(05 Luglio 1950) A
Castelvetrano, in provincia di Trapani, viene ucciso il popolare bandito
Salvatore Giuliano. Nato in una famiglia contadina, dall’età di undici anni
affiancò il padre nel lavoro dei campi. Il 2 settembre del 1943 a Quarto Mulino
di San Giuseppe Jato, mentre trasportava un carico di grano, Giuliano s’imbatté
in una pattuglia di carabinieri e di guardie campestri che intendevano
sequestrargli il carico. La sua reazione causò un conflitto a
fuoco, al termine del quale un carabiniere fu ucciso. Questo
episodio, sul cui esistono versioni discordanti, segnò l'inizio della carriera
criminale del bandito, che cominciò allora la sua lunga latitanza.
Nello stesso periodo
era molto attivo in Sicilia il movimento
separatista, i cui capi ritennero che Giuliano potesse svolgere un ruolo utile alla
causa dell’indipendentismo siciliano. Così, quando agli inizi del 1945, fu
avviata la campagna di reclutamento nell'Esercito volontario indipendentista (EVIS)
il Giuliano ottenne i gradi di colonnello, e la promessa di finanziamenti per
rafforzare la sua banda.
Il bandito, che non
aveva peraltro rinunciato a compiere atti di delinquenza comune, ebbe anche un ruolo politico, orientando il voto a
favore dei candidati separatisti nelle elezioni per l'Assemblea Costituente al
referendum istituzionale. Contemporaneamente godeva dell'appoggio della mafia e
delle forze che avevano individuato nel separatismo lo strumento per mantenere
in vita il vecchio sistema agrario latifondista.
Giuliano in seguito
compì numerose azioni banditesche per combattere quanti, come il movimento
contadino, il sindacato ed i partiti di sinistra, contrastavano questo disegno.
In tale quadro si colloca l'eccidio di Portella della Ginestra (in cui furono uccise
undici persone che festeggiavano la festa del lavoro) che rappresentò il fatto
criminoso di maggiore risonanza. Per quanto la ricerca dei mandanti non sia mai
approdata a conclusioni certe, risultarono evidenti le responsabilità degli
ambienti politici siciliani interessati a intimidire le masse contadine che
reclamavano la terra e avevano premiato il "Blocco del popolo" nelle
elezioni del 20 aprile 1947.
L'ipotesi di collusioni
e compromissioni di tali ambienti con il banditismo fu rafforzata dagli
avvenimenti che portarono alla morte di Giuliano. Consapevole di essere divenuto ormai scomodo, il bandito fece
una serie di accenni sui rapporti da lui intrattenuti con noti esponenti
politici, che gli avrebbero garantito l'espatrio e l'impunità. In una lettera inviata il 2 ottobre 1948 all'Unità, chiamò
addirittura in causa il ministro degli interni Scelba.
Nello stesso tempo il
Giuliano alzò il livello della sfida sul piano militare, scatenando un’offensiva
che ebbe il suo culmine nell'eccidio di
Bellolampo, che coinvolse l’Arma dei Carabinieri. I militari erano a bordo di un autocarro che rientrava in caserma quando
il mezzo fu investito dall’esplosione di una mina, collocata lungo la strada
dagli uomini del bandito. Nell’attentato morirono sette Carabinieri, ed altri
dieci rimasero feriti.
Nel frattempo gli altri
banditi vicini a Giuliano cominciarono ad allontanarsi o addirittura tradirlo
(in quest’ultimo caso il fatto non è completamente certo, vedere in seguito il
caso Pisciotta). Il venir meno della rete di protezione rese il Giuliano quanto
mai vulnerabile. I Carabinieri riuscirono ad ucciderlo, ma
la versione ufficiale è poco credibile. Le dinamiche fornite
dai Carabinieri contrastarlo in tutto e per tutto con l'autopsia. Le foto
scattate, inoltre, apparivano come una montatura, infatti dal corpo crivellato
di colpi non fuorusciva sangue (ciò significava che Giuliano fu sparato quando
era già morto).
In seguito giunsero le
incredibili rivelazioni di Gaspare
Pisciotta, il secondo della Banda. Poco dopo la morte di Giuliano,
Pisciotta fu catturato e incarcerato. Proprio in carcere fece la sorprendente
rivelazione che fu lui ad uccidere Giuliano nel sonno, in base a delle
istruzioni del Ministro dell'interno Mario Scelba e di aver concordato col
colonnello Ugo Luca di collaborare, a patto che non fosse condannato. Questa
versione appare tutt’ora la più accreditata. Nel 1954 Pisciotta fu avvelenato in carcere con un
caffè “corretto” con la stricnina.
Vincenzo Maria D’Ascanio
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