"Quando nel 1938 il fascismo promulgò le leggi razziali io
avevo tredici anni e frequentavo la terza ginnasio. Fin dal primo anno avevo
stretto amicizia con un compagno di classe che si chiamava David Perna, ma che
tutti, chissà perché, chiamavamo Pippo. Una mattina, alla fine delle lezioni,
Pippo mi chiamò in disparte e mi disse che dal giorno seguente non avrebbe più
frequentato la scuola. Siccome era figlio di un ferroviere, pensai che suo
padre fosse stato trasferito altrove. Ne volli conferma:
«Tuo padre è stato trasferito?» gli domandai.
«No, – rispose – nemmeno papà potrà più lavorare.»
«Ma perché?» Ebbe un sorriso amarissimo.
«Perché siamo ebrei.»
Ci abbracciammo. Tornai a casa per l’ora di pranzo e subito,
dopo aver detto a papà e a mamma che il mio amico Pippo non avrebbe più
frequentato la scuola perché ebreo, chiesi a papà che cosa significasse, perché
fino a quel momento io ero sinceramente all’oscuro delle leggi razziali. Papà
era stato squadrista e marcia su Roma, vale a dire che era un perfetto fascista
della prima ora; ma a sentire quella mia domanda si alterò visibilmente,
divenne rosso in faccia e mi disse delle parole che non ho mai scordato e delle
quali gli sono eternamente grato: «Non è vero che gli ebrei sono diversi da
noi, sono esattamente come noi. Questa storia della razza, Mussolini ha dovuto
tirarla fuori solo per allinearsi col suo amico Hitler. Tu non devi crederci. E
non ti lasciare mai convincere diversamente».
Naturalmente negli anni che seguirono non ebbi più notizie
di Pippo; ma quando, finita la guerra, cominciammo a leggere dell’Olocausto e,
peggio ancora, vedemmo i documentari sui campi di concentramento e di sterminio
dei nazisti, l’immagine del mio amico Pippo cominciò a tormentare i miei giorni
e le mie notti, lo confesso con tutta sincerità. Certe volte mi svegliavo di
colpo in piena notte chiedendomi che fine avesse fatto il mio amico, se fosse
stato catturato dai tedeschi e inviato in uno di quegli orrendi campi, o se
fosse in qualche modo riuscito a sopravvivere. Mi rimisi in contatto telefonico
da Roma con qualche vecchio compagno di scuola: nessuno seppe darmi notizie di
Pippo. Avevo una vecchia foto di gruppo della seconda ginnasiale: in quella
foto lui e io stavamo sorridenti l’uno accanto all’altro. Ogni tanto andavo a
riguardarmela.
Il pensiero del mio amico ebreo scomparso nel nulla fu
sempre presente nella mia memoria. Alla fine degli anni Ottanta un mio
spettacolo allestito al teatro greco di Tindari, Il ciclope di Euripide,
tradotto in dialetto siciliano da Luigi Pirandello, arrivò a Roma al Teatro
Tenda, che allora sorgeva in piazza Mancini. Nella capitale la rappresentazione
ebbe alla prima un buon successo e io ogni sera, due ore avanti che iniziasse
lo spettacolo, mi recavo in teatro un po’ per controllare se tutto fosse a
posto e un po’ per informarmi con le cassiere di come andasse l’affluenza del
pubblico.
La sera della quinta replica, una delle cassiere mi disse
che c’era un signore che aveva chiesto di me e che, avendo saputo che io sarei
arrivato da lì a poco, si era allontanato avvertendo che sarebbe ritornato. Non
aveva detto il suo nome. Aveva appena finito di parlare, che la cassiera mi
indicò un uomo che stava entrando. «Eccolo, è lui.» Gli andai incontro: era un
perfetto sconosciuto.
«Sono Andrea Camilleri, cercava me?» L’uomo, che era di
piccola statura, molto ben vestito, mi guardò a lungo, non rispondendo subito
alla mia domanda. Poi, a sua volta, chiese:
«Lei è Nené Camilleri?».
«Sì – risposi –, ma lei chi è?»
Di scatto l’uomo mi gettò le braccia al collo, mi strinse
forte, mi disse all’orecchio: «Sono Pippo Perna». E ci ritrovammo tutti e due
abbracciati con le lacrime agli occhi. «Sono di passaggio» mi disse. «Ho due
ore di tempo.» Di comune accordo andammo in un caffè vicino, ci sedemmo a un tavolo.
Mi raccontò che nel ’38 avevano lasciato Agrigento, che con suo padre e sua
madre erano andati a rifugiarsi presso uno zio che possedeva dei campi nella
Sila, in Calabria. Suo padre aveva lavorato nei campi del fratello, sua madre
si era messa a fare la sarta, e così erano riusciti a sopravvivere. Lui aveva
continuato a studiare prendendo lezioni private dal parroco del paese, dove
tutti avevano finto di non sapere che la famiglia Perna era ebrea. Così erano
riusciti a scamparla.
Lui, finita la guerra, aveva dato tutti gli esami che non
aveva potuto sostenere durante il fascismo, poi si era iscritto all’università,
dove si era laureato in ingegneria. Era venuto a Roma per affari, quando aveva
visto un manifesto teatrale col mio nome. Nelle due ore ci raccontammo
freneticamente tutto quello che era accaduto alle nostre due vite. Aveva un
treno per Milano, l’accompagnai alla stazione. Restammo a parlare fino a quando
un fischio lungo annunciò la partenza del treno; ci guardammo commossi,
tornammo ad abbracciarci. Poi lui montò nello scompartimento e restammo a
salutarci con la mano, fino a quando non sparì dalla mia vista. Da quel momento
in poi Pippo scomparve dai miei sogni."
Brano
di Andrea Camilleri, segnalato da Luisella Corgiolu
Il
Brano è tratto da Certi momenti di Andrea Camilleri
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