Nel 1991 aderii con l’entusiasmo della gioventù e la
razionalità di una scelta ponderata al PRC, nel 2013 lo abbandonai con il
dolore della sconfitta, sapendo che di quel dolore non mi sarei facilmente
liberato, non casualmente, dopo, non ho più trovato una realtà che potessi
considerare (con la stessa convinzione) la mia casa politica.
Negli anni Novanta, quando tutti erano impegnati nella
apologia del neo-liberismo, assumendo i paradigmi della flessibilizzazione e
precarizzazione del mercato del lavoro, delle privatizzazioni selvagge,
dell’adesione entusiastica alla UE di Maastricht, il PRC (pur tra tanti limiti
ed errori) è stata l’unica forza organizzata a levare la sua voce critica, a
mostrare quanto fosse effimera e destinata a infrangersi contro il muro una
crescita economica realizzata a colpi di delocalizzazioni produttive,
speculazioni finanziarie, distruzione di diritti sociali, smantellamento delle
funzioni di programmazione economica da parte dello Stato.
A partire dal 2008 è iniziata una crisi economica mondiale
(non ancora finita), che noi vedevamo prossima quando invece gli altri
pensavano di cavalcare comodamente l’onda della crescita infinita, così nel
tempo si sono materializzate, una a una, tutte quelle contraddizioni che allora
denunciammo. A beneficiare del crollo di quell’enorme castello di carte non è
stato però il PRC, né altre forze della sinistra radicale nate da quella
storia, ma il qualunquismo dei 5 stelle e la Lega di Salvini, ossia, una forza
tutt’altro che antiliberista e un’altra che di quella stagione, inabissatasi
nei fallimenti di questi anni, era parte attiva e dirigente.
Perché? Perché siamo stati degli idioti (io mi ci metto in
prima persona), perché tra gestioni politiche dissennate, impreparazione, lotte
intestine, scissioni, eccessivo amore per le Istituzioni abbiamo dilapidato in
pochi anni un patrimonio di credibilità che oggi avrebbe reso possibile a
quella forza di raccogliere i frutti del lavoro di allora. Invece siamo ridotti
tutti all’impotenza politica, alla marginalità. al punto che quanti allora
privatizzarono, flessibilizzarono, precarizzarono la vita sociale del nostro
Paese possono ergersi a censori e addirittura fare a noi la morale, ottenendo
pure il consenso dei cittadini.
La dialettica politica si sviluppa oggi su un piano
inclinato a noi avverso, da ogni punto di vista, e oramai siamo arrivati ai
pogrom, alla caccia all’uomo strada per strada, bastano determinati tratti
somatici e il colore della pelle per diventare preda e vittima. Personalmente
denuncio da diversi anni un processo di fascistizzazione del senso comune e
della cultura politica europea, ricevendo spesso in cambio l’accusa di
allarmismo insensato, ma non mi stupisco, pure la tendenza a minimizzare il
pericolo è un effetto dell’egemonia esercitata dal nazionalismo piccolo
borghese di oggi.
Lo dicevo allora e lo ripeto: quanto resta della sinistra di
classe deve prendere atto seriamente di questo fenomeno, ciò significa
riorganizzarsi subito, dandosi un coordinamento efficace a livello europeo, e predisporsi
alla resistenza contro questa incontrollabile deriva proto-fascista. Ma va
fatto ora, dopo sarà troppo tardi. Contro i miasmi razzisti del nazionalismo
piccolo borghese, in Europa, occorre restituire centralità assoluta al
conflitto sociale, alla contraddizione capitale lavoro.
Fallite le illusioni dell’intermediazione socialdemocratica,
decompostasi nell’inutilità dopo aver assunto acriticamente tutte le esigenze
del capitale e la visione del mondo liberale, solo l’unità degli sfruttati
contro gli sfruttatori può offrire una via di uscita.
Per far questo bisogna anzitutto smascherare le ambiguità di
quanti mestano nel torbido, dobbiamo isolare chi tenta di riesumare categorie
nefaste come il socialpatriottismo per indebolire le difese immunitarie delle
forze della sinistra, aprendo le porte all’offensiva egemonica del nazionalismo
e delle nuove forme di fascismo. Si tratta di una battaglia insieme filosofica
e politica nella quale i due terreni di lotta (teorico e pratico) sono
essenziali l’uno all’altro.
Credo che i segretari del PRC e del PCI debbano assumere
l’iniziativa di un nuovo processo unitario capace di unire altre forze
politiche e sociali e quanti sono tornati a casa, lo impone la gravità del
momento. Insomma ripartire dallo spirito del 1991, ma evitando di ripetere gli
stessi errori di quella storia, superando le divisioni tra i comunisti, unendo
quelle forze sociali da sempre critiche verso lo stato di cose presenti.
La via d’uscita non è da ricercare nelle scorciatoie
sovraniste del nazionalismo piccolo borghese, ma nel dare nuovamente forma
critica e coerente a una visione del mondo alternativa, capace non solo di
teorizzare e praticare, in maniera organica, il conflitto del lavoro contro le
pretese di dominio del capitale. Come dopo la prima guerra mondiale, anche
oggi, di fronte a questa gigantesca crisi organica (economica e di egemonia)
della civiltà occidentale, l’alternativa è una sola: Socialismo o barbarie.
Di
Gianni Fresu
boh, sempre piu' basito da una sinistra che non riesce piu' a dialogare con la societa' odierna....sara' perche' la societa' e' cambiata? ma loro mi risponderanno col classico " i rapporti di classe i rapporti di classe ecc ecc ecc" ..... son curioso come andranno le elzioni regionali e dopo alfine quelle europpe (senza contare che a meta' ottobre si vota in baviera dove son in ascesa quelli di afd , e senza contare le prossime elezioni in paesi come la finlandia dove le destre "reazionarie e cattive" si stann riprendendo la scena ) quando la sinistra comunista apparira' col suo vero potenziale di consenso, quello reale, circa il 2% .....
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