La
Nuova
Pd,
l'assemblea è un ring Il segretario non c'è. Manca il numero legale e salta
l'elezione di Cani: spintoni e urla tra Soru e Lai. L'eurodeputato: non so se
rimarrò nel partito. L'ex senatore: lo vuole
distruggere
di Umberto Aime
INVIATO AD ABBASANTA
Il ring di Su Baione è stato tutto
in presa diretta. A 120 giorni dalla pesante sconfitta elettorale di marzo, il
Pd è arrivato dove mai sarebbe dovuto arrivare: all'inferno. Anzi, ancora più
in basso: agli spintoni, ai corpo a corpo surreali, superando ogni limite di
decenza. Intorno al numero legale, raggiunto o non raggiunto, da un'assemblea convocata
per eleggere il segretario regionale, è scoppiata l'ennesima rissa. Non solo
più a parole, come quella di un mese fa nello stanzone del Nuraghe Losa,
stavolta è stata vera, muscolare, in un susseguirsi di round da brividi.
Dopo che, all'ingresso, era stato
fin troppo facile intuire come sarebbe andata a finire: male. Fra richieste di documenti,
riconoscimenti personali e sguardi al veleno da una parte e dall'altra, sono
stati dieci minuti di preliminari terribili. Poi, all'improvviso, la tensione
s'è gonfiata all'eccesso e c'è stato il primo round. Eccolo: l'ex deputato Siro
Marrocu, Diesse, s'è scontrato con Renato Soru, capocorrente avversario,
proprio sull'interpretazione del regolamento. I due sono arrivati a zero
centimetri l'uno dall'altro fino a quando, a fatica e spintonando a loro volta,
altri hanno evitato che i due arrivassero a mettersi le mani addosso.
Mentre la platea inneggiava,
scomposta e in trance agonistica, per quello o quello, oppure mandava a quel
paese il vicino di sedia colpevole di stare, c'è stato anche il secondo round.
Con l'ex senatore Silvio Lai e Soru, nemici dichiarati da una vita e ora divisi
dal solito regolamento, che invece al contatto fisico sono arrivati. Il loro faccia
a faccia è stato rabbioso e fulmineo, con almeno due o forse più spintoni
reciproci, poi diverse smanacciate, reciproche anche queste, andate però a
vuoto.
Stavolta i pacieri sono arrivati in
netto ritardo, e nulla hanno potuto per fermare quell'ignobile mulinare di mani.
Sono stati venti minuti al calor bianco. Fra urla, fischi, nuovi crocicchi al
limite dello scontro, e un microfono conteso come fosse il simbolo del potere
in palio in una lotta ormai tribale. È finita con i soriani che, dopo non aver
firmato neanche il primo foglio delle presenze, hanno abbandonato in massa
l'assemblea. Per loro ormai quella riunione era nulla per mancanza del numero
legale, lasciandosi alle spalle le ultime dichiarazioni di fuoco del loro
leader.
Queste: «Abbiamo solo difeso la
presidente del Partito - Lalla Pulga - che tra l'altro è una persona minuta,
dalle aggressioni di chi voleva addomesticare le regole come fanno
da sempre quanti si credono i padroni del partito. Volevano eleggere comunque
un segretario, però grazie a noi non ci sono riusciti. A questo punto deciderà
Roma, e sono sicuro che il Pd sardo sarà commissariato». Per poi, a freddo, lasciarsi andare anche a questo
amarissimo: «Non so se quando finirò il mandato di europarlamentare, rimarrò in
un partito così disastrato. Devo riflettere».
Lui voleva il congresso
straordinario, ma per non c'è neanche quello e nemmeno uno straccio di
segretario. Usciti di scena Soru e i suoi, le altre correnti - quella formata
dai popolari-riformisti, che era pronta a candidare l'ex deputato Emanuele Cani,
e sostenuta dai renziani e dagli ex Diesse - invece sono rimaste lo stesso in
sala, nonostante la presidente fosse già andata via con i verbali.
Nella confusione più totale, è stato
il vicepresidente Dino Pusceddu a prendere in mano la situazione. Rifatta la
conta dei delegati, con la "seconda chiama" è stata finalmente
raggiunta la soglia degli 81 presenti sui 160 aventi diritto al voto, mentre
nella prima s'era a fermata a 78. Ma proprio quel numero però era stato contestato
dalle due stesse correnti a favore di Cani. Perché – hanno detto - «quando un
seggio è aperto, e quello di Abbasanta lo era, il numero legale va controllato
alla fine della votazione e non all'inizio».
Chi è rimasto ha votato un documento
in cui: l'assemblea è stata riconvocata per questo venerdì, con il seggio
stavolta ufficialmente aperto dalle 15 alle 21. Con quest'ultima dichiarazione di
Silvio Lai su Soru: «Ancora una volta, con la sua solita violenza nelle parole
e nei fatti, ha dimostrato che vuole distruggere un Partito che gli ha dato
molto. Anzi, persino troppo»
LA DERIVA
ROMANA APPRODA AD ABBASANTA
di LUCA
ROJCH
Spintoni, «buffoni», e altre
profonde considerazioni sull'etica
politica e filosofica. Urla e facce
paonazze, la sensazione di
trovarsi in curva e non in una
assemblea democratica. Serviva un atto
di coraggio, di forza, per cambiare
il partito. Ma qualcuno deve avere
capito male, gli odi hanno prevalso
sulle idee. Il gruppo dirigente
del Pd sa che la facilità non genera
felicità e decide di complicarsi
la vita e continuare la discesa agli
inferi.
Lo fa con un'altra
figuraccia mediatica. Serviva un
nuovo segretario. Una faccia nuova,
un abile auriga che come nel mito
della biga alata di Platone sapesse
condurre i due cavalli che trascinano
il carro. Uno in alto verso il
mondo delle Idee e l'altro in basso
verso il mondo sensibile. Il Pd è
qualcosa di simile. Sì, ma senza
mito. Perché tutti e due i cavalli
spingono la biga verso
l'inferno.Dopo la disfatta del 4 marzo alle
Politiche tutti invocavano la
rivoluzione, ma ci si limita al
tentativo di occupazione.
Il Pd non ha una rotta, è guidato da
un
istinto suicida, è un Titanic che
con tenacia punta contro l'iceberg.
Difficile capire come i Dem possano
pensare di affrontare la
traversata transoceanica delle
Regionali con una bagneruola
sgangherata. Con i suoi pochi
occupanti impegnati a bucare il fondo
della barca che li trasporta. Senza
idee, senza un progetto, senza
unità. Senza un reale catartico
rinnovamento i Dem sembrano destinati
a diventare un partito marginale, da
10 per cento.
Ci doveva essere un
momento di analisi, di dolore, di
autoflagellazione intellettuale per
poter rinascere. Una reale presa di
coscienza della sconfitta e una
banale constatazione di non essere
più collegati col mondo. Di avere
pensato in questi anni più ai
colletti bianchi che alle tute blu. Si è
preferita la via cosmetica, una
versione imbellettata della realtà. Un
po' di cipria per nascondere le
rughe. Ci si è affidati all'ars
imbonitoria degli slogan precotti.
Quelli che funzionano nella
pubblicità, ma non convincono
nessuno. I dati spiegano più di
qualsiasi discorso il fallimento del
partito.
Nelle politiche del 2008
il Pd aveva preso in Sardegna 354
mila voti. In quelle del 2013 è
scivolato a 233mila, meno 44 per
cento. E nel 2018 è crollato a
128mila. Roma non aiuta. Il cerchio
magico è diventato un circo
tragico. Anzi una certa visione, e
divisione, del mondo tra correnti
arriva da là. Quasi una forma mentale,
uno stato naturale di un
partito mai nato. La mancata fusione
tra le diverse anime, che si sono
trasformate in correnti.
La deriva romana precede e sovrasta
quella
sarda. Il Pd sardo rischia di finire
commissariato per l'incapacità di
darsi una guida. Il mutamento
profondo non c'è stato. E le Regionali
del febbraio 2019 potrebbe
trasformarsi nella celebrazione della
scomparsa del Partito democratico.
Il pianeta Pd sembra sempre più
autoimploso, incapace di vivere di
luce propria e oscurato dallo
scintillio di 5 Stelle. @LucaRojch@
Unione
Sarda
Pd nel
caos: insulti e spintoni
ABBASANTA.
L'assemblea si chiude con un rinvio. Nuova convocazione per venerdì
Alta
tensione tra Soru e Lai, salta l'elezione del segretario
Il Pd sardo sull'orlo di una crisi
di nervi in un clima sempre più
teso che rischia di mandare all'aria
il partito.
L'assemblea, convocata ieri
pomeriggio ad Abbasanta per eleggere il
nuovo segretario, diventa lo
scenario di uno scontro tra
l'eurodeputato, Renato Soru, e l'ex
senatore, Silvio Lai. Si sfiora la
rissa, i due si spintonano, volano
parole grosse e solo l'intervento
di alcuni delegati evita che la
situazione possa degenerare. Stessa
scena sempre tra Soru e l'ex
deputato, Siro Marrocu, il tutto davanti
al tavolo della presidente Lalla
Pulga.
TENSIONE La miccia si è innescata
durante la conta delle firme per
ottenere il numero legale e iniziare
la riunione con l'obiettivo di
eleggere Emanuele Cani alla
segreteria: «Ho difeso la presidente
perché la stavano accerchiando»,
dice Soru, «non so se quando finirò
il mandato di europarlamentare
rimarrò in un partito così disastrato».
Duro l'ex senatore Silvio Lai che
accusa Soru di «rubare il futuro del
Pd, dopo aver avuto tanto da questo
partito». Nuovo appuntamento
venerdì prossimo per l'ultimo
tentativo di eleggere un segretario,
anche se il “caso Sardegna” potrebbe
passare nelle mani del Pd
nazionale, col rischio di un
commissariamento.
NULLA DI FATTO Questo è l'epilogo
della giornata di ieri, in cui una
parte dell'assemblea ha deciso di
sfiduciare la presidente Lalla
Pulga, invitandola alle dimissioni.
A lei viene data la colpa di aver
chiuso in maniera troppo affrettata
un'assemblea che a un'ora dalla
convocazione non aveva ancora le
firme necessarie per essere resa
valida. Tecnicismi e continui
richiami al regolamento, figli di un
malessere che ormai il Pd non riesce
più a scacciare.
In sala si
accendono contestazioni improvvise,
capannelli e discussioni su ogni
decisione si tenti di prendere. Alla
riunione di ieri all'hotel Su
Baione si è arrivati già con la
contrapposizione di due blocchi: da
una parte ci sono i soriani che
chiedono un congresso per restituire
la parola agli iscritti; dall'altra
i Popolari-Riformisti e i Renziani
che puntano all'elezione dell'ex
deputato, Emanuele Cani, per la
successione di Cucca.
«MODI ARROGANTI» Il deputato, Gavino
Manca, non usa mezze parole per
descrivere la situazione del Pd
sardo: «Avremmo voluto dare una
prospettiva a questo partito, nel rispetto
delle regole». Così però
non è stato a causa di qualcuno che
«in maniera arrogante ha fatto di
tutto perché questo non accadesse
venendo in assemblea per cercare la
rissa, ma non spaventa nessuno».
Lai punta il dito sull'eurodeputato:
«Se il Pd non ha potuto eleggere un
segretario dopo 4 mesi dalla
sconfitta alle politiche la
responsabilità è solo di Renato Soru». Per
l'esponente sassarese,
l'atteggiamento dell'ex governatore è
«intimidatorio nei confronti
dell'assemblea». Il Pd è «una comunità di
persone a cui lui, con altri, sta
rubando il futuro, ma in molti siamo
disposti a difenderlo».
LA DIFESA Soru non ci sta, rimanda
al mittente le accuse e controbatte
colpo su colpo: «Dobbiamo restituire
la parola agli iscritti, se c'è
una maggioranza non vedo perché non
farla valere al congresso».
L'obiettivo è «ripartire con volti
nuovi, questo non è un partito
padronale, ma di chi lo vota».
SFIDUCIA I delegati rimasti vengono
richiamati dal vice presidente
dell'assemblea, Dino Pusceddu, per
fare un'altra conta dei presenti.
Qualche ritardatario si presenta in
sala, si arriva a quota 81 e
dunque, l'assemblea viene
formalmente aperta. Soltanto per decidere
quando riprovare a eleggere un
segretario.
C'è il tempo, però, di
votare un documento che, di fatto,
condanna la condotta della
presidente dell'assemblea Lalla
Pulga. A proporlo è Silvio Lai che
accusa la presidente di aver «svolto
una funzione di parte» e di «aver
portato via i verbali con le firme».
Da qui l'auspicio che «vista la
posizione dell'assemblea, la
presidente possa rassegnare le
dimissioni».
IL DESIGNATO Emanuele Cani è in
sala, sorride e cerca di
ridimensionare quello che è
successo. Il secondo tentativo per la
nomina alla segreteria sarà venerdì.
Il seggio per votare rimarrà
aperto dalle 15 alle 21 ed eventuali
aspiranti segretari dovranno
presentare la candidatura entro le
20 di dopodomani. Sempre che non si
decida che a imporre la pace nel Pd
sardo sia un commissario romano.
Matteo Sau
GLI
SCENARI. L'azione politica è condizionata dalle correnti e dai
contrasti
personali Un partito diviso che non riesce a uscire dalla crisi
Il Partito democratico sardo non ha
mai trovato pace da quando è nato.
Il primo strappo risale al 2007
quando per la prima segreteria si
sfidarono Renato Soru (allora
presidente della Regione) e Antonello
Cabras che ebbe la meglio. Da allora
sono state più le guerre interne
che i periodi di unità e negli
ultimi anni lo scontro è stato molto
duro. Nel 2014, l'eurodeputato venne
eletto segretario del Pd e dopo
poco si ruppe il sodalizio con
l'area Fadda-Cabras, che gli aveva
consentito di diventare segretario.
Da allora i rapporti sono stati
sempre spigolosi, tanto che a due anni
dall'elezione, ci fu un primo
tentativo per sfiduciarlo. Soru poi si
dimise, e nonostante questa fosse
l'ambizione di una parte del Pd, non
si trovò l'accordo per nominare un
segretario sardo. Infatti, fu un
commissario romano, Gian Pietro dal
Moro, a guidare il partito in
Sardegna e affrontare la campagna
elettorale per il referendum sulla
riforma costituzionale del governo
Renzi.
Il risultato nell'Isola fu tra i
peggiori in Italia, tanto che Dal
Moro chiuse l'esperienza nell'Isola.
Per il congresso successivo, dopo
svariati tentativi falliti, nella
ricerca di un “candidato unitario”
nacque una nuova alleanza tra i
Popolari-Riformisti e i renziani con
gli ex Ds per sostenere Giuseppe
Luigi Cucca nella corsa alla
segreteria. I soriani gli
contrapposero Francesco Sanna che arrivò
secondo.
Dopo il congresso è iniziata
un'altra stagione di contrapposizione,
nonostante la nomina di Lalla Pulga
(indicata dai soriani) alla
presidenza dell'assemblea. Dopo il
pessimo risultato delle elezioni è
iniziato un accerchiamento nei
confronti di Cucca e la richiesta da
parte di Soru e della sua
componente, di dimissioni per dare vita a
una nuova fase nel partito.
Lo stallo è durato quattro mesi:
nonostante le dimissioni del
segretario e il continuo proposito di
superare le correnti, quello che è
successo ieri è la fotografia di un
Pd in forte difficoltà e che a pochi
mesi dalle elezioni regionali non
ha ancora avviato un dibattito per
il rilancio dell'azione
politica.(m. s.)
Conti
pubblici, stoccata di Draghi: «Dal governo finora solo parole»
Poi il
presidente Bce invita a ricostituire le riserve: «Il tetto si
rifà
quando c'è il sole»
BRUXELLES Non sarà una bocciatura,
ma di sicuro Mario Draghi non si
spella le mani per applaudire il
governo Conte, e anzi sottolinea di
aspettare «fatti» sui grandi dossier
economici del nostro Paese.
AUDIZIONE «Dovremmo aspettare prima
di esprimere giudizi. Il test
saranno i fatti: finora ci sono
state parole, e le parole sono
cambiate. Dovremo vedere i fatti
prima di esprimere un'opinione»: così
ieri il presidente della Bce, in
audizione alla commissione Econ
dell'Europarlamento, ha risposto
all'europarlamentare di Forza Italia
Fulvio Martusciello che domandava
l'esecutivo andrà “richiamato” dato
che non parla di riforma delle
pensioni e di riduzione del debito
pubblico.
«FIDUCIOSI» Ma se quella di Draghi
può suonare come una bacchettata,
certo non è un allarme: «La nostra
missione non è tutelare i bilanci
dei singoli Stati nazionali - dice
sui rischi che la fine del
Quantitative easing comporta per
l'Italia - siamo fiduciosi che
l'economia si sta rafforzando e la
graduale riduzione dell'acquisto di
attività sarà accompagnata da altre
misure. Lo vediamo dalle reazioni
alla nostra decisione del mercato,
che non sono stato affatto
drammatiche».
UN ANNO DI TEMPO D'altronde la fine
del Qe a fine dicembre «non
significa che la nostra politica
monetaria cessi di essere espansiva»,
visto che la Bce continuerà a
reinvestire i profitti dai titoli
acquistati, in modo da garantire
l'afflusso di liquidità. «Ci
aspettiamo - sottolinea ancora - che
i tassi di interesse della Bce
restino ai livelli attuali almeno
durante l'estate del 2019 e in ogni
caso per tutto il tempo necessario»
a sostenere l'inflazione verso il
2% annuo.
Di certo però non è il caso che
Palazzo Chigi si affidi
esclusivamente alle misure che
verranno assunte dall'Eurotower di
Francoforte: i Paesi ad alto debito,
spiega il banchiere centrale,
«nei periodi positivi dovrebbero
ricostituire delle riserve di
bilancio per quando ci sarà un
rallentamento della crescita, questo è
un insegnamento della crisi.
Guardando al futuro è sempre opportuno in
tempi economicamente positivi creare
le riserve, come si dice è quando
c'è il sole che bisogna aggiustare
il tetto».
ALLARME PROTEZIONISMO E se a Roma le
parole di Draghi vengono lette
controluce per cogliere ogni
riferimento all'Italia e alle sue
prospettive, il cuore del messaggio
resta l'Europa: in tempi di
incertezza globale è «più importante
che mai» che resti unita. Secondo
il banchiere centrale i «rischi al
ribasso» per le prospettive
economiche dell'eurozona «riguardano
principalmente la minaccia di un
maggiore protezionismo» per le
guerre commerciali tra Usa da un parte
e Cina e Ue dall'altra: l'Europa
deve quindi «dare supporto al
multilateralismo e al commercio
globale» per la prosperità.
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Federico
Marini
skype:
federico1970ca
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