mercoledì 23 gennaio 2019

Mario Floris, l'emozione dell'addio «Come il mio primo giorno, 45 anni fa»


Mario Floris, l'emozione dell'addio «Come il mio primo giorno, 45 anni fa» Via dal Consiglio dopo otto mandati: «Quelle liti con Andreotti»

L'addio era deciso da tempo, però nei giorni in cui si chiudevano le liste un po' di emozione è spuntata fuori. «Se lo negassi mentirei», ammette Mario Floris, «è normale. Tra qualche giorno sarò fuori per sempre dal posto dove ho lavorato a lungo».

A 81 anni il decano del Consiglio regionale cede il passo dopo otto legislature: dal 1974 ne ha saltato solo una. Democristiano fedele a Cossiga, poi passato dalle schegge della diaspora Dc fino a fondare l'Uds, Floris è stato presidente della Regione (due volte, per quattro anni complessivi) e del Consiglio regionale, e varie volte assessore.

«Sarà difficile battere questi record», sorride, senza far nulla per celare l'orgoglio. «E potrei continuare, sento di avere ancora le forze».

E allora perché si ferma?
«Mi sembra il momento giusto per lasciare ad altri questo compito. È doveroso favorire il rinnovamento».
Tempo di bilanci, allora.
«È stata un'esperienza esaltante, un grande onore. Sentirsi responsabili e artefici delle sorti dei sardi, impegnarsi per risolvere i problemi: molto affascinante».
Cosa ricorda del suo primo giorno, nel giugno del 1974?
«Tutto. Eravamo a Palazzo Regio, mi sentivo quasi timorato, se posso usare questo termine, di fronte ai grandi uomini che avevano costruito l'autonomia regionale».
Chi ammirava di più?
«Forse Pietrino Soddu. Preparatissimo su tutto, capace di idee geniali. Ma c'erano tante figure di alto livello, a iniziare da Paolo Dettori».
E tra gli avversari politici?
«Anche tra loro c'erano grandi personalità. A me piacevano molto Sebastiano Dessanay e Andrea Raggio».
Con chi invece non andava d'accordo? Adesso si può dire.
«Ma no, mi creda, non ho avuto grandi inimicizie. C'era un rapporto un po' conflittuale con Luigi Cogodi, una volta si arrabbiò perché gli dissi che avevamo colto il Pci con le mani nella marmellata. Ma sempre nel rispetto reciproco. Non come adesso».
Perché, adesso che succede?
«C'è una ferocia diversa nella battaglia politica. Allora i leader si contrastavano, ma poi cercavano anche di trovare soluzioni condivise».
Forse era anche una politica più clientelare. Quante raccomandazioni le hanno chiesto?
«Tante. Io ascoltavo personalmente la gente, il lunedì».
Il famoso ambulatorio.
«Se un cittadino voleva parlare con il presidente della Regione, poteva farlo. Ma non ho mai detto bugie. Mi dicevano: se lei vuole, può. Spesso ho dovuto spiegare che non era così».
Di quale atto va più fiero?
«Di molti, dal primo piano del lavoro all'avvio della continuità territoriale, fino al decreto sugli standard urbanistici che porta il mio nome».
E di quale errore si è pentito? Di cosa si rammarica?
«Errori ne fanno tutti, ma posso dire di aver sempre pensato anzitutto agli interessi della Sardegna. Il rammarico invece è non aver realizzato il sogno di fare il governatore eletto dal popolo».
Ma lei negli ultimi anni ha contestato l'elezione diretta.
«Prima, come Cossiga, pensavo che servisse a unire il popolo sardo. Invece ci ha spaccati ancora di più. O sei con uno, o sei contro di lui. È la tara di noi sardi».
Non sarà un luogo comune?
«No, anche Francesco diceva sempre che i lombardi e i siciliani quando andavano a Roma o a Bruxelles erano anzitutto lombardi o siciliani. Noi non siamo mai coesi».
Quando ha avuto responsabilità di governo, è stato difficile il
rapporto con lo Stato?
«A volte. Ricordo la vertenza sull'industria con Andreotti a Palazzo Chigi, noleggiammo una nave per portare migliaia di lavoratori sardi a Roma. E posso dire di aver inaugurato la vertenza entrate».
Quando era presidente?
«No, da assessore alle Finanze. Chiedevamo quote fisse dei gettiti fiscali, come previsto dallo Statuto, anziché dover implorare ogni anno risorse dallo Stato».
Ma la questione non si risolse.
«Una volta Andreatta mi ricevette nel suo ufficio al ministero e mi disse: Mariolino, chiedimi quanti soldi vuoi ma non chiedermi una quota predeterminata delle entrate fiscali dello Stato».
Ora smetterà di fare politica?
«No, si può fare anche senza candidarsi. Sosterrò il progetto nazionalitario dell'Uds che lanciai con Cossiga. E poi farò formazione politica. Sa chi è il primo che vorrei invitare per parlare ai giovani?»
No, chi?
«Ciriaco De Mita. A 90 anni, resta il più lucido».
Che cosa consiglia ai futuri consiglieri regionali?
«Di unirsi, chiunque vinca, sulle grandi battaglie per la Sardegna. Dovrebbero giurarlo prima del voto».

Giuseppe Meloni

Articolo tratto da L’Unione Sarda del 23 Gennaio 2019
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Federico Marini
skype: federico1970ca


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