Ieri sono andato a Porto Pino (presso S.Anna Arresi) con mio
figlio. Sembrava un Paradiso, dopo la tempesta la spiaggia è sempre bella, il
mare sempre calmo. Lorenzo saltellava dappertutto, rideva, parlava (sopratutto
domandava) a quando lo prendevo in braccio mi accarezzava la barba... poi, come
un fulmine a ciel sereno, ci siamo trovati dinanzi a questo barchino.
Ci siamo fermati tutti a guardarlo.
"Con quella sono arrivati degli immigrati," Mi è
stato detto.
Non dico che quel barchino mi abbia rovinato la giornata,
anzi, dopo sono andato a prendere un gelato. Potevo stare con mio figlio ancora
un'oretta, ero al riparo dal mondo. Tuttavia, risalito in macchina ho
cominciato a pensarci. Sopratutto ho pensato che in questi giorni ho ascoltato
numerose notizie di naufragi, persone morte o recuperate in mare, sopratutto
bambini. Ho ascoltato quella notizie come se non mi riguardassero, avrò forse
sussurrato meccanicamente qualcosa... quello che chiamo "sconcerto
indotto", frasi rivolte a nessuno, dette, chissà, per un patto
esistenziale con me stesso, per sentirmi "dalla parte giusta".
Tuttavia, e qui il punto del discorso, ricordare mio figlio
accanto a questo barchino mi angoscia, mi prende di peso e mi sbatte sul senso
delle cose. Come in un sogno, mi son visto sul quel barchino tra le onde, con
tante altre persone come me, con altri bambini tra cui mio figlio, che mi
guardava coi suoi grandi occhi azzurri, chiedendomi una protezione che sapevo
di non potergli dare. Ho immaginato quel barchino rovesciato ed allora ho
rivisto le immagini, le foto, che non avrei mai voluto vedere, ma che ho
visto...
Mi faccio schifo, perché allora mi sento fortunato. Allo
stesso tempo ringrazio Dio, perché anche mio figlio è fortunato. Perché mio
figlio vive in un Paese "normale", un Paese che mi consente di dire:
"Ok, tutto quello che volete, molte ingiustizie, ma mio figlio non dovrà
mai salire su una barca come quella e se mai qualcuno dovesse ricordar la
precarietà dell'esistenza, io gli risponderò che potrà accadere di tutto, ma su
una barca come quella mai..."
Certo. Tuttavia lascio altri padri a guardare gli occhi dei
loro figli disperati. Lascio padri e madri, lascio bambini ad annegare in quel
grande mare che diventa bellissimo dopo la tempesta. Non mi va di pensare cosa
accade durante la tempesta, in quel mare. Cosa che ci sarebbe da urlare, cose
per cui sarebbe giusto impazzire, come minimo. Tuttavia non urlo, e conservo
quella ragione sufficiente per ricordare e prendere coscienza del mio
fallimento esistenziale. Ovvero provare dolore, solo se su quel barchino mi
rivedo col mio bambino.
Per il resto... niente. Solo quel sottile dolore, nel
ricordare di essere uomini.
Di
Vincenzo Maria D’Ascanio
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