Simon Mossa è un architetto di talento, arredatore, urbanista e artista di
genio, insegnante dell’istituto d’arte e scenografo, intellettuale dagli
interessi pressoché enciclopedici e dalla forte sensibilità artistica,
viaggiatore colto e curioso del nuovo e del diverso tanto da spaziare con gusto
e competenza nell’ambito di una pluralità vastissima di arti: dalla letteratura
alla pittura e alle arti popolari. Ma è anche brillante ideologo
indipendentista e di un nuovo Sardismo,
giornalista e polemista ironico e versatile, viaggiatore colto e aperto alle
problematiche delle minoranze etniche mondiali, ma soprattutto europee.
Conoscendole direttamente, si rende conto della drammatica minaccia di
estinzione che pesa su di loro: oramai sul bilico della scomparsa. Contro di esse è in atto infatti un
pericolosissimo processo di “genocidio”, soprattutto culturale ma anche
politico e sociale. Si tratta di “minoranze” che “l’imperiale geometria delle
capitali europee vorrebbe ammutolire”.
Simon Mossa aveva infatti verificato la tendenza del genocidio
culturale e non solo, dei popoli
senza stato, delle piccole patrie, incorporate e chiuse coattivamente nei
grandi leviatani europei e mondiali, “entro un sistema artificioso di frontiere
statali, sottoposti a controllo permanente, con evidenti fini di
spersonalizzazione, ridotti all’impotenza e di continuo minacciati delle più
feroci rappresaglie, se mai tentassero di rompere o indebolire la sacra unità
della Patria”.
All’interno di tali minoranze colloca la Sardegna che considera una “unità o comunità etnica ben distinta dalle altre componenti dello Stato Italiano” Per annichilire l’identità etno-nazionale dei Sardi è in atto –secondo Simon Mossa– “un processo forzato di integrazione che minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica”, anche con la complicità di molti sardi che “si lasciano comprare”. Uno degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda, segnatamente dell’uso pubblico del Sardo.
L’ideologo nazionalitario e indipendentista sa bene che un popolo senza Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a “morire”: “Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna.
I fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno
così continuare, senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non
esisteranno e così si continuerà con l’alienazione etnica, lo
spopolamento, l’emarginazione economica. Ma questo discorso è valido nella misura in cui lo fanno
proprio tutti i popoli parlanti una propria originale lingua e stanzianti in un
territorio omogeneo, costituenti insomma una nazione che sia assoggettata e
inglobata in uno Stato nel quale l’etnia dominante parli una lingua diversa”.
Poliglotta e appassionato studioso di lingua e di linguistica - fra l’altro traduce in Sardo il Vangelo e scrive ottave deliziose – ritiene che “Il sardo lungi dall’essere un dialetto ridicolo è già, ma in ogni modo può e deve essere una lingua nella misura in cui sia parlato e scritto da un popolo libero e capace di riaffermare la propria identità”. A questo proposito pone questo interrogativo “Hai mai meditato su ciò che significa l’esclusione della nostra lingua madre dalle materie di insegnamento delle scuole pubbliche e il divieto di farne uso negli atti “ufficiali”? Ci regalano insegnanti di un italiano spesso approssimativo e zeppo di provincialismo e noi non abbiamo il diritto di esprimerci adeguatamente nella nostra lingua! Ci hanno privato del primordiale e più autenticamente <autonomista> strumento di comunicazione fra gli uomini!”.
Sostiene ciò nel Luglio del 1967, molto prima che in Sardegna la questione del “Bilinguismo perfetto” diventasse oggetto di discussione prima e di iniziativa politica poi: a buona ragione possiamo perciò considerare Simon Mossa, il vero profeta e anticipatore delle proposte sul Bilinguismo. Con acume e perspicacia aveva capito che il problema della Lingua sarda non era tanto o soltanto parlarla, magari nell'ambito familiare, ma scriverla e soprattutto insegnarla nelle Scuole e usarla nella Pubblica Amministrazione: il problema era cioè la sua ufficializzazione.
Oggi noi nel 2019 sappiamo bene che la Lingua sarda, al di fuori di questa prospettiva è destinata a morire o, al massimo, a vivacchiare e languire, marginalizzata e ghettizzata.
Francesco Casula
Saggista
e storico della letteratura sarda
Autore
(tra gli altri) dell’opera “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”
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