giovedì 18 novembre 2021

Green pass, si va verso la stretta.


 Il Green pass dovrà diventare una rete a maglie strette, uno strumento ancora più efficace per arginare la circolazione del virus. Mentre la parola d'ordine è spingere sulla terza dose e insistere per convincere gli indecisi, il governo sta valutando una stretta sulla certificazione verde. Da un lato - visti gli studi che certificano un calo delle difese dopo 6 mesi dalla seconda dose del vaccino – si pensa di ridurre la validità da un anno a sei mesi appunto, oppure a nove, ipotesi più probabile dal punto di vista della mediazione politica. Dall'altro, si punta a restringere le opzioni per i non vaccinati che fanno il tampone: l'idea è escludere l'antigenico, che porta tanti falsi negativi, oppure ridurne la durata da 48 a 24 ore.

 

«I limiti della carta verde» Una stretta che non convince il sindaco di Cagliari, così come non lo convincono le ipotesi di lockdown per i no vax già attuate in alcuni Paesi e le restrizioni invocate da diversi governatori (ma il Governo frena). «Riservare una vita sociale solo a chi ha il green pass non è garanzia di maggiore sicurezza». Vaccinato con due dosi («Avrei fatto anche la terza»), da qualche giorno Paolo Truzzu è a casa perché positivo al tampone. «Sto tutto sommato bene, ho un malessere simile all'influenza».

 

Il Covid in forma leggera, «grazie al vaccino che ci protegge dai sintomi gravi della malattia». Il punto, però, «è che il vaccino non basta, perché ci si può contagiare ugualmente anche se in misura più ridotta, ed è su questo concetto che ritengo sia necessario battere perché molto spesso chi ha il green pass ottenuto col vaccino pensa di poter fare tutto, ma così non è».

 

L'imprudenza. Per la verità, anche i no vax credono che il tampone, magari antigenico, li salvi dal virus, e anzi pensano di essere meglio protetti dei vaccinati. E se l'imprudenza può esistere da entrambe le parti, bisogna ricordare che a finire in ospedale, e a levare un posto letto a chi soffre di altre patologie, in linea di massima è il no vax. «Ripeto, il vaccino è fondamentale, tanto che imporrei l'obbligo: riduce il rischio di sintomi gravi, contiene la circolazione del virus, dà respiro al sistema sanitario. Se però lo vogliamo utilizzare come elemento di discriminazione, da una parte i vaccinati ammessi alla vita sociale e dall'altra i non vaccinati in lockdown, starei molto attento: non è detto che questo aumenti la sicurezza generale». Il punto, conclude Truzzu, «è che bisogna continuare a rispettare le regole. Non solo: è necessario fare periodicamente il tampone. Anche se si è vaccinati».

 

Una vita normale. Germano Orrù, biologo molecolare dell'Aou di Cagliari e docente della Facoltà di Medicina, dice che «il green pass andrebbe dato solo ai vaccinati». Al limite anche a chi fa il tampone molecolare, sottolinea, «ma andrebbe escluso l'antigenico: ha una sensibilità bassa, possono sfuggire molti positivi». Il problema, sottolinea, «è che abbiamo una percentuale elevata di persone che rifiutano il vaccino e, d'altro canto, se vogliamo tornare a una vita normale dobbiamo raggiungere almeno il 90% di vaccinati. Se non raggiungiamo questa massa critica rischiamo di chiudere, anche perché con l'arrivo del freddo il nostro sistema immunitario si indebolisce e i virus respiratori, tra cui quello influenzale e il Covid, ne approfittano. Un rischio che pesa soprattutto sui non vaccinati, cioè coloro che finiscono in ospedale anche con sintomi gravi».

 

I danni del tampone. Meglio vaccinarsi, avverte Orrù, «anche per un motivo che pochi spiegano. I no vax, che ricorrono a un tampone dopo l'altro, devono sapere che stanno facendo un'operazione invasiva che incide sui tessuti nasali alterandone il microbiota. Questo è una difesa, una comunità di batteri buoni che vivono in equilibrio con l'ambiente che li ospita. Qual è il rischio? Che ci si espone alle infezioni respiratorie senza un'adeguata barriera».

Articolo tratto da L’Unione Sarda del 18.11.2021

 

-----------------

Federico Marini

marini.federico70@gmail.com

skype: federico1970ca

 

martedì 9 novembre 2021

Trasporti, verde e piste ciclabili: Cagliari green, il ritardo di Nuoro


 

È Cagliari la città più "green" della Sardegna. Il capoluogo è al top nell'indagine realizzata da Legambiente, in collaborazione con Il Sole 24 Ore, con il rapporto Ecosistema urbano che fa un'analisi comparata dei 18 indicatori delle performance ambientali di 105 capoluoghi: aria, acque, rifiuti, mobilità, ambiente urbano ed energia. Un report che si riferisce al 2020, un anno fortemente condizionato dalle restrizioni imposte dalle norme antiepidemia.

 

Cagliari virtuosa Le città sarde sono in crescita rispetto all'anno precedente, tranne Nuoro che registra un'inquietante balzo indietro di ben 38 posizioni e si piazza al 79° posto (per valori sull'inquinamento non dichiarati) e Oristano che dal 29° posto dell'anno scorso scivola al 33°. Bene Cagliari al 16° posto (era al 32° nel 2020) e Sassari che dal 67° posto sale al 59°. Il capoluogo si mette in evidenza soprattutto per verde, piste ciclabili e trasporto pubblico.

 

Secondo l'indagine del Sole 24 Ore ogni cagliaritano ha a disposizione 56, 2 metri quadri di spazi nei parchi e nelle aree comunali, Oristano 52,2, Nuoro 33,4 e Sassari 17,6. Per quanto riguarda le corsie riservate alle bici, a Cagliari i chilometri di piste ciclabili sono 36, un dato che la colloca ai primi posti della classifica. Seguono Oristano con 9,1, Sassari con 4 e Nuoro fanalino di coda con neanche un centimetro. Il capoluogo della Sardegna primeggia anche nella mobilità. Nel 2020, nonostante il Covid, ogni cagliaritano ha effettuato 147 viaggi sui bus del Ctm, i sassaresi 81, i nuoresi 23 e gli oristanesi 11.

 

Cagliari deve migliorare nei rifiuti, secondo la stima di Legambiente ne vengono prodotti 459 chili all'anno ad abitante, 406 a Nuoro, 472 a Sassari e 524 a Oristano. Nella raccolta differenziata la città più virtuosa è Oristano con il 79,9%, seguita da Nuoro co il 77%, Cagliari con il 68,9 e Sassari con il 56,9. In Italia Trento conferma anche nel 2020 la leadership delle città più green d'Italia, seguita da Reggio Emilia (salita dalla quinta posizione e sempre in testa nelle piste ciclabili), terza Mantova. In una top ten monopolizzata da città medie e piccole del Nord la sola eccezione è Cosenza: quinta nel 2018, era ottava l'anno scorso, ma è diventata addirittura quarta. Chiudono la top ten Treviso, nona, e Ferrara decima, al comando nella raccolta differenziata con l'87,6% di rifiuti separati.

 

In fondo alla lista, si rileva il quartultimo posto di Alessandria (con due rappresentanti del centro Italia, Massa e Latina, rispettivamente 98ª e 100ª) ma sette degli ultimi dieci capoluoghi appartengono al Sud. Di questi ben cinque sono siciliani. Palermo e Catania sono in coda: in sette degli ultimi dieci posti ci sono centri del Sud, con l'eccezione di Alessandria e Cosenza che risale al quarto posto. Milano è l'unica tra le grandi città metropolitane ad aver conseguito miglioramenti su quattro degli indicatori più importanti: mobilità, aria, rifiuti e auto.

 

Ottima salute. «Non è un punto di partenza ma di arrivo, vogliamo continuare a investire sul verde e rendere Cagliari sempre più sicura e accogliente. Vogliamo lavorare per migliorare complessivamente la città, renderla più a misura d'uomo». Il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu, intervenuto ieri al THotel per la presentazione dell'indagine di Legambiente. Il capoluogo si posiziona tra le top 20, confermando la tendenza positiva degli ultimi anni, visto che appena nel 2019 era al 36° posto.

 

«Con le nuove risorse (10 milioni di euro) del Pnrr per il verde pubblico – ha aggiunto il primo cittadino – con tanti nuovi alberi saranno migliorati il verde pubblico in città, gli spazi a disposizione dei più giovani con interventi sulle scuole per rendere le aree cortilizie fruibili 365 giorni all'anno e consentir loro di studiare all'aperto». L'assessore al Verde Giorgio Angius: «Il Comune di Cagliari non si ferma alla manutenzione dei suoi 11 parchi pubblici ma sta portando avanti una costante azione di piantumazione di circa 2/3mila anni all'anno». Al verde si lega il progetto della nuova rete idrica che permetterà di irrigare il verde pubblico con le acque depurate dall'impianto di Is Arenas. «Finanziato con 5,4 milioni di euro», ha spiegato l'assessore ai Servizi tecnologici Alessio Mereu.

 

Andrea Artizzu

 

giovedì 26 marzo 2020

18.000 mascherine Ffp1, 3.500 mascherine Ffp2, 15.000 mascherine chirurgiche, 43.0000 guanti in lattice e 2.200 tute protettive, sono arrivati in Sardegna provenienti dalla Cina.


Il grande cuore cinese: arrivate le mascherine. Donate dal gruppo Blue River alla protezione civile regionale 4. tonnellate di dispositivi di protezione

Un fiume blu di materiale medicale mai così necessario. Lo ha consegnato ieri il gruppo cinese Blue River alla protezione civile sarda. Si tratta di circa quattro tonnellate di materiale medicale, tra cui 18.000 mascherine Ffp1, 3.500 mascherine Ffp2, 15.000 mascherine chirurgiche, 43.0000 guanti in lattice e 2.200 tute protettive, sono arrivati in Sardegna provenienti dalla Cina.

Il consistente carico di attrezzature è stato donato all'Isola da imprenditori cinesi del gruppo che dal 2016 opera in Sardegna nel ramo lattiero caseario insieme con la società Alimenta.

L'iniziativa benefica era stata annunciata dopo una conference call della vicepresidente della Giunta Alessandra Zedda e dell'assessore della Sanità Mario Nieddu con la Cina. «Un segno tangibile e gradito di sensibilità e di quell'amicizia che lega da tempo i nostri popoli, uniti da rapporti commerciali e oggi, sempre più, da un forte legame di solidarietà», commenta oggi il presidente della Regione Christian Solinas. Il materiale, arrivato ieri e stoccato a Macchiareddu, è stato destinato al centro operativo della protezione civile regionale.

L'unione tra la Alimenta Srl, l'azienda di Macomer operante nel settore lattiero caseario dal 1996 e che produce ingredienti di origine ovina in polvere (latte e siero) e la Blue River, gruppo cinese leader nella produzione e commercializzazione di latte per l'infanzia principalmente costituito da ingredienti di origine ovina, era partita con la joint venture siglata a Cagliari a ottobre 2016.

La Blue River che possiede anche altri due stabilimenti in Nuova Zelanda, detiene il 60 per cento delle quote di Alimenta, mentre la restante parte fa capo alla Minoter Spa holding del Gruppo Cualbu.

l sodalizio Alimenta-Blue River ha permesso di avviare a Macomer un investimento di oltre 42 milioni di euro per la costruzione di un nuovo stabilimento per la produzione di latte per l'infanzia. Proprio il latte in polvere viene visto come un interessante elemento di diversificazione della produzione casearia, in cui non a caso i "kiwi" si sono già tuffati con decisione.

Articolo tratto da “La Nuova Sardegna” del 26.03.2020

-----------------
Federico Marini
skype: federico1970ca


martedì 24 marzo 2020

Numeri in miglioramento ma l'Iss lancia l'allarme sul Sud


Numeri in miglioramento ma l'Iss lancia l'allarme sul Sud: «Ancora troppa gente in giro» In programma multe sino a 2000 euro

Non è ancora un trend ed è  troppo presto per dire che la curva si è arrestata, ma per il secondo giorno consecutivo i numeri fotografano un'Italia in cui calano sia l'incremento dei malati che quello delle vittime di coronavirus. E, per la prima volta dall'inizio dell'emergenza, in Lombardia i ricoveri in ospedale sono in diminuzione. Dati positivi che rischiano però di essere vanificati se al sud - dove il contagio non è ancora esploso - continueranno ad esserci troppe persone in strada.

Ad un mese dall'entrata in vigore del primo decreto con le misure restrittive, quello che istituiva la zona rossa per i comuni del Lodigiano e di Vò Euganeo, il nostro paese supera altre due soglie psicologiche, quella dei 50mila malati (sono 50.418), e quello delle 6mila vittime (sono 6.077). Il lato positivo è però che la crescita sta subendo un rallentamento da due giorni: l'incremento dei positivi è stato di 3.780, mentre domenica era di 3.957 e sabato di 4.821.

Stesso discorso per le vittime: l'aumento è di 601, domenica era di 651 e sabato di 793, il giorno più nero dall'inizio dell'emergenza. Altri due numeri che fanno ben sperare sono il calo dei malati in terapia intensiva - ora il 6% del totale, nei giorni scorsi erano il 10% - e il fatto che per la prima volta anche la Lombardia fa segnare un dato finalmente positivo: i ricoverati con sintomi in ospedale sono passati da 9.439 a 9.266. Presto però per parlare di dati consolidati.

«Non sento di sbilanciarmi - dice il presidente dell'Iss Silvio Brusaferro – anche perché oggi vediamo gli effetti di quel che è avvenuto due settimane fa. Prendiamo atto che più dati consecutivi si confermano e più è chiaro che ci troviamo in una situazione favorevole». Che però rischia di tornare ad essere drammatica, per due motivi. Il primo è se non si riesce ad intercettare prima possibile «i nuovi positivi o i sospetti positivi», per fare in modo che «cessino in maniera tragica di trasmettere l'infezione».

Il secondo - che poi è quello che preoccupa di più - è un'eventuale esplosione del virus al sud. Ed è questa, ora, la «scommessa» per gli esperti, per il governo e per tutto il paese: «Il nostro grande sforzo», sottolinea Brusaferro, «è evitare che Campania, Puglia, Sicilia, facciano registrare nei prossimi giorni 'curve' di crescita come quelle che si sono viste in Lombardia».

Perché i rispettivi sistemi sanitari non reggerebbero l'urto. Per ora la curva «non sembra impennarsi»: in Puglia i positivi sono 862, con un incremento di 114 nelle ultime 24 ore, più della Sicilia che ha 681 casi e un incremento di 85 e meno della Campania, che ha 929 malati e 63 in più rispetto a domenica. Ma i comportamenti dei cittadini, ed è questo l'allarme che arriva da Brusaferro, rischiano di far invertire i numeri.

«Si vedono ancora strade piene di gente, cosa che non vediamo ormai più in altri contesti» dice il presidente dell'Iss mostrando sul cellulare la foto della prima pagina del «Mattino» di ieri, con l'immagine del rione Sanità di Napoli pieno di persone in giro. «Forse sono episodi - aggiunge - ma se teniamo tutti un atteggiamento rigoroso può essere concreta la possibilità che le curve non prendano un'impennata».

In caso contrario, l'epidemia dilagherà anche al sud. Perché, «il virus non guarda alla latitudine ma ai nostri comportamenti». È il motivo per il quale si stringono ancora le maglie dei controlli. Il Viminale cambia il modulo per l'autocertificazione inserendo le modifiche introdotte con l'ultimo Dpcm che ha vietato anche gli spostamenti per il rientro al proprio domicilio. E il Consiglio dei ministri già oggi potrebbe approvare un decreto per un inasprimento della sanzioni per chi viola i divieti. Con una sanzione amministrativa attorno ai 2mila euro e, eventualmente, anche la confisca del mezzo.

di Matteo Guidelli e Luca Laviola

-----------------
Federico Marini
skype: federico1970ca


lunedì 23 marzo 2020

Non voglio stare sull'onda emotiva dei social





Lo confesso. Non ho fatto un arcobaleno con su scritto 'andrà tutto bene', non ho usato l'hashtag #MilanoNonSiFerma e nemmeno l'#ItaliaNonSiFerma, e non ho nemmeno cantato dal balcone. Non mi va. Non mi va di stare sull'onda della comunicazione emotiva sui social.

Perché non riuscivo a farmi il selfie all'aperitivo sorridente quando era già tutto chiaro, anche che la crisi economica si sarebbe aggravata all'aggravarsi della crisi sanitaria

Perché non mi andava la sera di cantare dal balcone se la mattina avevo visto i camion portar via da Bergamo centinaia e centinaia di salme. Perché non riesco a pensare che andrà tutto bene, se per migliaia di persone è già andato tutto male, malissimo. Non mi va.

Perché mi viene il nodo in gola per chi soffre per lutti e malattie, e mi viene il nodo in gola anche per gli amici con i ristoranti chiusi, per quelli a cui sono saltati i concerti, per quelli che non hanno più clienti, per quelli che devono andare in fabbrica lo stesso, per quelli che sono medici e infermieri e ogni sera sperano di non esser stati contagiati.

Non mi va.

Certa comunicazione e certa politica emozionale in momenti come questi mi sembrano ancor più vuote del solito. Non è polemica. E' uno stato d'animo.


E forse non appartiene solo a me.

Di Elibetta Piccolotti


«Disastro Sassari Dovranno cadere diverse teste»





«Sassari è un caso nazionale, una cosa fuori dal mondo. In nessuna parte d'Italia si è verificato un così clamoroso fallimento delle procedure di sicurezza in un ospedale. A Sassari il 60 per cento dei contagi riguarda personale ospedaliero. Nel resto d'Italia la media è dell'8 per cento. C'è altro da aggiungere»?

È un atto d'accusa, anonimo, «per evitare ritorsioni», sia da parte di colleghi suscettibili e influenti che delle autorità politiche, pronte a mettere la mordacchia a chi in prima linea sta combattendo contro il coronavirus.

A parlare è un dirigente medico di alto livello dell'Azienda sanitaria di Sassari. Cinquantotto anni, ottimi studi superiori prima della laurea in medicina, incarichi di grande importanza in diverse strutture del nord Sardegna. E pone alcune domande: «C'era un piano per affrontare l'emergenza? E ancora: le decisioni sono state prese in tempo? Sono gli stessi interrogativi che, credo, si sta ponendo la Procura della Repubblica dopo l'apertura dell'inchiesta».

Che idea si è fatto a tale proposito?
«Non ho certezze. So solo che è un disastro. Quando tutto sarà finito, devono cadere alcune teste».

Impreparati?
«Come minimo. Il virus si è diffuso in Cina a gennaio. A febbraio è comparso in Lombardia. A marzo la sanità sassarese doveva essere attrezzata per l'emergenza. Il risultato, invece, è quello che abbiamo sotto gli occhi».

Ci sono stati casi anche negli ospedali a Nuoro e Cagliari.
«Vero, ma l'infezione poi non è dilagata nei reparti come a Sassari. Che pure era uno dei due hub regionali per il contrasto al Covid-19. Un bell'esempio di hub».

Cosa avrebbero dovuto fare i dirigenti?
«Elaborare un piano di emergenza, studiare percorsi dedicati, attrezzarsi di mascherine. Ben prima che il virus facesse la sua comparsa in città. Invece...»

Che clima si respira in ospedale?
«Pessimo, c'è nervosismo e non possiamo permettercelo. Ora serve sangue freddo».

Il direttore del Pronto Soccorso del Santissima Annunziata, Mario Oppes, è in malattia a casa.
Ho solo sentito voci di corridoio: forse ha subito uno stress insopportabile».

Uno dei decessi è avvenuto a Casa Serena. Cosa ne pensa?
«Un fatto preoccupante, al di là del dolore per la morte di una persona. In quella casa di riposo c'erano 150 anziani ad altissimo rischio. Sono i più vulnerabili. Il virus non sarebbe mai dovuto entrare lì dentro».

Il picco in Sardegna è ancora di là da venire?
«Ho paura di sì. E noi non abbiamo né le teste né le risorse della Lombardia. Le carenze di personale che sono state denunciate negli anni scorsi ci sono ancora».

Si possono creare più posti letto.
«Certo. E poi chi li gestisce? Un passante, un impiegato o chi altri?»

È di questi giorni la polemica sulle mascherine.
«Mandare allo sbaraglio gli operatori non protetti è stato un disastro».

Ma queste mascherine ci sono o no?
«Le forniture dovrebbero arrivare. Tra l'altro, un'azienda di Bonorva ha riconvertito la sua produzione da materassi a mascherine. Questo ci darà un po' di respiro. Ma c'è chi ne sta approfittando».

Cioè?
«Il costo di una mascherina in tempi normali era di 20 centesimi. Alcuni fornitori ora, in tempo di guerra, le vendono a 5 euro l'una».

E i respiratori?
«In Italia li fabbrica una sola azienda. E serve tempo, mica si allestisce un respiratore in un giorno. La Germania produce qualcosa, il grosso lo fanno in Cina».

Come possiamo difenderci da questa epidemia?
«Igiene personale e distanza sociale. Per il vaccino serve tempo. Molto tempo».

Ivan Paone

Articolo tratto da L’Unione Sarda delk 23.03.2020

-----------------
Federico Marini
                                                skype: federico1970ca