"Il giudice è quindi solo, solo con le menzogne cui ha
creduto, le verità che gli sono sfuggite, solo con la fede cui si è spesso
aggrappato come naufrago, solo con il pianto di un innocente e con la perfidia
e la protervia dei malvagi. Ma il buon giudice, nella sua solitudine, deve
essere libero, onesto e coraggioso." (Antonino Scopelliti)
(09 Agosto 1991) Il giudice solo: così era stato
ribattezzato il magistrato Antonio Scopelliti, ucciso in un agguato mafioso a
pochi chilometri da Villa San Giovanni, in Calabria, mentre era alla guida
della sua auto. Nativo di Reggio Calabria, (vi nacque nel 1953), era tornato
nella sua regione per trascorrere le vacanze. Come Sostituto
Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, avrebbe dovuto
rappresentare l’accusa contro gli imputati del maxiprocesso di mafia a Palermo.
Scopelliti fu
intercettato dai suoi assassini mentre ritornava a casa, dopo avere trascorso
la giornata al mare. L'agguato fu
organizzato all'altezza di una curva, poco prima del rettilineo di Campo
Calabro. Gli assassini, almeno due persone a bordo di una moto, appostati lungo
la strada, spararono con fucili calibro 12 caricati a pallettoni. Priva di
controllo l'auto prosegue per circa dieci metri, sfonda un cancello e finisce
fuori strada, nel mezzo un vigneto. Una telefonata anonima comunica il fatto al
il posto di polizia di Villa San Giovanni e gli agenti che arrivano sul posto
in un primo momento pensano di trovarsi dinanzi ad un incidente stradale, ma
dopo aver scoperto i fori sul corpo senza vita del magistrato tutto diventa più
chiaro: Scopelliti è vittima di un omicidio.
Di certo Scopelliti era un magistrato fuori dall’ordinario,
dalle grandi capacità e dalla grande esperienza. Entrato in magistratura a 24
anni, si è occupato di processi di mafia e di terrorismo rappresentando
la pubblica accusa nel primo Processo Moro, nel sequestro dell'Achille Lauro,
nella Strage di Piazza Fontana e nella Strage del Rapido 904. Nel giugno 1991 assegnarono a lui
il compito di rappresentare l'accusa nel maxiprocesso, giunto in Cassazione.
Così in quella calda estate aveva cominciato a studiare le carte del
procedimento che furono trovate nell'abitazione paterna, dove il magistrato
soggiornava durante le vacanze. Parenti ed amici hanno raccontato il nervosismo
che il magistrato viveva nei giorni precedenti all'omicidio. Addirittura
un'amica ha ricordato una telefonata, proprio la sera precedente all'agguato,
in cui, con un tono preoccupato, il giudice rispondeva ad una sua richiesta di
spiegazioni in modo anomalo: “Un’apocalisse, un’apocalisse”
Secondo i pentiti della 'ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo
Barreca, sarebbe stata Cosa Nostra a chiedere alla 'ndrangheta di uccidere
Scopelliti, che, in cambio del
''favore'' ricevuto, sarebbe intervenuta per fare cessare la ''guerra di
mafia'' che si protraeva a Reggio Calabria dall'ottobre 1995, quando fu
assassinato il boss Paolo De Stefano. Nel 2001, la Corte d' Assise d'Appello di
Reggio Calabria assolve Bernardo Provenzano, Giuseppe e Filippo Graviano,
Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffre' e Benenetto Santapaola
dall'accusa di essere stati i mandanti. L'omicidio Scopelliti
rimane impunito.
Secondo un nuovo filone individuato recentemente dalla
magistratura, la chiave per decifrare questo delitto le forniscono le ultime
inchieste sul vertice "segreto” della ’ndrangheta. Una cupola, a lungo invisibile,
il cui profilo è impresso in migliaia di pagine di verbali. Il maxi processo
per 78 persone, tra cui compaiono avvocati-padrini, boss-imprenditori,
sacerdoti collusi e persino un senatore della Repubblica, è vicino.
Dagli stessi atti
affiorano i dettagli di un’amicizia tra ’ndrine e cosche siciliane, negli anni diventata una sinergia
stabile e decisamente pericolosa per la democrazia del Paese. Un’alleanza dai
tratti, in un certo momento storico, eversivi. Per comprendere le ragioni
dell’omicidio Scopelliti è necessario immergersi in sabbie mobili dove capi
mafia stringono la mano di uomini delle istituzioni.
E dove la parola d’ordine è trattare. Trattative utili a
mantenere l’ordine, per allontanare qualsiasi tipo di caos. Per farlo
l’organizzazione calabrese sfrutta ogni pedina. Il pentito
Antonino Lo Giudice, per esempio, racconta di un complice (colonnello dei
carabinieri già condannato per concorso esterno) che nel porto di Gioia Tauro
incontrava agenti della Cia. Anche di queste insospettabili particelle, dunque, è fatto il dna della
’ndrangheta che ha ucciso il magistrato.
Nessun commento:
Posta un commento