano il licenziamento dopo una sentenza
avversa della Corte costituzionale.

Segreteria ballerina. È sempre più
quella di Giuseppe Luigi Cucca del Pd. Oggi ha convocato i nove che ne
fanno parte. I tre della corrente di Renato Soru - Giuseppe Frau,
Antonio Piu e Barbara Cadoni - dovrebbero presentarsi dimissionari,
per mettere pressione su Cucca. I tre popolari-riformisti - Pietro
Morittu, Alberta Grudina e Aldo Pili - vorrebbero fare lo stesso, ma
pare invece che i capocorrente abbiano deciso di concedere l'onere
delle armi a Cucca dopo aver contribuito ad eleggerlo nove mesi fa. Il
che vorrebbe dire: a decidere, alla fine, non saranno i singoli ma
l'assemblea del partito. Gli unici tre della segreteria ancora al
fianco di Cucca rimangono quelli della sua corrente, composta da
renziani ed ex Diesse, e in concreto Giannarita Mele, Sebastiano
Mazzone e Michela Mura. Calcolatrice alla mano, il segretario non
avrebbe più la maggioranza, perderebbe sei a quattro. Ma oggi la
segreteria non dovrebbe arrivare alla conta finale.

Una delle vie
d'uscita per evitare il pericoloso testa a testa potrebbe essere
questa: convocare la direzione regionale entro venerdì 16, ascoltare
quel giorno la relazione del segretario sulla sconfitta elettorale,
aprire il dibattito e poi vedere cosa accade. In ogni caso la
decisione finale, non dovrebbe spettare neanche alla direzione. Il
regolamento interno impone che a votare la sfiducia o ad accettare le
dimissioni sia soltanto l'assemblea dei 160 delegati eletti a luglio
insieme al segretario.

Assemblea dove Cucca dovrebbe avere ancora la
maggioranza. Dovrebbe perché quella che lo ha scelto la scorsa estate
pare che, dopo la tranvata di domenica, si sia dissolta. Se da sempre
i soriani sono all'opposizione dopo essere usciti sconfitti dalle
primarie per la segreteria, anche i popolari-riformisti sarebbero
pronti al passo indietro, o comunque avrebbero fatto arrivare a Cucca
messaggi eloquenti su quello che si aspettano. Oggi quindi si
comincerà a capire quale potrebbe essere il futuro del Pd e del
centrosinistra da qui a una settimana. I bookmaker hanno azzardato: ci
sarà un nuovo segretario, non subito ma ad aprile . E il rimpasto in
giunta? Si vedrà anche se continua a essere irricevibile per Pigliaru
e gran parte di un Partito democratico, che vorrebbe provare a
resuscitare prima di Pasqua.

Sabatini travolto dal ciclone M5s «C'è un forte malessere verso il Pd»

CAGLIARITrentamila voti di distacco dalla valanga 5 stelle, novemila
dal centrodestra. Franco Sabatini, candidato del centrosinistra alla
Camera nel collegio di Nuoro, ha lottato come un leone, ma è finito
rullato come tutto il Pd. È lui uno dei bocciati eccellenti. Non gli è
bastato essere consigliere regionale da tre legislature, o aver
stravinto, in Ogliastra, le Regionali del 2014, ormai anche quella
vittoria appartiene a un'era geologica fa.Confessi, il Pd ha sbagliato
tutto.«Esti a bentulai candu tirada su entu»

Tradotto? «Il vento che
ha soffiato il 4 marzo è stato quello della rottura radicale, della
discontinuità. Ha travolto il Pd e premiato i 5 stelle e la Lega». Non
sia reticente, si sente colpevole da solo o in compagnia.«C'è chi,
incline alla personalizzazione e alla ricerca del capro espiatorio,
spiega lo tsunami nell'avversione al gruppo dirigente del Pd».

S'è
consumato un rigetto? «L'avversione da sola non è sufficiente a
giustificare quanto avvenuto nelle urne. Bisogna però essere più
profondi».Lo faccia.«Esiste un malessere diffuso che è di un'evidenza
tale da ridare la vista a un cieco. Le nostre risposte, quelle del
governo nazionale e regionale, sono apparse agli elettori come
unguenti insignificanti e trascurabili»

Un centrosinistra rifiutato.«Ho
macinato chilometri, visitato paesi, fatto comizi, manifestazioni,
distribuito volantini, parlato con singoli e gruppi, percorso le
nostre strade, stretto migliaia di mani, entrato nei bar, ricevuto e
dato pacche sulle spalle».

Non è bastato.«È vero».Si sarà dato una
spiegazione«Sì, questa: in troppi sguardi, ho colto la sorpresa nel
vedere un candidato fra la gente».

Pessimo segnale.«Sì, perché più di
una volta mi sono sentito ripetere: vi fate vedere solo quando c'è una
votazione, e qualcuno ha aggiunto un ancora più preoccupante siete
assenti sempre

Il distacco è profondo. «Ho capito ancora di più come i
cittadini vedono i politici e se a pensarla così sono gli iscritti di
lunga data è peggio».La crisi è ancora forte.«È reale. Purtroppo molti
politici continuano a voltare la faccia altrove e a dispensare un
ottimismo ingiustificato. Nel mio viaggio elettorale, ho toccato con
mano diverse situazioni di crisi».

Quali? «Le aree industriali della
Sardegna centrale sono alla smobilitazione da anni. Come Pd nazionale
ci siamo inventati l'Industria 4.0. Bene, è un'ottima misura per aree
ancora vive, ma del tutto inadeguata per quelle che vivono il declino.
A noi serve un grande progetto per la reindustrializazione e oggi non
c'è».
Poi l'agricoltura. «Dov'è mancata una profonda riforma
dell'apparato amministrativo. È rimasto quello che era: incapace di
dare risposte in tempi accettabili. Non sono più tollerabili
l'inefficienza e una burocrazia che blocca persino le pratiche più
semplici».

La sanità ha pesato? «Ho sostenuto con forza la riforma
sanitaria e so che una riorganizzazione ha bisogno di tempo per dare
buoni frutti. Se esiste, tuttavia, una così diffusa irritazione
all'interno degli ospedali, occorre prenderne atto. Non possiamo
barricarci ancora dietro la perfezione del disegno, rischiando alla
fine di dover constatare "che l'operazione è riuscita ma il paziente è
morto". C'è qualcosa che non sta funzionando, non possiamo far finta
che i problemi non esistano e dunque dobbiamo correggere quello che
non va».

Cosa accadrà nel Pd? «È indispensabile aprire una riflessione
profonda. Ma che non si trasformi, un attimo dopo, nel solito scontro
interno. I nostri iscritti ed elettori hanno perso la pazienza e non
accettano più il correntismo degenerato che spinge alla rissa
continua. Hanno detto basta anche ai personalismi che antepongono le
ambizioni dei singoli all'interesse del partito».

Risollevarsi sarà
difficile.«Il Pd è ancora un partito organizzato, radicato nel
territorio, che ha circoli, iscritti e dirigenti. Ha un patrimonio
umano, prima ancora che politico, e resistente nonostante tutto».Serve
una terapia choc.«Basterebbe rivitalizzare il sentimento di
appartenenza, facendone dei circoli il luogo dove elaborare idee e
azioni. I circoli devono tornare a essere i nostri occhi e le nostre
orecchie».

Uscite almeno dai Palazzi. «C'è mancata la capacità di
ascolto delle persone oltre che di sindacati e imprenditori. Siamo
rimasti chiusi dentro una bolla di rigidi schemi mentali e
comportamentali che ci ha impedito di mantenere un contatto autentico
con la realtà. Soprattutto con quella parte che ha sopportato
maggiormente il peso della crisi. Lo confermo: c'è stata una nostra
progressiva incapacità di rapportarci con la società sarda, di dare
quelle risposte che si attende».

È l'ultima occasione per risorgere e
non perdere anche le Regionali del 2019? «Se vogliamo risalire la china
serve un grande lavoro, una discussione interna franca e senza zone
d'ombra ma anche una grande capacità di leggere i processi economici e
sociali, le trasformazioni che attraversano l'economia e la società».
(ua)

Maninchedda corteggiato. E Fois: «Pensiamo a una coalizione su base sarda»
Pds e Riformatori verso le Regionali

SASSARILe grandi manovre iniziano anche tra chi alle Politiche non ha
partecipato. Ma se qualcuno si illude che i partiti fuori dalla gara
siano rimasti in somno non conosce i complicati rituali della
politica. In molti si preparano per le Regionali e il grande Risiko
delle alleanze è già iniziato. Il Partito dei Sardi è rimasto a
guardare, e ha inviato l'elettorato a un non voto. Ma in queste
settimane la posizione del leader Paolo Maninchedda sembra essersi
rafforzata. In particolare dopo il tracollo elettorale del Pd.
Maninchedda in queste settimane dal suo blog ha continuato a parlare
di una iniziativa forte, capace di cambiare e stravolgere gli
equilibri consolidati.

E nel silenzio si tesse la tela delle alleanze.
Ma anche i Riformatori non sono scesi in campo in polemica contro una
legge che non dava nessuna possibilità a partiti su base regionale di
eleggere qualche candidato. E il commento su come il voto è andato lo
fa il coordinatore regionale dei Riformatori sardi Pietrino Fois.
«Queste elezioni hanno certificato il fallimento dei partiti nazionali
- dice Fois -. Hanno pensato di imporre programmi e persone che poco
rappresentavano i territori. È vero che figure più autorevoli
avrebbero potuto fare la differenza. Ma io vado oltre. Per il futuro
si deve iniziare a guardare a ipotesi di coalizioni straordinarie.
Perché davanti a schemi già consolidati non si riesce ad avere più
nessun tipo di consenso. Ci vuole buona volontà da parte dei partiti
che hanno un forte radicamento regionale.

Ora sono questi ad avere la
maggioranza rispetto a quelli che hanno impostazioni e imposizioni
nazionali. Si deve essere pronti a condividere percorsi ed esperienze
per creare una coalizione con una forte trazione e una forte idea di
sardità. Questo deve essere uno dei punti su cui noi Riformatori
intendiamo insistere. Ma crediamo che il punto cardine su cui ci si
debba muovere sia il principio della condivisione dell'insularità in
Costituzione. Questo ci consentirebbe di avere risorse certe, di avere
autonomia e certezza dei rapporti con lo Stato.

È la chiave
fondamentale per ridurre il gap che la Sardegna ha rispetto alle altre
regioni italiane ed europee. Siamo pronti a parlare con chi sostiene
con noi la rottura di vecchi schemi che non portano più a nulla. Si
può anche parlare alla pancia della gente. Ma si deve passare dalla
testa. Altrimenti le forze populiste avranno la meglio rispetto alla
buona politica».

Renzi si è dimesso Lettera formale al Pd
Lo ha rivelato Orfini, il presidente del partito. Assemblea entro un mese
Ora alla guida c'è il vice Martina. Calenda contro l'accordo con il M5s


di Serenella MatterawROMAC'è una lettera di dimissioni firmata da
Matteo Renzi all'indomani della debacle elettorale. Lo rivela, tre
giorni dopo, il presidente del Pd Matteo Orfini per stoppare il
pressing di maggioranza e minoranza del partito, con tanto di
documenti di esponenti locali, sulla necessità di un passo indietro
«vero» del segretario.

L'assemblea che sarà convocata entro un mese
deciderà se eleggere un nuovo segretario o indire il congresso.
Intanto, precisa Orfini, «lo statuto non consente margini
interpretativi né soluzioni creative»: resta a guidare il Pd fino
all'assemblea il vice Maurizio Martina, spiegano i renziani, come
quando si dimise Veltroni e i poteri passarono a Franceschini. Un no
netto dunque, ad ora, alla richiesta della minoranza di un organo
collegiale per governare questa fase.

E così gli animi restano
infiammati, la convivenza faticosa. Il tentativo in corso è arrivare
in direzione lunedì - alla quale alla fine Renzi potrebbe partecipare
- se non a una pace, a una tregua armata. Ma il livello di fiducia
reciproca è ai minimi termini e le «truppe» sono pronte alla conta: i
renziani assicurano di avere il pieno controllo (circa il 70%) della
direzione, gli oppositori sostengono che i singoli (si cita ad esempio
il nome di Debora Serracchiani) sono in movimento, la situazione è
fluida. Su un punto, per il momento, si trovano tutti formalmente
d'accordo: no a un governo con i Cinque stelle. «La mia area e la
maggioranza, in tutto il 90% del gruppo dirigente Pd, è contrario»,
assicura Andrea Orlando, riunendo la sua corrente.

E se la presidente
dell'Umbria Catiuscia Marini invoca un referendum tra gli iscritti e
il presidente della Puglia Michele Emiliano un'apertura a Di Maio,
Orlando assicura che sono una minoranza. Anche Carlo Calenda, che
prende la tessera Pd e lancia la leadership di Paolo Gentiloni,
assicura che quella tessera la straccerebbe in caso di intese con il
M5s. E si guadagna un duro attacco di Emiliano: «Bisogna liberarsi di
quelli come Calenda». Ma, chiosano fonti renziane, per il sostegno a
M5s ci vorrebbero almeno 90 deputati Dem, ma su un gruppo di 104,
un'ottantina di eletti sarebbero di provata fede renziana: chi volesse
votare l'intesa fallirebbe.

Diverso il discorso su un'intesa con la
destra, ragionano le stesse fonti. Renzi è contrario e anche Orlando
dice no, ma servirebbero numeri più bassi e non è escluso che con il
passare delle settimane le truppe alla Camera si assottiglino (più
difficile al Senato, dove la compagine renziana sarebbe solida). Ma il
discorso del governo è di là da venire e la stessa Anna Finocchiaro
che nella riunione dell'area Orlando tiene ferma la linea del no a
destra e M5s, spiega ai colleghi che in caso di stallo non ci si
potrebbe sottrarre in partenza ad ascoltare eventuali altre soluzioni
proposte da Sergio Mattarella.

Il tema si pone prima, spiegano
renziani e non, e riguarda presidenze delle Camere e guida dei gruppi
Dem. È per questo che la minoranza, ma anche un pezzo di maggioranza,
sono in pressing per una gestione collegiale della fase che si apre:
servono soluzioni condivise, è la richiesta, passo dopo passo. Ma al
dunque, spiegano gli iper-renziani, decidono i numeri. A dimostrare
buona volontà si spiega che per i gruppi saranno scelti nomi renziani
ma non «pasdaran» (si cita Lorenzo Guerini alla Camera, Teresa
Bellanova al Senato).

E Maria Elena Boschi si tira fuori dalla
partita, smentendo di essere interessata al ruolo di capogruppo o a
una vicepresidenza di Montecitorio. Ma il braccio di ferro è destinato
a proseguire. E la minoranza non esclude di presentare lunedì in
direzione un documento per ottenere che, come vuole anche parte della
maggioranza, una cabina di regia affianchi Martina.


Unione Sarda

Massimo Zedda: serve un centrosinistra più unito
«Bisogna ripartire ascoltando i cittadini»

Guai a perder tempo per dare la caccia al colpevole: «Sarebbe un
errore con altre conseguenze pesanti». Ben più efficace «la ricerca di
unità per rispondere alle esigenze dei cittadini, per ricreare un
legame col Paese». Lo tsunami delle Politiche raggiunge Massimo Zedda
a Fort Lauderdale in Florida dove è in corso il più grande evento
mondiale sul turismo crocieristico, che sta premiando Cagliari.

«Il risultato del voto è pesante, ma si può ripartire dalle cose buone. E
sono tante, soprattutto a livello locale, dove un centrosinistra coeso
è in grado di intercettare meglio i bisogni dei cittadini. Non va
sottovalutata che è una crisi di livello europeo. Le forze politiche
di centrosinistra, di sinistra sono in crisi in tutta Europa».

I Dem sono sotto choc, travolti dal voto e dal caos interno.
«Non ha senso cercare responsabilità, capri espiatori. Le
contrapposizioni a oltranza hanno contribuito alla sconfitta. È l'ora
di ragionare, di ripensare, di non disperdere il lavoro fatto. Perché
ne è stato fatto tanto».

Quale lavoro?
«L'azione del centrosinistra ha permesso a un Paese lasciato sull'orlo
del baratro dal centrodestra di rimettersi in corsa. C'è ancora tanto
da fare perché la crisi ha colpito tanti. È evidente però che non
siamo stati in grado di far comprendere la drammaticità della
situazione che il Paese ha vissuto L'Italia ha cominciato a crescere
in tutti i settori, gli indicatori economici l'hanno confermato. È
evidente, però, che se i cittadini non hanno compreso fino in fondo
cosa è stato messo in campo, più di un errore è stato commesso».

Qual è l'elemento fondamentale della vittoria del Movimento Cinque
Stelle, che è andata al di là di ogni previsione.

«Le vittorie e le sconfitte non sono mai casuali e figlie di un solo
fattore. Ci sono molti elementi ad aver determinato questo scenario.
Gli effetti della crisi economica hanno fatto la loro parte: c'è il
problema del lavoro dei giovani, ci sono le difficoltà delle fasce più
deboli».

Di Maio ha fatto breccia tra tanti delusi di centrosinistra.
«Negli ultimi anni l'astensionismo è cresciuto di molti punti. È segno
che l'M5S ha pescato molto nel centrosinistra e nel centrodestra. A
Cagliari ho avuto la percezione di questi spostamenti».
Perché?

«Perché tanti cittadini mi hanno raccontato come la pensavano: ho
votato per lei nel 2011 e nel 2016, ma a quelli lì a Roma il voto non
glielo do. È la dimostrazione che gli scenari locali sono diversi da
quelli nazionali. Il consenso si manifesta in tante modalità diverse
come è successo nel Lazio».

Dove Zingaretti è stata l'eccezione nella disfatta.
«Appunto. Il singolo elettore ha votato schieramenti diversi,
scegliendo il centrosinistra alle regionali e cambiando strada alle
politiche. È stato mandato un messaggio ben preciso».

Quale?
«Dove il centrosinistra è compatto riesce a trasmettere un'idea di
governo convincente e ottiene risultati. Come è accaduto in tante
amministrazioni locali».

Ma i segnali di divisione sono stati una costante.
«Dove ci si è consumati in litigi sterili, senza parlare di argomenti
che riguardano da vicino l'elettore non si è certo raggiunto il
risultato sperato. È successo in Lombardia, è successo e a livello
nazionale».

In Sardegna il crollo del Pd e di tutto il centrosinistra è stato
ancora più pesante.
«A Cagliari città, se si guardano anche i dati di Leu e Potere al
popolo abbiamo ottenuto un risultato migliore, non solo di quello
nazionale, ma anche di quello dei capoluoghi di provincia sardi».

Che responsabilità ha il governo regionale?
«La Giunta regionale ha messo in campo molti interventi, penso al
progetto Lavoras, ma ancora non sono partiti i cantieri e
l'occupazione. In altri casi però si è sottovalutato l'effetto dei
tagli: mi riferisco alla sanità, sulla quale sono intervenuto l'anno
scorso. Ho ricevuto pochi giorni prima del voto una delegazione di
cittadini di Stampace, che avevano una petizione con 1500 firme
raccolte in tre giorni. Chiedono di avere un presidio di assistenza
sanitaria nel centro storico e sono preoccupati del futuro
dell'ospedale civile che si sta svuotando, senza che parta un progetto
di riutilzzo immediato».

Tra meno di un anno si andrà al voto: il M5S sembra non avere rivali.
«In un anno possono cambiare tante cose, bisogna avere un altro passo.
Servono interventi rapidi, la chiusura delle vertenze aperte, ad
esempio continuità territoriale e sistema di trasporti interno. Si
devono consegnare risultati ai sardi, al tessuto economico produttivo
e aiutare lo sviluppo locale con progetti e risorse per i Comuni, le
Province e i capoluoghi, la Rete metropolitana di Sassari, la città
metropolitana di Cagliari Insomma consegnare risultati ai sardi».

L'esperienza di Campo progressista andrà avanti?
«Certamente. Andrà avanti il progetto. Potrà essere la coalizione di
domani, il punto di riferimento di un centrosinistra che può ritrovare
l'unità e una spinta che porti sviluppo e occupazione in Sardegna».

Servirà una rincorsa a perdifiato.
«Si può recuperare e si può vincere, stando insieme, con un programma
di governo che dia la certezza per un futuro migliore alle imprese,
alle famiglie, ai giovani e a tutti i sardi».

Ci sono da fare i conti anche con la Lega: in poco tempo si è
ritagliata una fetta importante nell'Isola.
«Salvini è un imbroglia-popoli. È riuscito ad approfittare delle
debolezze legate alla crisi. Ha spostato l'obiettivo, ha fatto credere
che i problemi siano legati ai migranti. Perché non racconta che la
più grande crisi italiana nel Dopoguerra è arrivata tra il 2008 e il
2011, quando al governo c'era anche la Lega».

Tra i tanti effetti del voto di domenica c'è il rischio ingovernabilità.
«È un rischio serio per il Paese».

È concreta l'ipotesi che il Pd si avvicini all'M5S?
«Dubito che accada. Sapremo qualcosa di più dopo gli incontri tra il
presidente della Repubblica Mattarella e le delegazioni dei partiti».
I Dem devono stare all'opposizione?
«I risultati parlano chiaro: gli elettori hanno detto che si deve fare
opposizione. Ogni altra strada sarebbe sbagliata. Un po' di purgatorio
farà bene e servirà per elaborare idee e progetti per il Paese»

Per ora il paradiso sembra lontano.
«Di sicuro si dovrà partire dal livello locale, dove stiamo insieme
superano ostilità, divisioni, contrapposizioni. Così si potrà
ricostruire anche a livello nazionale».

Serve una cura robusta.
«È fondamentale il dialogo con la gente, si deve puntare sui diritti,
sulla scuola, sul lavoro. L'istruzione è un passaggio fondamentale:
tutti i ragazzi devono poter scegliere di andare all'università, e ai
genitori spetta la libertà economica di assicurare una crescita
intellettuale ai propri figli».

Perché il centrosinistra si è allontanato dalla parte debole della
società? Si è ritirato dalle periferie?
«Io posso parlare di Cagliari: nel 2011 e nel 2016 il centrosinistra
ha vinto anche nei quartieri popolari. Certo, è fondamentale che il
rapporto coi cittadini sia vero, sincero».

Quando non è sincero?
«Di sicuro non si può andare nelle periferie solo a fare volantinaggio
nei periodi preelettorali. Bisogna portare prima risposte, lavoro,
sviluppo. Altrimenti arriva la contestazione, non il consenso».


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Federico Marini
skype: federico1970ca


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