Perché difendo i Pastori? Perché,
incondizionatamente sono a fianco dei pastori e della loro sacrosanta lotta?
Per motivi certamente affettivi: Perché era pastore mio padre (e i miei
parenti) e so quanto era dura la sua vita. Ma anche – per non dire soprattutto
– perché - sena pastores e sena pastoriu, si-che morit sa Sardigna intrea. Senza la pastorizia la
Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro
abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le
comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza.
Di contro, con
le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal
traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza
avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza
sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come
pecore matte. Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli
speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo
mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da
dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche
“riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.
Si ridurrebbe a
un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza
lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza
identità. Senza popolo.
Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati
(OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.
Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere
sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David
Herbert Lawrence in Mare e Sardegna. Si avvererebbe la profezia annunciata da
Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra
scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una
lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un
nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita.
Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati
ai miti e agli umori di cosmopolis”. Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una
disfatta etno-culturale e civile,prima ancora che economica e sociale.
Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo
Di Francesco Casula
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