venerdì 29 settembre 2017

Tre punti chiave per leggere la politica europea, alla luce delle elezioni Tedesche. Di Simone Oggionni.


Viviamo tempi di profondi cambiamenti. La guerra a scacchi sul nucleare tra le due Coree, il Giappone e gli Stati Uniti; il Medio Oriente sempre più instabile; l'avanzata di Russia e Cina, da integrare necessariamente in un nuovo sistema multipolare; movimenti e sommovimenti volti a ridefinire i confini nazionali, persino nel cuore dell'Europa, che mettono in discussione le nostre certezze. Federalismo, identità nazionali, Stati, confini, sovranità: le grandi questioni del Novecento e del nuovo secolo, da rispolverare e riattrezzare.
E dentro quest'Europa, le elezioni politiche di in Germania, una vera e propria cartina di tornasole della fase che stiamo attraversando. Offro tre riflessioni schematiche, a mio avviso essenziali.
La prima è una constatazione. La Spd crolla. Perde due milioni di voti, il 17% del proprio elettorato, raggiungendo il minimo storico. Una prima analisi dei flussi dice che il primo partito a trarre vantaggio dal suo crollo è il partito di estrema destra Afd (500mila elettori Spd che passano ad Afd), il secondo è il partito di destra liberale Fdp (430mila voti). Verrebbe da dire: chi semina vento raccoglie tempesta. La grande coalizione all'opera, le sue politiche d'austerità, determinano la fine della grande coalizione (arretra anche il partito di Angela Merkel) e una svolta a destra del quadro politico complessivo. La pure interessante e coraggiosa campagna elettorale di Schulz non è bastata a cancellare anni di corresponsabilità e subalternità.

Questa, appunto, è la seconda riflessione che emerge dai numeri: la Germania va a destra. I liberali guadagnano in quattro anni tre milioni di voti, facendo il pieno di vecchi voti della Cdu e della Spd. E l'estrema destra dell'Afd accresce del 185% il proprio elettorato: quattro milioni di voti in quattro anni entrando nel Bundestag con 94 deputati e conquistando persino la maggioranza in Sassonia. Come non correlare questo exploit al malcontento diffuso a livello popolare e alle paure indotte dalla gestione dell'immigrazione e della sicurezza interna, così come a una politica economica e sociale che ha diffuso incertezze e precarietà? Si ripropone, in maniera inquietante, il monito a non sottovalutare le crisi di stabilità del sistema, che spesso anticipano e favoriscono torsioni autoritarie e reazionarie.

La terza e ultima riflessione riguarda la sinistra. Il risultato di Die Linke è l'unico spiraglio di luce. Guadagna mezzo milione di voti, più dell'11% del proprio elettorato nel 2013, cresce soprattutto all'Est – dove evidentemente è ancora percepibile un'antica e recente capacità di governo democratico nell'interesse dei ceti popolari – e compensa, seppure in minima parte, la crisi della socialdemocrazia. In quella "minima parte" c'è però il problema più grande con il quale Die Linke si deve confrontare, così come dobbiamo fare nel resto d'Europa.

La sinistra europea a sinistra della famiglia socialista non è in grado (oggi e, sola, neppure in prospettiva) di colmare il vuoto di voti, credibilità, spazio politico, capacità di governo, che il socialismo europeo in crisi approfondisce anno dopo anno. Qui si colloca il terreno della nostra ricerca, che da anni proviamo a proporre, invero con una dose di tenacia inversamente proporzionale al credito che questa analisi riceve all'interno dei gruppi dirigenti della sinistra italiana.
Se il socialismo europeo è tragicamente in crisi, è pure vero che al suo interno si sono mosse in questi anni energie ed esperienze vitali, semplicemente decisive e imprescindibili per la costruzione di una nuova soggettività europea della sinistra, che le contenga così come contenga le forze e le famiglie dell'ecologismo anti-liberista e della sinistra di governo e radicale esterne al Pse (di cui le forze comuniste o post-comuniste sono inevitabilmente il perno).
Il tema di fronte al quale siamo posti è precisamente questo: cambiare tutto, rifiutare ogni approdo sicuro, ogni ritorno alla foresta verso schemi che non dicono più nulla. Né quelli, gloriosi, a partire dall'Italia, che in passato hanno significato partiti di massa, consenso, conflittualità e forza egemonica culturale. Né quelli che negli ultimi anni hanno firmato corresponsabilmente le grandi coalizioni e il ripiegamento dei diritti del mondo del lavoro in tutta Europa, non capendo la globalizzazione e non cogliendo le tendenze di fondo della fase che si apriva.

Lavorare per una nuova soggettività europea della sinistra, radicale e di governo, non significa assecondare tensioni settarie e men che meno è la riproposizione di famiglie, tradizioni, identità, simbologie marginali o minoritarie. È la proposta di una ricerca in campo aperto, veramente libera, veramente eretica, senza la quale saremo purtroppo destinati a essere travolti dalle nostre stesse macerie.
Simone Oggionni.
http://www.reblab.it/


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