Il 16 agosto del 1920 nasceva Henry Charles Bukowski. Delle
due l’una: o lo ami o lo odi. Tertium non datur. Difficile dire se un
grandissimo scrittore come lui infilasse la realtà nelle pagine o se
trasformasse le pagine in realtà. E poco importa stabilire quale sia la causa e
quale l’effetto quando da quelle righe si viene risucchiati e portati
sottacqua: Bukowski è uno che si legge in apnea.
Quella che ti circonda, mentre sei immerso nelle sue parole,
non è l’acqua limpida, fresca e cristallina di un ruscello di montagna. Non è
nemmeno il liquido amniotico del ventre materno che scalda e protegge. E’ un
gorgo torbido, piuttosto. Un mulinello con un moto vorticoso. Ti ritrovi in
balia di correnti fortissime dalle quali puoi solo lasciarti trasportare,
trattenendo il fiato per non morire annegato.
I suoi libri rivelano una vita di dolore, sentimenti ed
emozioni esplorati nei loro aspetti più profondi, foschi e inquietanti.
Percezioni di cui s’ingozzava e da cui era divorato. Il giovane Bukowski ha un
volto deturpato dall’acne, è un tedesco emigrato negli Stati Uniti, dove viene
deriso per il suo indelebile accento teutonico.
Una giovinezza di letture bulimiche, consumate di nascosto
dai genitori, pagine illuminate da una lampada tascabile gli schiudono un mondo
che non vive. Un padre duro, utilizzatore di quella pedagogia nera del Dr.
Schreber in auge nella Germania nazista, lo punisce duramente per motivi di
poco conto. Come quando, a 16 anni, rientrò ubriaco e vomitò sul tappeto del
salotto e suo padre lo afferrò per il collo e cominciò a strofinargli la faccia
sul vomito, come si fa con i cani quando fanno i bisogni in casa.
Il giovane Bukowski gli sferrò un cazzotto di una tale
violenza che lo fece stramazzare a terra. Fu l’ultima volta che provò a toccare
il figlio. Poco tempo dopo Charles se ne andrà di casa, vivrà di lavori
provvisori e insoddisfacenti, ma che gli consentiranno di riempire il frigo di
birre. Un’esistenza, la sua, che diventa il disvalore di tutto ciò che la
maggior parte della gente antepone come valore.
La scelta della semplice sopravvivenza. Il piacere, opposto
a qualsiasi morale. La mancanza di obiettivi, nella vita lavorativa e in quella
sentimentale. L’isolamento sociale. Fumo e alcool oltre i limiti della
sopportazione fisica. La misantropia. Le giornate spese all’ippodromo, come
fonte di sostentamento occasionale. Tutto questo, mescolato ora a sensibilità
ora a menefreghismo, si condenserà meravigliosamente nei suoi libri.
«Scrivere per me è come cagare, lavarmi. Sono qui solo per
scrivere la pagina successiva». Il 9 marzo 1994, all’età di 74 anni, Charles
Bukowski muore in un ospedale di San Pedro, stroncato dalla leucemia
fulminante. Quella “puttana con un dente d’oro, l’alito che sa di salame un po’
grassa e un po’ sbronza se ne va e non torna più indietro”. Nemmeno a prendere
l’orecchino che ha dimenticato sul comò.
Di
Romina Fiore
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