Mario
Floris, l'emozione dell'addio «Come il mio primo giorno, 45 anni fa» Via dal
Consiglio dopo otto mandati: «Quelle liti con Andreotti»
L'addio era deciso da tempo, però
nei giorni in cui si chiudevano le liste un po' di emozione è spuntata
fuori. «Se lo negassi mentirei», ammette Mario Floris, «è normale. Tra qualche
giorno sarò fuori per sempre dal posto dove ho lavorato a lungo».
A 81 anni il decano del Consiglio
regionale cede il passo dopo otto legislature: dal 1974 ne ha saltato solo una.
Democristiano fedele a Cossiga, poi passato dalle schegge della diaspora Dc
fino a fondare l'Uds, Floris è stato presidente della Regione (due volte, per
quattro anni complessivi) e del Consiglio regionale, e varie volte assessore.
«Sarà difficile battere questi record»,
sorride, senza far nulla per celare l'orgoglio. «E potrei continuare, sento di
avere ancora le forze».
E allora
perché si ferma?
«Mi sembra il momento giusto per
lasciare ad altri questo compito. È doveroso favorire il rinnovamento».
Tempo di
bilanci, allora.
«È stata un'esperienza esaltante, un
grande onore. Sentirsi responsabili e artefici delle sorti dei sardi,
impegnarsi per risolvere i problemi: molto affascinante».
Cosa
ricorda del suo primo giorno, nel giugno del 1974?
«Tutto. Eravamo a Palazzo Regio, mi
sentivo quasi timorato, se posso usare questo termine, di fronte ai grandi
uomini che avevano costruito l'autonomia regionale».
Chi
ammirava di più?
«Forse Pietrino Soddu.
Preparatissimo su tutto, capace di idee geniali. Ma c'erano tante figure di
alto livello, a iniziare da Paolo Dettori».
E tra gli
avversari politici?
«Anche tra loro c'erano grandi
personalità. A me piacevano molto Sebastiano Dessanay e Andrea Raggio».
Con chi
invece non andava d'accordo? Adesso si può dire.
«Ma no, mi creda, non ho avuto grandi
inimicizie. C'era un rapporto un po' conflittuale con Luigi Cogodi, una volta
si arrabbiò perché gli dissi che avevamo colto il Pci con le mani nella
marmellata. Ma sempre nel rispetto reciproco. Non come adesso».
Perché,
adesso che succede?
«C'è una ferocia diversa nella
battaglia politica. Allora i leader si contrastavano, ma poi cercavano anche di
trovare soluzioni condivise».
Forse era
anche una politica più clientelare. Quante raccomandazioni le hanno chiesto?
«Tante. Io ascoltavo personalmente
la gente, il lunedì».
Il famoso
ambulatorio.
«Se un cittadino voleva parlare con
il presidente della Regione, poteva farlo. Ma non ho mai detto bugie. Mi
dicevano: se lei vuole, può. Spesso ho dovuto spiegare che non era così».
Di quale
atto va più fiero?
«Di molti, dal primo piano del
lavoro all'avvio della continuità territoriale, fino al decreto sugli standard
urbanistici che porta il mio nome».
E di
quale errore si è pentito? Di cosa si rammarica?
«Errori ne fanno tutti, ma posso
dire di aver sempre pensato anzitutto agli interessi della Sardegna. Il
rammarico invece è non aver realizzato il sogno di fare il governatore eletto
dal popolo».
Ma lei
negli ultimi anni ha contestato l'elezione diretta.
«Prima, come Cossiga, pensavo che
servisse a unire il popolo sardo. Invece ci ha spaccati ancora di più. O sei
con uno, o sei contro di lui. È la tara di noi sardi».
Non sarà
un luogo comune?
«No, anche Francesco diceva sempre
che i lombardi e i siciliani quando andavano a Roma o a Bruxelles erano
anzitutto lombardi o siciliani. Noi non siamo mai coesi».
Quando ha
avuto responsabilità di governo, è stato difficile il
rapporto
con lo Stato?
«A volte. Ricordo la vertenza
sull'industria con Andreotti a Palazzo Chigi, noleggiammo una nave per portare
migliaia di lavoratori sardi a Roma. E posso dire di aver inaugurato la
vertenza entrate».
Quando
era presidente?
«No, da assessore alle Finanze.
Chiedevamo quote fisse dei gettiti fiscali, come previsto dallo Statuto,
anziché dover implorare ogni anno risorse dallo Stato».
Ma la
questione non si risolse.
«Una volta Andreatta mi ricevette
nel suo ufficio al ministero e mi disse: Mariolino, chiedimi quanti soldi vuoi
ma non chiedermi una quota predeterminata delle entrate fiscali dello Stato».
Ora
smetterà di fare politica?
«No, si può fare anche senza
candidarsi. Sosterrò il progetto nazionalitario dell'Uds che lanciai con
Cossiga. E poi farò formazione politica. Sa chi è il primo che vorrei invitare
per parlare ai giovani?»
No, chi?
«Ciriaco De Mita. A 90 anni, resta
il più lucido».
Che cosa
consiglia ai futuri consiglieri regionali?
«Di unirsi, chiunque vinca, sulle
grandi battaglie per la Sardegna. Dovrebbero giurarlo prima del voto».
Giuseppe Meloni
Articolo
tratto da L’Unione Sarda del 23 Gennaio 2019
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Federico
Marini
skype:
federico1970ca
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