lunedì 16 settembre 2019

16 settembre 1982: il massacro di Sabra e Shatila. Di Vincenzo Maria D'Ascanio


(16 Settembre 1982) Periferia di Beirut. Uomini delle le milizie cristiano-falangiste entrano nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila per vendicare l'assassinio del loro neoeletto presidente Bashir Gemayel. E inizia così un massacro della popolazione palestinese che durerà due giorni. Con gli israeliani, installati a 200 metri da Shatila, a creare una cinta intorno ai campi e a fornire i mezzi necessari all'operazione. Il bilancio, secondo stime difficilmente verificabili, sarà di circa 3.000 vittime. Una grande manifestazione di protesta in Israele porta alla creazione di una commissione d’inchiesta che attribuisce ad Ariel Sharonla responsabilità del massacro, costringendolo a dimettersi da ministro della Difesa. Il 16 dicembre dello stesso anno, l’Assemblea generale delle Nazioni Uniti, nel condannare nel modo più assoluto il massacro, conclude “che il massacro è stato un atto di genocidio’’.

L’esercito israeliano aveva iniziato ad assediare la capitale libanese (Beirut) nel giugno del 1982, accerchiando i Fedayyin palestinesi ed i suoi alleati. I primi giorni di luglio del 1982 iniziarono i negoziati per porre fine all’assedio. Firmati il 19 agosto sotto il presidio degli Stati Uniti d’America, garantivano che l’esercito israeliano non sarebbe entrato nei quartieri occidentali di Beirut, in cui erano asserragliati civili e miliziani palestinesi. Questi ultimi avrebbero, quindi, lasciato la città sotto il controllo di un contingente armato statunitense, mentre i civili sarebbero potuti rimanere a Beirut sottostando alle leggi libanesi.

L’11 settembre il ministro israeliano Sharon ribadì però che tra i profughi dei campi di Sabra e di Shatila “si nascondevano oltre duemila terroristi”, annunciando di fatto la strage che sarebbe avvenuta pochi giorni dopo. Il 14 settembre un ordigno esplose davanti alla sede del partito falangista libanese uccidendo il suo leader Bashir Gemayel. L’esercito israeliano, in risposta, invase la zona occidentale di Beirut, rompendo il patto precedentemente stretto. Le falangi, in accordo con le forze israeliane, utilizzarono l’assassinio del proprio leader come pretesto per attaccare i profughi palestinesi. Dopo l’evacuazione da Beirut dell’Olp e dei Fedayyin agli ordini del presidente Arafat – prevista dagli accordi di cessate il fuoco mediati dagli Usa – i profughi palestinesi erano rimasti senza alcuna protezione. In effetti, quando le falgi cristiane libanesi entrarono neì campi, non ci fu nessuna reazione poiché, al contrario di quanto sosteneva Ariel Sharon, non vi era nessun guerrigliero ma soltanto civili disarmati che non opposero (e non potevano opporre9 alcuna resistenza a quello che fu uno dei più feroci massacri del conflitto arabo israeliano.

“Ce lo dissero le mosche” è l’attacco del reportage del giornalista inglese Robert Fisk, tra i primi a entrare su Sabra e Shatila, riferendosi agli insetti che assediavano il campo profughi con i corpi delle vittime in putrefazione. Loren Jankins scrive sul quotidiano “Washington Post” del 20 settembre 1982:
« La scena nel campo di Shatila, quando gli osservatori stranieri vi entrarono il sabato mattina, era come un incubo. In un giardino, i corpi di due donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa di un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa di un bambino. Oltre l'angolo, in un'altra strada, due ragazze, forse di 10 o 12 anni, giacevano sul dorso, con la testa forata e le gambe lanciate lontano. Pochi metri più avanti, otto uomini erano stati mitragliati contro una casa. Ogni viuzza sporca attraverso gli edifici vuoti - dove i palestinesi avevano vissuto dalla fuga dalla Palestina alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 - raccontava la propria storia di orrori. In una di esse sedici uomini erano sovrapposti uno sull'altro, mummificati in posizioni contorte e grottesche. »Ogni anno la strage viene commemorata sul luogo del massacro.  Commissione Kahan.

Il 16 dicembre 1982, come detto, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo "un atto di genocidio" (risoluzione 37/123, sezione D).  L'8 febbraio 1983, la Commissione Kahan giunse alla conclusione che i diretti responsabili dei massacri erano state le Falangi libanesi, sotto la guida di Elie Hobeika. La stessa Commissione ammise anche la "responsabilità indiretta" del Primo Ministro israeliano Menachem Begin (per aver ignorato quanto accadeva e non aver esercitato la dovuta pressione sul Ministro della Difesa e sul Capo di Stato Maggiore affinché intervenissero a fermare il massacro), del Ministro della Difesa Ariel Sharon (per aver gravemente sottovalutato le conseguenze di un eventuale intervento falangista all'interno dei campi profughi e per non aver ordinato le misure per prevenire il massacro), del Capo di Stato Maggiore Rafael Eitan (per non aver ordinato le adeguate misure per prevenire o ridimensionare il massacro) e di altri ufficiali. La Commissione suggerì inoltre le dimissioni di Sharon (che furono presentate ed accettate), la non riconferma del Direttore dei servizi segreti dell'esercito Yehoshua Saguy e la rimozione di tutti gli altri ufficiali.

Nel giugno del 2001, 40 parenti delle vittime del massacro denunciarono Sharon in una corte belga per crimini di guerra. Il caso portò a dure ripercussioni nelle relazioni fra Belgio e Israele e fu fra le ragioni che portò alla revisione della cosiddetta "legge sul genocidio" in senso restrittivo. Il 24 settembre 2003, la Corte di Cassazione del Belgio dichiarò il non luogo a procedere perché nessuno dei ricorrenti aveva la nazionalità belga (condizione richiesta dalla nuova versione della legge).

Elie Hobeika non fu mai processato e lungo gli anni novanta fu più volte deputato e anche ministro in vari Governi libanesi, avvicinandosi sempre più alla Siria. Morì il 24 gennaio 2002 in un attentato, dopo essersi dichiarato disponibile a deporre nel processo belga a Sharon e a chiarire le proprie responsabilità nel massacro: "Per 19 anni ho portato il peso di accuse mai dimostrate senza aver l'opportunità di provare la mia innocenza".

Vincenzo Maria D'Ascanio

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