Quando mi chiesi dove fosse la Sardegna,
nella storia d'Italia, volli cercare una risposta veloce e mi trovai impelagato
(tanto per cambiare) in una montagna di libri antichi e moderni (più gli uni
che gli altri). E scoprii che la Questione Meridionale (sorta con l'invasione
del Regno delle Due Sicilie da parte dell'esercito piemontese, prima
nascostamente, con i 22 mila soldati ufficialmente disertori al seguito di
Garibaldi; poi ufficialmente, con l'esercito calato a prendere possesso della
refurtiva), aveva un antenato: la Questione Sarda.
Quando, a
inizio del 1700, i Savoia ottengono l'isola, con un trattato internazionale,
iniziano a spogliarla di ogni risorsa, escludendo i sardi da ogni possibilità
di intraprendere o dirigere, salvo quei possidenti che si metteranno al
servizio del nuovo padrone, per aiutarlo nel saccheggio e intascare le
briciole. Le proteste, le rivolte, vengono soffocate nel sangue, con la ferocia
e l'arbitrio. E giustificate con l'inciviltà della popolazione che i sabaudi,
ovviamente, trattenendo eroicamente il ribrezzo, tentavano di dirozzare. Seppi,
così, che tutto quel che i Savoia fecero in Sardegna, fu solo replicato, più in
grande, nel Regno delle Due Sicilie (i sardi erano circa 600mila, al momento
dell'Unità, i duosiciliani quindici volte tanto).
Da questa
osservazione e dalla scoperta che, pur senza paesi rasi al suolo e lo sterminio
della popolazione, le stesse tecniche erano state adottate dalla Germania Ovest
in quella Est, dal giorno della riunificazione, nacque il mio “Terroni
'ndernescional”. Al Sud ci si lamenta, non a torto, della disattenzione del
resto del Paese nei confronti delle regioni del Mezzogiorno. Ma la Sardegna, a
parte la recente scoperta turistica, è del tutto assente. Il che parrebbe
incredibile se, con una popolazione modesta, rispetto a quella di regioni di
dimensione paragonabile, può vantare due presidenti della Repubblica, il
segretario più amato del partito della sinistra italiana e altri dirigenti di
rilievo nazionale.
Eppure, i
sardi si raccontano, e molto, e bene; hanno scrittori di grande valore, un
premio Nobel alla Letteratura (Deledda). Ma non riescono a farsi ascoltare
dagli altri, un po' perché, quando comunicano, paiono avere come interlocutori
primi gli stessi sardi; un po', perché gli altri, oltre che a godere della
Sardegna, non mostrano grande interesse a sapere dei sardi (ma chi comincia,
vuole diventare sardo, come De André e tanti altri).
Negli ultimi
anni, una rinnovata produzione culturale, letteraria, di pari passo con una potente
risorgiva di orgoglio isolano mai scemato, ripropone i temi della sardità e
della colonizzazione. In questo, Francesco Casùla si è distinto con un'opera
grandiosa, “Letteratura e civiltà della Sardegna”, in due volumi. E oggi con il
libro su Carlo Felice e i suoi sanguinari parenti. Il saccheggio dell'isola fu
di tale ferocia che persino dopo l'Unità, nel 1864, in occasione dell'ennesimo
inasprimento di tasse imposto dai Savoia, metà della somma rastrellata in tutto
il Paese fu sottratta ai soli sardi.
La disistima
dei sabaudi per gli isolani era tale che tendevano a impedire i matrimoni
“misti”, ritenevano i sardi “nemici della fatica, feroci e dediti al vizio”; e
per de Maistre erano peggio dei “dei selvaggi perché il selvaggio non conosce
la luce, il Sardo la odia”. Una scia di razzismo e pregiudizio che viene da
lontano (per Cicerone, i sardi erano per natura “ladruncoli, inaffidabili e
disonesti”, in quanto africani) e arriva a oggi: appena qualche decennio fa, il
noto giornalista Augusto Guerriero (Ricciardetto), scrisse che i barbaricini
bisognava “trattarli” con gas asfissianti; e nel 2016, il procuratore di
Cagliari, nell'inaugurare l'anno giudiziario, parlava di “istinto predatorio
(tipico della mentalità barbaricina)”.
Nessuna
meraviglia che a gente ritenuta incivile (osavano ribellarsi alla spoliazione
dei loro beni, dell'intera isola: proprio selvaggi!), si applicassero metodi
sbrigativi. Naturalmente, anche lì si trattò di estirpare il “banditismo”
(nell'ex Regno delle Due Sicilie “brigantaggio”): il marchese di Rivarolo in
tre anni scarsi fece incarcerare tremila persone, giustiziarne 432, con
“cerimonie” pubbliche ferocissime: torture, fustigazioni che riducevano il
malcapitato a brandelli, poi la forca e la decapitazione, con la testa portata
in giro nei paesi in una gabbia di ferro (lo rivedremo al Sud, quando decidero
di “liberarlo”).
Ma il più
sanguinario fu Carlo Felice, detto Feroce, vicerè e poi re, per disgrazia dei
sardi “...orrendamente torturati, trucidati nelle strade o nelle prigioni... I
villaggi del Logudorese vennero assaliti dalle truppe regie, cannoneggiati,
incendiati e, molti dei loro abitanti uccisi o arrestati in massa”. Spaventosi
i tormenti cui fu sottoposto il patriota Francesco Cilocco, la cui testa pure
fu esposta in una gabbia di ferro, il corpo bruciato e le ceneri disperse. Con
la legge delle chiudende, che consentì ai possidenti e ladroni di appropriarsi
delle terre pubbliche e recintarle come proprie (distruggendo l'uso di libera
terra che aveva retto da tempo immemorabile economia e comunità sarde) e sulla
“proprietà perfetta”, la millenaria civiltà dell'isola fu atterrata.
La rivolta
salvò il costume sardo solo in alcune aree; scorse molto sangue, sorsero odi
insanabili, che durano in alcuni casi ancora oggi, e grandi patrimoni
inutilizzati da un manipolo di profittatori. Ci fu una coraggiosa denuncia, nel
Parlamento di Torino, da parte del deputato sardo Giorgio Asproni, che sembra
anticipare, in copia, quella del duca di Maddaloni, nello stesso Parlamento, ma
ormai “unitario”, nel 1861: “La vera istoria racconterà le scellerate
fucilazioni; le condanne di vecchi e innocenti uomini alle galere; gli spami
delle famiglie per i solo cari mandati in esilio per ingiusti sospetti; gli
schiaffi e le battiture di detenuti carichi di ferro in mezzo a' birri; il
bastone, di costume barbaro, applicato alle spalle dei testimoni...”; e così
via, nell'elenco degli orrori. Sino a costruire, con la violenza, l'oppressione
e la rapina, un “sottosviluppo che non è ritardo ma superfruttamento”.
Fu la prima
Questione meridionale. L'isola aveva avuto altre dominazioni, nel tempo
(fenici, romani, pisani, genovesi, spagnoli), ma Casùla non ha dubbi su chi
siano stati “i più crudeli, spietati, insipienti, famelici e ottusi (s)governanti
che la Sardegna abbia avuto nella sua storia: i Savoia”
Di Pino Aprile
***
Prossima
presentazione del libro di Francesco Casula:
Quartu S. Elena, 26 ottobre 2018 ore 18:00
Bar vineria
Barbagia Ospitale
Casa Spiga, Via XX Settembre 34
Francesco Casula.
Autore del libro "Carlo Felice ed i Tiranni Sabaudi"
Il libro di
Casula risponde a una domanda semplice: dopo che i
Savoia ricevettero, controvoglia, la Sardegna nel 1720, e divennero
re, come si comportarono verso quella importante parte del loro
regno? La risposta al quesito è semplice, lineare, durissima: la Sardegna venne
trattata come un territorio altro rispetto al Piemonte, abitato da uomini
che avevano meno diritti rispetto agli altri, culturalmente
e socialmente inferiori, i quali dovevano essere trattati in modo tale da mantenere
questa inferiorità. Questo pensavano i tiranni sabaudi, e le loro modalità
di governo, o meglio di spoliazione, sono la diretta conseguenza della visione
ideologica appena tratteggiata.
Girolamo
Sotgiu, probabilmente il più grande storico del periodo sabaudo in Sardegna,
pur essendo un oppositore della “diversità” dei sardi rispetto agli
italiani, non poté non constatare il carattere coloniale dei rapporti
tra Piemonte e Sardegna. Di quei rapporti non sono colpevoli coloro
che allora abitavano il Piemonte (per carità) bensì i governanti,
cioè i Savoia e, successivamente, gran parte della classe
dirigente post-1861.
Nel 2011,
durante le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, si è
persa l’occasione di riflettere criticamente sul Paese e sul processo
di “unificazione”. Però si può sempre (ri)cominciare, anche in assenza di
una ricorrenza. Se un turista, un italiano o uno straniero, viene in
Sardegna, scoprirà che la strada più importante, la SS131, è la “Carlo
Felice”. Carlo Felice, detto anche “Carlo feroce” è stato uno dei
peggiori, più sanguinari e pigri vice-re di Sardegna.
Un amico
studioso ama ripetere che è come se gli israeliani, nel 2200 dedicassero la
loro strada più importante a un nazista, magari a Hitler in persona.
Certo, questo sarebbe potuto succedere se i nazisti avessero vinto. Dato però
che non è giusto che la storia la facciano i vincitori, le persone dotate di
senno o almeno di amor proprio che abitano in Sardegna, perché non mettono mai
in discussione la memoria che si reifica nei nomi delle strade e
delle vie di Sardegna?
A Cagliari,
nella piazza più frequentata, svetta la statua di Carlo Felice. Più di sei
anni fa proposi, per molti provocatoriamente, di sostituirlo
con Giovanni Maria Angioy, il quale
“fu il capo […] del movimento anti-feudale sardo. Angioy fece proprie le
rivendicazioni delle popolazioni della campagna vessate dai
feudatari, e propugnò l’eliminazione delle arcaiche strutture di potere”. Da
tempo, un movimento di opinione, che ha presentato anche una petizione, chiede che la statua venga spostata.
In questa
fase storica, di disfacimento di un progetto politico (l’Italia), ragionare
sulla sua storia secolare e i suoi governanti, ragionare sul suo carattere
plurinazionale (l’Italia è insieme alla Francia uno dei paesi europei a
non aver ratificato la Carta Europea delle Lingua Minoritarie), fa sicuramente
bene ai popoli in cerca di una libertà che Roma non ha fornito, ma anche a
Roma stessa.
Il libro di
Francesco Casula, che rifiuta ogni razzismo anti-italiano, è un valido
contributo per riscrivere veramente la storia, andando contro i tanti
tradimenti dei presunti chierici.
Autore
dell’articolo Enrico Lobina, da “Il fatto quotidiano”
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